THOMAS PYNCHON
da L’arcobaleno della
Gravità
Da qualche tempo
Slothrop era ossessionato dall’idea che da qualche parte vi fosse una bomba
razzo con il suo nome dipinto sopra – se loro avevano deciso davvero di farlo
fuori (e il termine «loro» non si riferiva certo solo ai nazisti) quello era il
modo più sicuro: non gli costava niente scrivere il suo nome su tutte
le bombe, giusto?
***
Dalla pista da ballo
al piano di sotto provengono le note lamentose di Cherokee, si levano
sopra il contrabbasso, le coppie danzanti, le migliaia di piedi di quegli
snob... le luci mobili rosa non fanno pensare ai visi pallidi dei ragazzi di
Harvard e delle loro ragazze, ma a un branco di pellerossa vestiti all’ultima
moda. La canzone che stanno suonando costituisce l’ennesima bugia sui crimini
commessi dai bianchi. Sono molti i musicisti che hanno tentato di attraversare
lo stretto che porta a Cherokee, però sono più quelli che sono
naufragati di quelli che ce l’hanno fatta ad arrivare sull’altra sponda. Tutte
quelle note lunghe, interminabili... che cos’hanno in mente di farci, con tutto
quel tempo? È un complotto indiano, una congiura spirituale? Quella sera, a New
York – se si preme sull’acceleratore – forse è possibile arrivare in tempo per
l’ultimo spettacolo – nella Settima Avenue, tra la Centotrentanovesima e la
Centoquarantesima Strada, «Yardbird» Parker sta scoprendo il modo di usare le
note più alte di quegli stessi accordi per spezzare la linea melodica – ma cosa
diavolo fa, sembra una mitragliatrice... per carità, Parker dev’essere impazzito,
usa le trentaduesime, le semibiscrome – provate a ripeterlo più volte
velocemente, semibiscrome, imitando la voce acuta dei Munchkin – se ci
capite qualcosa di quella roba che si sente suonare nella Dan Wall’s Chili
House, e anche in strada – e non solo lì, mannaggia, ma in tutte le strade (nel
’39, Parker aveva già intrapreso da tempo il suo «viaggio»: quando era ormai
sicuro di sé, nei suoi assoli già risuonava l’indolente, divertito dam-di-dam
della vecchia Falciatrice in persona, maledizione), le sue note si propagano
lungo le onde radio, entrano nelle feste mondane, un giorno arriveranno
lontano, la sua musica si diffonderà dagli altoparlanti invisibili nascosti
negli ascensori e nei grandi magazzini del centro, il suo canto da uccello
volerà alto per contrastare le nenie dei Bianchi, per rovesciare la loro musica
melensa e scipita, gli archi incisi e sovraincisi senza pietà... Dunque la sua
profezia comincia ad avverarsi in quei giorni con Cherokee, perfino
lassù, nella piovosa Massachusetts Avenue, i sassofoni al piano di sotto adesso
si lanciano in... be’, a essere onesti, la musica che stan suonando è davvero
un po’ stramba...
****
Lo stato di servizio
di Katje presso i fascisti di Mussert all’apparenza è impeccabile: le viene
riconosciuto il merito di aver snidato almeno tre famiglie di ebrei, partecipa
regolarmente a tutte le riunioni, lavora nel centro di soggiorno della Luftwaffe
vicino a Scheveningen, facendosi apprezzare dai superiori per la sua efficienza
e il suo entusiasmo. Insomma, è tutt’altro che una lavativa e, a differenza di
molti, non usa il fanatismo per il partito per coprire la propria inettitudine.
Forse proprio in questo risiede l’unica parvenza di pericolosità: il suo
impegno non ha nulla di emotivo. Katje sembra avere delle ragioni precise per
essere nel partito. Una donna dotata di qualche rudimento di matematica e di ragioni
precise... «Voglio il Cambiamento» aveva detto Rilke. «Oh, voglio essere
ispirato dalla Fiamma!» Voler cambiare, diventare lauro, usignolo, vento... volere
il cambiamento, essere trasportati, lasciarsi abbracciare, cadere verso la
fiamma viva, fino a inebriare i propri sensi... non fino ad amare, poiché agire
non era più possibile... ma fino a essere perdutamente innamorati...
Katje invece no:
niente voli da falena. Blicero ne deve dedurre che Katje teme segretamente il
Cambiamento, preferendo invece più banalmente modificare le cose superficiali,
i vestiti e gli ornamenti, limitandosi al travestitismo di facciata, non solo
quando si cala nei panni di Gottfried, ma perfino quando indossa la
tradizionale tenuta da masochista, il corredo da cameriera francese così
inadatto alle sue lunghe gambe, ai suoi capelli biondi, alle sue spalle che si
muovono come ali indagatrici – il suo gioco consiste solo in questo... Katje
gioca a giocare.
Blicero non può farci
niente. Con il Reich morente, gli ordini ridotti a inutili scartoffie, ha un
tale bisogno di lei, di Gottfried, delle corregge e delle fruste di cuoio,
oggetti reali nelle sue mani ancora capaci di sensazioni, ha bisogno delle
grida di Katje, dei segni rossi delle frustate sulle natiche di Gottfried, del
suo pene, della loro bocca, delle dita di mani e piedi – durante l’inverno
queste sono cose sicure, cose su cui si può fare affidamento – Blicero non
saprebbe dire perché, però in cuor suo è fiducioso, fosse anche solo nella
formula di quella storia presa dai Märchen und Sagen, è convinto che
quella casa incantata nella foresta verrà risparmiata, che nessuna bomba potrà
mai colpirla per sbaglio.
***
La donna attraversa
quella stanza intricata – ricca di pelli morbide, mobili in tek lucidati
odoranti di limone, volute di fumo che si alzano dai bastoncini di incenso,
strumenti ottici luccicanti, tappeti rosso e oro dell’Asia centrale dalle tinte
sbiadite, decorazioni sospese di ferro battuto a nervatura aperta – attraversa
la ribalta pian piano, mangiando un’arancia agra, uno spicchio alla volta, la
sua veste di faglia ricade splendidamente in morbide pieghe, le maniche di
disegno elaborato scendono dalle spalle molto larghe, andando a raccogliersi
nei polsini abbottonati, lunghi e stretti, il tutto in un mélange indefinibile
dai toni terrigni – un po’ di verde siepe, di marrone argilla, un tocco di
ossido, un’ombra d’autunno – la luce dei lampioni filtra attraverso gli steli
dei filodendri, le cui foglie digitate si stringono nel tentativo d’afferrare
gli ultimi raggi del sole morente, lascia cadere un calmo riflesso giallino sul
collo del piede, lungo le lamelle d’acciaio delle fibbie, scivola giù, screziando
i fianchi e poi i tacchi alti delle sue scarpe di vernice, lucide al punto da
non avere altro colore se non questo pallido giallo limone, là dove vengono
sfiorate dalla luce, una luce che però loro rifiutano, come se fosse il bacio
di un masochista. Il pelo della moquette si rilascia dietro i suoi passi
sollevandosi verso il soffitto, l’impronta della suola e dei tacchi scompare
con lentezza esasperante. Lontano, da est, o meglio da sud est, il rumore sordo
dell’esplosione di un razzo, uno solo, scuote la città. La luce lungo le sue
scarpe scorre e si arresta improvvisamente, muovendosi a singhiozzo come il
traffico pomeridiano. La donna indugia un attimo, le è venuto in mente
qualcosa: la blusa di foggia militare freme, i fili di seta delle trame si
stringono a migliaia, tremanti, rabbrividendo quando la luce gelida scivola via
per poi sfiorare di nuovo le loro schiene indifese. Nella stanza l’odore di
muschio, di legno di sandalo, di cuoio, di whisky versato si fa più greve.
***
In quelle prime ore
della sera, il pubblico è radunato sui balconi e sulle terrazze, a vari
livelli. Gli occhi di tutti sono puntati verso il basso, verso un centro
comune, le gallerie di ragazze cinte in vita di foglie verdi, i prati, le
sorgenti, le alte piante sempreverdi, un evento solenne, un annuncio alla
nazione, il Presidente, con la sua ben nota voce nasale, nel bel mezzo del suo
discorso, mentre sta chiedendo al Bundestag un grande stanziamento a scopo
bellico, all’improvviso si lascia scappare un «vaffanculo»... il suo fickt
es, un’esclamazione presto divenuta immortale, risuona in cielo, risuona
per tutto il paese. Ja, fickt es! «Ho deciso di mandare tutti i soldati
a casa. Chiuderemo per sempre le fabbriche d’armi, getteremo tutte le armi in
mare. Ne ho abbastanza della guerra. Ne ho abbastanza di svegliarmi tutte le
mattine con la paura di morire.» Tutt’a un tratto è diventato impossibile
odiarlo: adesso anche lui è un essere umano, mortale come tutti. Ci saranno
nuove elezioni. La Sinistra presenterà una candidata di cui non si conosce
ancora il nome, però tutti sanno che si tratta di Rosa Luxemburg. Si
sceglieranno altri candidati talmente inetti, talmente anonimi, che nessuno li
voterà. La Rivoluzione avrà la possibilità di riuscire. L’ha promesso il
Presidente.
***
Che cosa ha veramente
sussurrato Cesare al suo protetto mentre cadeva? Et tu, Brute... questo
è tutto ciò che ci si può attendere da loro... una menzogna ufficiale che non
dice assolutamente niente. Il momento dell’assassinio è l’istante in cui il
potere e l’ignoranza del potere si incontrano, e la Morte ne è la
convalidatrice, nel senso dei Tarocchi. Quando uno parla a un altro a colpi di Et
tu, Brute, non è certo per passare il tempo. Ciò che viene detto è una
verità talmente terribile che la storia – la quale nel migliore dei casi è
un’associazione a scopo fraudolento, e non sempre composta di gentiluomini –
non ammetterà mai. La verità sarà soppressa o, in epoche particolarmente
raffinate, mascherata come qualcos’altro.
***
Porkevič ha smesso da
tempo di discutere gli ordini – non discute neppure più il proprio esilio. Le
prove che lo implicano nella cospirazione di Bucharin, della quale peraltro non
ha mai conosciuto i particolari, in un certo senso potrebbero anche avere un
loro fondamento – quelli del Blocco Trotzkista forse lo conoscevano di fama,
forse avevano usato il suo nome per scopi che sarebbero rimasti per sempre
segreti... per sempre segreti: esistono forme d’innocenza, lui lo sa,
per le quali tutto ciò non si può concepire, tanto meno accettare così come ha
fatto lui. Poiché forse, in fondo, si tratta solo dell’ennesimo episodio del
grande sogno patologico di Stalin. Almeno lui, Porkevič, poteva contare sulla
fisiologia, su qualcosa al di fuori del Partito... per quelli che potevano
contare solo sul Partito, invece, quelli che sul Partito avevano investito
tutta la loro vita per poi essere semplicemente epurati, doveva essere come
morire... non essere mai certi di niente, non avere mai la precisione del
laboratorio... in quei vent’anni, era stato proprio quello, grazie a Dio, a
impedirgli di impazzire. Almeno loro non potranno mai...
***
Il Paranoid
Systems of History (PSH), quel periodico degli anni Venti di effimera
durata di cui sono misteriosamente scomparsi tutti i cliché, arrivava persino a
suggerire, in più di un editoriale, che l’Inflazione tedesca fosse stata
provocata artificialmente, al solo scopo di spingere i giovani appassionati di
Tradizione Cibernetica a occuparsi di Controllo: tutto sommato, un’economia
gonfiata dall’inflazione sale in alto come un pallone aerostatico, la sua
definizione della superficie terrestre sale liberamente di valore,
incontrollata, continuando ad andare alla deriva con il passare dei giorni,
mentre il sistema di controllo retroazionato che avrebbe dovuto teoricamente
mantenere costante il valore del marco, era invece pietosamente fallito... Il
guadagno unitario attorno all’anello, il guadagno unitario, il resto zero,
silenzio! E avanti così, erano quelle le rime segrete della Disciplina del
Controllo nella sua infanzia – rime segrete e terrificanti, come narrano
le cronache peccaminose. Le oscillazioni divergenti di ogni tipo erano quasi la
Minaccia Peggiore. In quei campi di ricreazione non si potevano spingere le
altalene oltre un certo angolo rispetto alla verticale. I litigi si risolvevano
velocemente e in modo agevole. I giorni di pioggia non portavano mai con sé
molti tuoni o lampi, ma solo un altezzoso grigiore vitreo che si addensava
nelle zone inferiori, un panorama monocromatico delle valli, piene di cespugli
e di arbusti abbattuti ricoperti di muschio, che cercavano di conficcare le
loro radici in cielo per un gioco non del tutto maligno (una piccola sorpresa
bianca per le élite lassù, le quali non prestavano la minima attenzione, la
minima...), valli intrise d’autunno e, nascosto dietro la superficie dorata del
panorama, un colore marrone scuro, da zitella avvizzita... acquazzoni appassiti
in modo assai selettivo, molto fastidiosi, stuzzicanti, che ci costringevano a
trovare riparo oltre gli appezzamenti vuoti, nelle stradine secondarie, le
quali diventavano sempre più misteriose, dissestate, spezzettate, a un
appezzamento ne seguiva un altro, tortuoso sette volte tanto, se non di più, ci
costringevano a girare attorno alle siepi squadrate, ad attraversare le stramberie
ottiche della luce del giorno finché, febbrili, silenziosi, non uscivamo dalla
zona delle strade per ritrovarci nella campagna, nei campi trapuntati di nero,
nei boschi... l’inizio della foresta vera e propria, dove già si poteva
intravedere il travaglio che ci attendeva, e in cuor nostro cominciavamo a
tremare... ma così come non è possibile spingere un’altalena oltre una certa
angolazione, allo stesso modo non è possibile penetrare nella foresta oltre un
certo raggio. Si poteva sempre porre un limite a tutto. Era così facile
crescere in quell’ordinamento. Niente poteva essere più sano, più integro. I
margini delle cose si intravedevano raramente, tantomeno ci si trastullava o si
lottava con loro. Anche laggiù esisteva la distruzione, certo, così come
esistevano i dèmoni – compreso il diavoletto di Maxwell – laggiù, nel
fitto del bosco, con le altre bestie selvagge che capriolavano fra i terrapieni
della vostra sicurezza...
Il percorso terribile
del Razzo era stato dunque ridotto, letteralmente, in termini borghesi nei
termini di un’equazione in cui si mescolano con eleganza la filosofia e la
meccanica, il cambiamento astratto e gli snodi cardanici di vero metallo, in
cui si descrive il movimento dal punto di vista del controllo di imbardata:
per preservare,
proteggere, governare il suo percorso tra Scilla e Cariddi, fino al
Brennschluss finale.
***
Apparentemente, la
proprietà principale che si cercava di raggiungere il più delle volte in queste
materie era la resistenza – la prima delle tre virtù della Plasticità:
Resistenza, Stabilità e Biancore (Kraft, Standfestigkeit, Weiße:
quante volte queste parole erano state scambiate per uno slogan nazista, e in
effetti di solito era davvero difficile distinguerle sui muri luccicanti di
pioggia, mentre gli autobus procedevano in un grattar di marce nelle strade
adiacenti, e i tram avanzavano in uno stridio metallico, e la gente se ne stava
per la maggior parte silenziosa, e la luce del primo imbrunire si scuriva
assumendo la tessitura del fumo della pipa, e i giovani passanti con il
cappotto gettato sulle spalle, le braccia libere al suo interno, sembrava
stessero offrendo un riparo a dei nanerottoli, oppure sembravano distolti dai
loro impegni, trascinati in una estatica relazione tattile con la fodera,
ancora più seducente del nuovo nylon...).
****
Quel tipo vestito di
verde, che si rivela essere un argentino, un certo Francisco Squalidozzi, si
attende una reazione... il passo chiave è la fine di un verso di Leopoldo
Lugones, il grande poeta argentino: «Adesso vi dirò, in versi, come l’ho
concepita, libera dalla macchia del Peccato Originale...». Si tratta della
rivoluzione di Uriburu del 1930. Il giornale è vecchio di quindici anni. È
impossibile sapere quale tipo di reazione Squalidozzi si attenda da Slothrop, a
ogni modo tutto quello che riceve è indifferenza assoluta. Una reazione a
quanto pare accettabile, l’argentino presto si rilassa quanto basta da
confidargli che lui, insieme a una decina di colleghi, fra cui Graciela Imago
Portales, quell’eccentrica figura nota in campo internazionale, qualche
settimana prima sono riusciti a impadronirsi di un vetusto U-boot, a Mar del
Plata, e ora hanno riportato il sommergibile tedesco al di qua dell’Atlantico,
per cercare asilo politico in Germania, non appena la Guerra sarà finita...
***
«Ebbene» come giunge
ad affermare il critico cinematografico Mitchell Prettyplace nel suo trattato
definitivo in diciotto volumi su King Kong, «lui l’amava veramente.»
Forte di questa tesi, Prettyplace apparentemente non ha tralasciato nulla, il
suo studio include ogni ripresa – compresi gli spezzoni scartati al momento del
montaggio, analizzati minuziosamente per trovarvi tutti gli elementi simbolici
possibili e immaginabili – la biografia completa di tutte le persone coinvolte
nella produzione del film, le comparse, i macchinisti, i tecnici di
laboratorio... perfino le interviste ai Kultori di King Kong i quali, per poter
essere ammessi alla setta, devono aver visto il film almeno cento volte ed
essere pronti a sostenere un esame di ammissione di otto ore... Eppure, eppure:
bisogna tener conto della Legge di Murphy, quella riformulazione volgare, da
proletario irlandese, del teorema di Gödel – quando si è pensato tutto,
quando si è certi che tutto funzionerà, che non ci saranno sorprese... qualcosa
sicuramente andrà storto. E così, stando alle permutazioni e alle
combinazioni dell’opera di Pudding, Tutto quello che può succedere
nell’ambito della politica europea, relative al 1931, l’anno in cui ha
visto la luce il teorema di Gödel, Hitler non ha la minima possibilità di
riuscita.
***
Una delle attrazioni
principali era l’elegante collezione di tute spaziali Raumwaffe, disegnate dal
celebre sarto militare Heini di Berlino. La collezione ospitava divise talmente
abbaglianti da poter entusiasmare i giovani protagonisti di un’operetta di
fantascienza – si potevano addirittura scorgere le tremolanti immagini
televisive, dai colori strani, lungo le unghie dei piedi – non solo, Heini
aveva perfino ideato delle casacche di seta per i simpatici piccoli Fantini
Spaziali (Raumjockeis), equipaggiati di frustini elettrici, i quali un
giorno si sarebbero avventurati fuori dalla barriera luminescente, ai margini
della Raketen-Stadt, sfrecciando sui loro «cavalli» levigati fatti di
meteorite, tutti con la stessa faccia stilizzata (si vede un’immagine a
contrasto forte del cavallo dietro, la quale mette in risalto i suoi occhi
dementi, i suoi denti, la parte oscura sotto il suo posteriore...), mentre i
gas dei propulsori si liberano come peti dal loro sedere – i giovani attori
ridono scioccamente per quell’indecente episodio scatologico e, vincendo la
forza di gravità – in quel luogo ridotta a poco più di un sospiro – avanzano
piano muovendosi a scatti, radiosi, in uno sfoggio di plastica fluorescente,
tornano al loro valzer, un Valzer del Futuro stranamente pubblico, un corale
vagamente inquietante, dai suoni granulosi e dissonanti, implicito nel silenzio
turbinoso delle facce, nelle nude scapole sollevate, così spazial-viennesi,
così spossate del Domani...
***
Una delle gioie più
dolci della vittoria, oltre al potersi abbandonare ai saccheggi e al sonno,
dev’essere il poter ignorare i divieti di parcheggio.
***
Nelle montagne
attorno a Nordhausen e Bleicheröde, nei pozzi delle miniere abbandonate, vivono
i membri dello Schwarzkommando. Di questi tempi non sono più una formazione
militare: adesso sono un popolo, gli herero della Zona, venuti dall’Africa
sudoccidentale, in esilio da due generazioni. Erano stati i primi missionari
renani a portarli con sé, al loro ritorno nella Metropoli, quel grande zoo
grigio, come esemplari di una razza forse in via d’estinzione. Li avevano
benevolmente sottoposti a tutta una serie di esperimenti: gli avevano fatto
vedere le cattedrali, li avevano portati alle soirée wagneriane, gli avevano
fatto indossare la biancheria intima Jaeger, avevano cercato di destare in loro
l’interesse per la propria anima. Altri erano stati portati in Germania come
domestici dai soldati inviati in Africa per sedare la grande rivolta herero del
1904-1906. Ma la maggior parte dei leader herero attuali erano arrivati solo
dopo il 1933. Tutto questo nel quadro di un progetto – mai apertamente ammesso
dal partito nazista – di instaurare delle giunte militari negre, dei governi
ombra in grado di prendere il potere dopo l’eventuale caduta delle colonie
inglesi e francesi nell’Africa nera, sul modello del piano tedesco per il
Magreb. All’epoca, il Südwest era un protettorato amministrato dall’Unione
Sudafricana, ma a detenere il potere vero e proprio erano ancora alcune vecchie
famiglie coloniali tedesche, le quali cooperavano con loro.
Adesso esistono
numerose comunità sotterranee nei pressi di Nordhausen/Bleicheröde. Da quelle
parti sono conosciute, collettivamente, con il nome di Erdschweinhöhle. Nella
lingua herero è una barzelletta, amara. Per gli ovatjimba, la più miserabile
tribù herero, senza villaggio e senza bestiame, l’animale totem era
l’Erdschwein, o aardvark. Gli ovatjimba avevano derivato il loro nome da lui,
non si nutrivano mai della sua carne, scavavano la terra per cercar da
mangiare, proprio come faceva lui. Vivevano come reietti, nel Veld,
all’addiaccio. Li potevi facilmente vedere, la notte, dalla strada ferrata, i
loro fuochi sfolgoravano splendidi controvento, fuori tiro dai fucili. Di loro
sapevi che cosa temevano... ma non che cosa volevano, o che cosa li spingeva.
Gli impegni però ti chiamavano nell’entroterra, nelle miniere, e così, mentre
ti lasciavi dietro le luci dei loro fuochi scoppiettanti, ti lasciavi dietro
anche il bisogno di pensare ancora a loro.
Tuttavia, nel girarti
per andar via, ti sei chiesto chi fosse quella donna sola, in una buca del
terreno, immersa fino alle spalle nel cunicolo scavato dall’aardvark, una testa
radicata nella superficie piana del deserto, lo sguardo fisso, mentre dietro di
lei si stagliavano le falde oscure delle montagne, perdendosi lontane, nella
luce della sera. La donna sente sul proprio ventre la pressione incredibile di
quei chilometri di sabbia e di argilla. In fondo al sentiero, ad attenderla, ci
sono i fantasmi luminosi dei suoi quattro bambini nati morti, giacciono fra le
cipolle selvatiche simili a grossi vermi, senza alcuna possibilità di ricevere
conforto, reclamano a turno, piangendo, un latte ancora più sacro di quello che
viene benedetto e assaggiato nelle caravazze del villaggio. In linea preterita,
l’hanno indirizzata in quel punto, affinché lei possa entrare in contatto con
il dono genetico naturale della Terra. La donna sente la forza fluire in lei
attraverso ogni sua porta, è come un fiume fra le cosce, una luce guizzante
sulla punta di tutte le dita. È una forza sicura e rigenerante come il sonno. È
un calore. Più la luce declina, più lei si sottomette: all’oscurità, all’acqua
che discende dall’aria. È un seme nella Terra. Il sacro aardvark le ha scavato
il giaciglio.
Nel Südwest,
l’Erdschweinhöhle era un potente simbolo di fertilità e vita. Ma qui, nella
Zona, la sua vera funzione è meno chiara. Al momento, all’interno dello
Schwarzkommando vi sono forze che hanno optato per la sterilità e la morte. È
una lotta condotta per lo più nel silenzio, nella notte, nelle nausee e nei
crampi delle gravidanze e degli aborti spontanei.
***
Si fanno chiamare
otukungurua. Sì, cari esperti di cose africane, dovrebbe essere «omakungurua»,
ma loro hanno sempre avuto cura – dire cura è forse un po’ troppo esagerato,
troppo salutare – di sottolineare che il prefisso oma si riferisce
unicamente all’uomo e agli esseri viventi. Otu si riferisce alle cose
inanimate e alla sollevazione, ed è così che loro si immaginano. Rivoluzionari
dello Zero, intendono portare avanti quello che era cominciato fra i vecchi
herero, dopo che la rivolta del 1904 era fallita. Vogliono la denatalità. Il
loro è un suicidio razziale programmato. Vogliono portare a termine lo
sterminio cominciato dai tedeschi nel 1904.
Il declino delle
nascite presso gli herero, durante la generazione precedente, era materia di
grande interesse nel mondo medico di tutta l’Africa del sud. I bianchi
seguivano il fenomeno con preoccupazione, come se si fosse trattato di
un’epidemia di peste bovina. Era davvero irritante vedere il numero dei propri
sudditi scemare così, anno dopo anno. Che cos’era una colonia senza i suoi
indigeni di carnagione bruna? Che divertimento c’era se morivano tutti senza
essere sostituiti? Non sarebbe rimasto che un grosso pezzo di deserto, niente
più domestiche, braccianti agricoli, manovali, minatori – ehi, ehi, un momento,
ma certo, è proprio Karl Marx, quel vecchio furbone razzista sta cercando di
defilarsi, i denti stretti e le ciglia inarcate, sta cercando di far credere
che sia solo una questione di Manodopera a Basso Costo e di Mercati
d’Oltremare... Oh, no. Le colonie sono molto, molto di più. Le colonie sono i
gabinetti esterni dell’anima europea, dove uno può calare le braghe e
rilassarsi un po’, gustando l’odore della propria merda. Dove uno può piombare
ruggendo sulla fragile preda negra, dando fondo alla propria voce, ingozzandosi
allegramente del suo sangue. Non è così? Dove uno può semplicemente sguazzare
nel fango, accoppiarsi, lasciarsi andare in quelle membra scure e accoglienti,
i capelli morbidi e lanosi quanto lo sono i peli dei propri genitali proibiti.
Dove il papavero, la canapa e la coca crescono verdi e rigogliosi, non secondo
il colore e lo stile della morte, tipici della segale cornuta e dell’agarico
bianco, il carbonchio e il fungo originari dell’Europa. L’Europa cristiana è
sempre stata sinonimo di morte, caro Karl, di morte e di repressione. Laggiù,
nelle colonie, ci si può abbandonare senza ritegno alla vita, alla vita e alla
sensualità in tutte le sue forme, senza che questo possa recare alcun danno
alla Metropoli, senza insudiciare le cattedrali, le statue di marmo bianco, i
pensieri nobili... Non lo verrà a sapere nessuno. I silenzi, laggiù, son così
profondi da poter assorbire tutto, anche i comportamenti più degradanti, più
bestiali...
Secondo alcuni degli
uomini di medicina più razionali, questa diminuzione della natalità fra gli
herero andava attribuita a una carenza di vitamina E nell’alimentazione –
secondo altri all’utero stranamente stretto e allungato delle donne, una
particolarità che rendeva la fecondazione difficile. Ma dietro a tutte queste
speculazioni scientifiche, a questo linguaggio razionale, nessun afrikaner
bianco era in grado di esprimere a parole l’effetto che faceva... Nel
Veld si aggirava qualcosa di sinistro: bastava guardare le loro facce,
soprattutto quelle delle donne, allineate dietro i recinti spinati, per capire,
senza bisogno di prove razionali, che tutto quello era opera di una mente
tribale, una mente che aveva scelto il suicidio... sconcertante, non è vero?
Forse siamo stati un po’ ingiusti con loro, forse non avremmo dovuto prendergli
il bestiame e le terre... e poi, i campi di lavoro coatto, il filo spinato, le
palizzate... forse era un mondo in cui non volevano più vivere. Del resto, è
tipico da parte loro rinunciare, strisciar via per andare a morire da qualche
parte... Perché non vogliono neppure trattare? Si potrebbe cercare di trovare
una soluzione, una soluzione qualunque...
Per gli herero la
scelta era stata semplice, o una morte o l’altra: la morte tribale o la morte
cristiana. La morte tribale aveva un senso. La morte cristiana nessuno: gli
sembrava una pratica religiosa di cui non avevano alcun bisogno. Ma per gli
europei, caduti nella Truffa del Bambin Gesù da loro stessi escogitata, ciò a
cui stavano assistendo fra gli herero era un mistero impenetrabile, tanto
quanto i cimiteri degli elefanti, o i lemming che si lanciavano in mare.
****
Di tutte le storie
che si raccontano di quell’epoca, questa è la più tragica. I profughi avevano
passato parecchi giorni nel deserto. Per aiutarli, Khama, re dei bechuana,
aveva inviato loro delle guide, dei buoi, dei carri e dell’acqua. Ai primi
arrivati era stato detto di bere piano, poco alla volta. Ma quando i
ritardatari erano finalmente giunti nell’accampamento, gli altri dormivano
tutti, per cui nessuno li aveva avvisati. L’ennesimo messaggio andato perduto.
Avevano bevuto fino a scoppiare, esalando l’anima a centinaia. La madre di
Enzian era una di loro. Enzian si era addormentato sotto una pelle di bue,
stremato per la fame e per la sete. Si era risvegliato fra i morti. A trovarlo,
si dice, era stata una banda nomade di ovatjimba, che lo avevano preso con loro
e lo avevano accudito. Lo avevano riportato indietro, lasciandolo davanti al
villaggio di sua madre, affinché vi facesse ritorno a piedi da solo. Erano
nomadi, avrebbero potuto benissimo seguire una qualsiasi altra direzione in
quell’immenso paese desolato, invece lo avevano riportato nello stesso punto da
cui era partito. Al villaggio non era rimasto quasi nessuno. Molti erano
partiti per il trek, altri erano stati portati via, verso la costa, per essere
ammassati nei kraal, oppure per essere costretti a lavorare alla ferrovia che i
tedeschi stavano costruendo nel deserto. Molti altri erano morti per aver
mangiato il bestiame infettato dalla peste bovina.
Nessun ritorno. Il
sessanta per cento degli herero erano stati sterminati. I rimanenti venivano
usati come fossero animali. Enzian era cresciuto in un mondo occupato dai
bianchi. La cattività, la morte improvvisa, le partenze senza ritorno erano una
cosa comune di tutti i giorni. A un certo punto Enzian si era chiesto perché
era sopravvissuto, però non aveva saputo trovare nessuna spiegazione logica.
Non credeva potesse trattarsi di un processo di selezione. Ndjambi Karunga e il
Dio cristiano erano troppo lontani. Non c’era nessuna differenza fra il
comportamento di un dio e l’opera del caso. Weissmann, il suo protettore
europeo, aveva sempre creduto di esser stato lui a corrompere Enzian,
facendogli abbandonare la sua religione. Invece erano stati gli dèi che se
n’erano andati da soli: gli dèi avevano abbandonato il loro popolo... Enzian
aveva lasciato che Weissmann credesse quel che voleva. La sete di colpa di
quell’uomo era insaziabile quanto la sete d’acqua del deserto.
***
All’inizio dell’era
staliniana Čičerin era stato assegnato a una postazione remota, il cosiddetto
«angolo dell’orso» (medvežhij ugolok) nella regione dei Sette Fiumi.
Dove d’estate i canali di irrigazione stillavano il loro sudore formando un
confuso lavoro a greca lungo l’oasi verde. Dove d’inverno i bicchieri da tè
appiccicosi ornavano i davanzali, i soldati giocavano a preference e
uscivano di casa solo per andare a pisciare, o a sparare con il loro
ultimissimo modello del Moisin ai lupi sorpresi in strada. Era una landa
desolata in cui la nostalgia della città veniva affogata nell’alcol... i
chirghisi passavano silenziosi a cavallo, la terra era scossa da interminabili
tremori... a causa dei terremoti, nessuno costruiva case a più di un piano, e
così la città aveva l’aspetto di un film sul «selvaggio West»: una scura strada
polverosa, fiancheggiata da grandiose false facciate di due o tre piani.
Čičerin era andato
fin laggiù, fra i membri di quella lontana tribù, a portar loro il dono
dell’alfabeto: per comunicare avevano solo la parola, i gesti, il tatto. Non
avevano neppure un alfabeto arabo da dover sostituire. Čičerin agiva di comune
accordo con il centro Likbez locale, parte di una serie di centri noti a Mosca
come «džurt rossi». I chirghisi, vecchi e giovani, arrivavano dalle pianure
ancora impregnati dell’odore di cavallo, di latte inacidito, di fumo d’erba,
entravano nella tenda e sgranavano gli occhi davanti a quelle lavagne piene di
segni di gesso. Le rigide lettere latine erano quasi altrettanto strane per i
quadri russi – Galina, alta e imponente nei suoi pantaloni smessi dell’esercito
e nelle sue camicie grigie cosacche... Ljuba, l’amica del cuore di Galina, il
viso dolce e i capelli ondulati... Vaslav Čičerin, la spia politica... insomma,
per tutti gli agenti segreti (anche se loro non la pensavano così) che
rappresentavano l’NTA (Nuovo Alfabeto Turco) in quella regione straordinariamente
aliena.
La mattina, dopo il
rancio, Čičerin è solito fare un giretto fino allo džurt rosso con l’intenzione
di vedere Galina, la pudibonda maestra di scuola – probabilmente lo attrae
poiché riscontra in lei un paio di affinità genetiche femminili... comunque sia...
spesso, quando esce, Čičerin trova il cielo mattutino pieno di fulmini diffusi,
scroscianti, abbaglianti. Un orrore. La terra trema, appena al di sotto della
soglia di percezione. Potrebbe essere la fine del mondo, sennonché, per l’Asia
centrale, è un giorno come tanti. Un tremore dopo l’altro, grande quanto il
cielo. Le nuvole scure, alcune dai contorni nitidissimi, neri e frastagliati,
veleggiano come una flotta verso la regione artica asiatica, sopra le
vaste dessiatine di graminacee, di steli di verbasco verdi e
grigi che ondeggiano a perdita d’occhio, increspandosi al vento. Un vento
sorprendente. Čičerin invece se ne sta lì, nella strada, a sistemarsi i
pantaloni con un gesto brusco, mentre il vento sferza le punte dei risvolti
della sua giacca, facendoli sbatacchiare sul petto, se ne sta lì a maledire
l’Esercito, il Partito, la Storia: insomma, qualunque cosa lo abbia portato lì.
Non amerà mai quel cielo, quella pianura, quella gente, il loro bestiame. Né lo
rimpiangerà mai, no, nemmeno nei peggiori bivacchi lungo le paludi della sua
anima, negli incontri nudi di Leningrado con la certezza della propria morte,
della morte dei suoi compagni, non cercherà mai rifugio nel ricordo della
regione dei Sette Fiumi. E neppure nel ricordo di una musica sentita, delle
escursioni d’estate... di un cavallo sullo sfondo della steppa,
all’imbrunire...
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È un ajtys,
una tenzone musicale in versi. Il ragazzo e la ragazza se ne stanno al centro
del villaggio, impegnati in una specie di gioco sarcastico – del tipo «mi piaci
abbastanza anche se hai un paio di piccoli difetti, per esempio...» –
accompagnati dalle note dardeggianti delle kobza e delle dombra,
prodotte dalle corde raschiate e pizzicate. La gente ride alle battute buone.
Per riuscire in questo gioco, bisogna essere pronti di spirito: i due
partecipanti si scambiano una serie di strofe di quattro versi, in cui il
primo, il secondo e il quarto verso devono far rima, non devono avere una
lunghezza specifica ma solo delle pause per respirare. Ciononostante, è un
gioco delicato. E, a volte, anche offensivo. Si conoscono dei casi, in alcuni
villaggi, in cui, dopo un ajtys, i duellanti non si sono più parlati per
anni.
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Una notte soave,
spalmata di stelle dorate, una di quelle notti nella pampa di cui amava
scrivere Leopoldo Lugones. Il sommergibile tedesco si culla silenzioso in
superficie. Gli unici rumori che si sentono sono il borbottio della pompa
sottocoperta, che ogni tanto si inserisce automaticamente per aspirare l’acqua
della sentina, e El Ñato dietro, sulla poppa estrema, con la sua chitarra, che
suona delle tristes e delle milongas di Buenos Aires. Beláustegui
è di sotto che sta lavorando al generatore. Luz e Felipe dormono.
Graciela Imago
Portales si dondola pigramente vicino agli affusti da 20 mm, l’aria pensierosa.
Ai suoi tempi, a Buenos Aires, Graciela era la scema della città, non faceva
del male a nessuno, andava d’accordo con tutti, le sue amicizie coprivano tutto
l’arco delle posizioni politiche, da Cipriano Reyes, il quale una volta aveva
intercesso in suo favore, ad Acción Argentina, l’organizzazione per cui lei
lavorava prima che questa venisse bandita. Graciela era la favorita dei
letterati. Borges, così si diceva, le aveva perfino dedicato una poesia ( «El
laberinto de tu incertidumbre / Me trama con la disquietante luna...»)
Nell’equipaggio che
si è impadronito di quel sommergibile sono rappresentate tutte le manie
argentine. El Ñato se ne va in giro parlando nel gergo dei gaucho
dell’Ottocento – le sigarette per lui sono pitos, i mozziconi puchos,
lui non beve la caña ma la tacuara, e quando è ubriaco è mamao.
A volte Felipe deve fargli da traduttore. Felipe è un giovane poeta scontroso,
animato da molte passioni sgradevoli, fra cui le sue fantasie romantiche sui
gaucho. È sempre lì che sviolina El Ñato.
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Nel corso degli anni
Venti e Trenta aveva lavorato lì come attrice, oltre che a Tempelhof e a
Staaken, però quello era sempre stato il suo posto preferito. Lì aveva recitato
sotto la direzione del grande Gerhardt von Göll, in una decina di film
dell’orrore di tono vagamente pornografico. «Ho capito subito che era un genio.
Io non ero nient’altro che una sua creazione.» Non aveva la stoffa della
stella, come lei stessa ammette candidamente, non era né una Dietrich, né una
vamp come Brigitte Helm. Però aveva un qualcosa che loro volevano («Loro chi?»
chiede Slothrop. «Non saprei» risponde la Erdmann). L’avevano soprannominata
l’anti-Dietrich: non una rovinafamiglie, ma una bambola – languida, sfinita…
«Ho visto tutti i film che abbiamo fatto», rammenta lei, «alcuni anche sei o
sette volte. Si direbbe che non mi muovo mai. Non muovo neppure la
faccia. Ach! Quegli interminabili primi piani col velatino… avrebbero
potuto benissimo usare la stessa inquadratura all’infinito… Perfino quando
scappavo – nei miei film doveva esserci sempre qualcuno che mi inseguiva,
mostri, pazzi, criminali – ero sempre così… impassibile» il suo braccialetto
manda un luccichio, «così… monumentale. Quando non scappavo, di solito ero
legata o incatenata a qualcosa. Venga, le faccio vedere.» La donna conduce
Slothrop in quello che resta di una camera della tortura, i denti della ruota di
legno spezzati, i muri in gesso sfaldati e scheggiati, la polvere accumulata,
le torce spente e fredde, infilate di sbilenco nel loro anello a muro. La donna
prende le catene di legno, la vernice argentata che le ricopriva praticamente
scomparsa, e le fa scorrere rumorosamente fra le dita guantate. «Questo era uno
dei set usati per Alpdrücken. A quei tempi Gerhardt amava ancora le
illuminazioni esagerate.» Le fini grinze dei suoi guanti si colorano d’argento
mentre lei spolvera il cavalletto e vi si distende sopra. «Così…» aggiunge,
alzando le braccia e insistendo affinché lui le assicuri i polsi e le caviglie
agli anelli di latta. «La luce proveniva allo stesso tempo dall’alto e dal
basso, cosicché ognuno aveva due ombre: quella di Caino e quella di Abele, come
diceva Gerhardt. Era in pieno periodo simbolista. In seguito, ha cominciato a usare
un’illuminazione più naturale, a girare le riprese all’aperto.» Erano andati a
Parigi, a Vienna. A Herrenchiemsee, nelle Alpi bavaresi. Von Göll sognava da
tempo di fare un film su Luigi II di Baviera. Per questo motivo per poco non
era finito nella lista nera. A quell’epoca andava di moda Federico. Non veniva
considerato molto patriottico sostenere che un sovrano tedesco potesse essere
matto. Ma davanti a tutti quegli ori, quegli specchi, quei chilometri di
decorazioni barocche, anche Von Göll era uscito un po’ di senno. Soprattutto
davanti a quei lunghi corridoi… «La metafisica del corridoio», era così
che i francesi chiamavano quella condizione… Gli amanti dei corridoi normali
sorrideranno teneramente al comportamento di Von Göll, il quale, finita da
tempo la pellicola nella bobina, ancora carrellava imperterrito lungo quelle
dorate fughe prospettiche, con un sorriso sciocco dipinto sulle labbra. Il
calore di quelle immagini sopravviveva perfino sulla pellicola ortocromatica,
in bianco e nero. Ovviamente, il film non era mai uscito. Das wütende Reich:
come avrebbero potuto accettare un titolo simile senza protestare? C’erano
state trattative interminabili. Alcuni ometti azzimati, il distintivo nazista
sul risvolto, marciavano sul set interrompendo le riprese, andando regolarmente
a sbattere il naso contro le pareti di vetro. Avrebbero accettato qualsiasi
cosa al posto di «Reich», perfino «Königreich», ma Von Göll non ne voleva
sapere. Camminava sul filo del rasoio. In compenso, aveva cominciato subito le
riprese di La Buona Società, un film che, si dice, Goebbels aveva
trovato incantevole, al punto che lo aveva addirittura visto tre volte,
ridacchiando e dando dei colpetti di gomito al vicino di sedia, forse Adolf
Hitler. Margherita recitava la parte della lesbica che lavorava nel caffè:
«Quella con il monocolo, che alla fine viene frustata a morte dal travestito,
si ricorda?». Le sue gambe sode fasciate nelle calze luminose di seta ora hanno
un aspetto rigido, meccanico, le sue ginocchia levigate strusciano una contro
l’altra mentre i ricordi affiorano nella sua mente, eccitandola. Ed eccitando
anche Slothrop. Lei sorride nel vedere i suoi pantaloni di pelle scamosciata
tendersi all’altezza dell’inforcatura. «Era un bell’uomo. A ogni modo, non
aveva importanza. Lei me lo ricorda un po’, in un certo senso. Specialmente…
quegli stivali… La Buona Società è stato il nostro secondo film, ma il
primo è stato questo» – questo? – «Alpdrücken. Credo che sia lui
il padre della mia Bianca. È stata concepita durante le riprese. Lui faceva la
parte del Grande Inquisitore che mi torturava. Ah, eravamo gli Innamorati del
Reich – Greta Erdmann e Max Schlepzig, la Coppia Meravigliosa…»
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Kurt Mondaugen aveva
interpretato l’accaduto come un segno. Era uno di quei mistici tedeschi
cresciuti leggendo Hesse, Stefan George e Richard Wilhelm, pronti ad accettare
Hitler sulla base della metafisica di Demian. Il combustibile e
l’ossidante gli apparivano come una coppia di opposti, i princìpi maschile e
femminile che si univano nell’uovo mistico della camera di combustione: la
creazione e la distruzione, il fuoco e l’acqua, la polarità positiva e la
polarità negativa della chimica…
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