lunedì 30 dicembre 2024

 

THOMAS PYNCHON




 

da L’arcobaleno della Gravità

 

Da qualche tempo Slothrop era ossessionato dall’idea che da qualche parte vi fosse una bomba razzo con il suo nome dipinto sopra – se loro avevano deciso davvero di farlo fuori (e il termine «loro» non si riferiva certo solo ai nazisti) quello era il modo più sicuro: non gli costava niente scrivere il suo nome su tutte le bombegiusto?

 

 

***

 

Dalla pista da ballo al piano di sotto provengono le note lamentose di Cherokee, si levano sopra il contrabbasso, le coppie danzanti, le migliaia di piedi di quegli snob... le luci mobili rosa non fanno pensare ai visi pallidi dei ragazzi di Harvard e delle loro ragazze, ma a un branco di pellerossa vestiti all’ultima moda. La canzone che stanno suonando costituisce l’ennesima bugia sui crimini commessi dai bianchi. Sono molti i musicisti che hanno tentato di attraversare lo stretto che porta a Cherokee, però sono più quelli che sono naufragati di quelli che ce l’hanno fatta ad arrivare sull’altra sponda. Tutte quelle note lunghe, interminabili... che cos’hanno in mente di farci, con tutto quel tempo? È un complotto indiano, una congiura spirituale? Quella sera, a New York – se si preme sull’acceleratore – forse è possibile arrivare in tempo per l’ultimo spettacolo – nella Settima Avenue, tra la Centotrentanovesima e la Centoquarantesima Strada, «Yardbird» Parker sta scoprendo il modo di usare le note più alte di quegli stessi accordi per spezzare la linea melodica – ma cosa diavolo fa, sembra una mitragliatrice... per carità, Parker dev’essere impazzito, usa le trentaduesime, le semibiscrome – provate a ripeterlo più volte velocemente, semibiscrome, imitando la voce acuta dei Munchkin – se ci capite qualcosa di quella roba che si sente suonare nella Dan Wall’s Chili House, e anche in strada – e non solo lì, mannaggia, ma in tutte le strade (nel ’39, Parker aveva già intrapreso da tempo il suo «viaggio»: quando era ormai sicuro di sé, nei suoi assoli già risuonava l’indolente, divertito dam-di-dam della vecchia Falciatrice in persona, maledizione), le sue note si propagano lungo le onde radio, entrano nelle feste mondane, un giorno arriveranno lontano, la sua musica si diffonderà dagli altoparlanti invisibili nascosti negli ascensori e nei grandi magazzini del centro, il suo canto da uccello volerà alto per contrastare le nenie dei Bianchi, per rovesciare la loro musica melensa e scipita, gli archi incisi e sovraincisi senza pietà... Dunque la sua profezia comincia ad avverarsi in quei giorni con Cherokee, perfino lassù, nella piovosa Massachusetts Avenue, i sassofoni al piano di sotto adesso si lanciano in... be’, a essere onesti, la musica che stan suonando è davvero un po’ stramba...

****

Lo stato di servizio di Katje presso i fascisti di Mussert all’apparenza è impeccabile: le viene riconosciuto il merito di aver snidato almeno tre famiglie di ebrei, partecipa regolarmente a tutte le riunioni, lavora nel centro di soggiorno della Luftwaffe vicino a Scheveningen, facendosi apprezzare dai superiori per la sua efficienza e il suo entusiasmo. Insomma, è tutt’altro che una lavativa e, a differenza di molti, non usa il fanatismo per il partito per coprire la propria inettitudine. Forse proprio in questo risiede l’unica parvenza di pericolosità: il suo impegno non ha nulla di emotivo. Katje sembra avere delle ragioni precise per essere nel partito. Una donna dotata di qualche rudimento di matematica e di ragioni precise... «Voglio il Cambiamento» aveva detto Rilke. «Oh, voglio essere ispirato dalla Fiamma!» Voler cambiare, diventare lauro, usignolo, vento... volere il cambiamento, essere trasportati, lasciarsi abbracciare, cadere verso la fiamma viva, fino a inebriare i propri sensi... non fino ad amare, poiché agire non era più possibile... ma fino a essere perdutamente innamorati...

Katje invece no: niente voli da falena. Blicero ne deve dedurre che Katje teme segretamente il Cambiamento, preferendo invece più banalmente modificare le cose superficiali, i vestiti e gli ornamenti, limitandosi al travestitismo di facciata, non solo quando si cala nei panni di Gottfried, ma perfino quando indossa la tradizionale tenuta da masochista, il corredo da cameriera francese così inadatto alle sue lunghe gambe, ai suoi capelli biondi, alle sue spalle che si muovono come ali indagatrici – il suo gioco consiste solo in questo... Katje gioca a giocare.

Blicero non può farci niente. Con il Reich morente, gli ordini ridotti a inutili scartoffie, ha un tale bisogno di lei, di Gottfried, delle corregge e delle fruste di cuoio, oggetti reali nelle sue mani ancora capaci di sensazioni, ha bisogno delle grida di Katje, dei segni rossi delle frustate sulle natiche di Gottfried, del suo pene, della loro bocca, delle dita di mani e piedi – durante l’inverno queste sono cose sicure, cose su cui si può fare affidamento – Blicero non saprebbe dire perché, però in cuor suo è fiducioso, fosse anche solo nella formula di quella storia presa dai Märchen und Sagen, è convinto che quella casa incantata nella foresta verrà risparmiata, che nessuna bomba potrà mai colpirla per sbaglio.

 

***

 

 

La donna attraversa quella stanza intricata – ricca di pelli morbide, mobili in tek lucidati odoranti di limone, volute di fumo che si alzano dai bastoncini di incenso, strumenti ottici luccicanti, tappeti rosso e oro dell’Asia centrale dalle tinte sbiadite, decorazioni sospese di ferro battuto a nervatura aperta – attraversa la ribalta pian piano, mangiando un’arancia agra, uno spicchio alla volta, la sua veste di faglia ricade splendidamente in morbide pieghe, le maniche di disegno elaborato scendono dalle spalle molto larghe, andando a raccogliersi nei polsini abbottonati, lunghi e stretti, il tutto in un mélange indefinibile dai toni terrigni – un po’ di verde siepe, di marrone argilla, un tocco di ossido, un’ombra d’autunno – la luce dei lampioni filtra attraverso gli steli dei filodendri, le cui foglie digitate si stringono nel tentativo d’afferrare gli ultimi raggi del sole morente, lascia cadere un calmo riflesso giallino sul collo del piede, lungo le lamelle d’acciaio delle fibbie, scivola giù, screziando i fianchi e poi i tacchi alti delle sue scarpe di vernice, lucide al punto da non avere altro colore se non questo pallido giallo limone, là dove vengono sfiorate dalla luce, una luce che però loro rifiutano, come se fosse il bacio di un masochista. Il pelo della moquette si rilascia dietro i suoi passi sollevandosi verso il soffitto, l’impronta della suola e dei tacchi scompare con lentezza esasperante. Lontano, da est, o meglio da sud est, il rumore sordo dell’esplosione di un razzo, uno solo, scuote la città. La luce lungo le sue scarpe scorre e si arresta improvvisamente, muovendosi a singhiozzo come il traffico pomeridiano. La donna indugia un attimo, le è venuto in mente qualcosa: la blusa di foggia militare freme, i fili di seta delle trame si stringono a migliaia, tremanti, rabbrividendo quando la luce gelida scivola via per poi sfiorare di nuovo le loro schiene indifese. Nella stanza l’odore di muschio, di legno di sandalo, di cuoio, di whisky versato si fa più greve.

 

***

 

In quelle prime ore della sera, il pubblico è radunato sui balconi e sulle terrazze, a vari livelli. Gli occhi di tutti sono puntati verso il basso, verso un centro comune, le gallerie di ragazze cinte in vita di foglie verdi, i prati, le sorgenti, le alte piante sempreverdi, un evento solenne, un annuncio alla nazione, il Presidente, con la sua ben nota voce nasale, nel bel mezzo del suo discorso, mentre sta chiedendo al Bundestag un grande stanziamento a scopo bellico, all’improvviso si lascia scappare un «vaffanculo»... il suo fickt es, un’esclamazione presto divenuta immortale, risuona in cielo, risuona per tutto il paese. Ja, fickt es! «Ho deciso di mandare tutti i soldati a casa. Chiuderemo per sempre le fabbriche d’armi, getteremo tutte le armi in mare. Ne ho abbastanza della guerra. Ne ho abbastanza di svegliarmi tutte le mattine con la paura di morire.» Tutt’a un tratto è diventato impossibile odiarlo: adesso anche lui è un essere umano, mortale come tutti. Ci saranno nuove elezioni. La Sinistra presenterà una candidata di cui non si conosce ancora il nome, però tutti sanno che si tratta di Rosa Luxemburg. Si sceglieranno altri candidati talmente inetti, talmente anonimi, che nessuno li voterà. La Rivoluzione avrà la possibilità di riuscire. L’ha promesso il Presidente.

 

***

Che cosa ha veramente sussurrato Cesare al suo protetto mentre cadeva? Et tu, Brute... questo è tutto ciò che ci si può attendere da loro... una menzogna ufficiale che non dice assolutamente niente. Il momento dell’assassinio è l’istante in cui il potere e l’ignoranza del potere si incontrano, e la Morte ne è la convalidatrice, nel senso dei Tarocchi. Quando uno parla a un altro a colpi di Et tu, Brute, non è certo per passare il tempo. Ciò che viene detto è una verità talmente terribile che la storia – la quale nel migliore dei casi è un’associazione a scopo fraudolento, e non sempre composta di gentiluomini – non ammetterà mai. La verità sarà soppressa o, in epoche particolarmente raffinate, mascherata come qualcos’altro.

***

 

Porkevič ha smesso da tempo di discutere gli ordini – non discute neppure più il proprio esilio. Le prove che lo implicano nella cospirazione di Bucharin, della quale peraltro non ha mai conosciuto i particolari, in un certo senso potrebbero anche avere un loro fondamento – quelli del Blocco Trotzkista forse lo conoscevano di fama, forse avevano usato il suo nome per scopi che sarebbero rimasti per sempre segreti... per sempre segreti: esistono forme d’innocenza, lui lo sa, per le quali tutto ciò non si può concepire, tanto meno accettare così come ha fatto lui. Poiché forse, in fondo, si tratta solo dell’ennesimo episodio del grande sogno patologico di Stalin. Almeno lui, Porkevič, poteva contare sulla fisiologia, su qualcosa al di fuori del Partito... per quelli che potevano contare solo sul Partito, invece, quelli che sul Partito avevano investito tutta la loro vita per poi essere semplicemente epurati, doveva essere come morire... non essere mai certi di niente, non avere mai la precisione del laboratorio... in quei vent’anni, era stato proprio quello, grazie a Dio, a impedirgli di impazzire. Almeno loro non potranno mai...

 

***

 

Il Paranoid Systems of History (PSH), quel periodico degli anni Venti di effimera durata di cui sono misteriosamente scomparsi tutti i cliché, arrivava persino a suggerire, in più di un editoriale, che l’Inflazione tedesca fosse stata provocata artificialmente, al solo scopo di spingere i giovani appassionati di Tradizione Cibernetica a occuparsi di Controllo: tutto sommato, un’economia gonfiata dall’inflazione sale in alto come un pallone aerostatico, la sua definizione della superficie terrestre sale liberamente di valore, incontrollata, continuando ad andare alla deriva con il passare dei giorni, mentre il sistema di controllo retroazionato che avrebbe dovuto teoricamente mantenere costante il valore del marco, era invece pietosamente fallito... Il guadagno unitario attorno all’anello, il guadagno unitario, il resto zero, silenzio! E avanti così, erano quelle le rime segrete della Disciplina del Controllo nella sua infanzia rime segrete e terrificanti, come narrano le cronache peccaminose. Le oscillazioni divergenti di ogni tipo erano quasi la Minaccia Peggiore. In quei campi di ricreazione non si potevano spingere le altalene oltre un certo angolo rispetto alla verticale. I litigi si risolvevano velocemente e in modo agevole. I giorni di pioggia non portavano mai con sé molti tuoni o lampi, ma solo un altezzoso grigiore vitreo che si addensava nelle zone inferiori, un panorama monocromatico delle valli, piene di cespugli e di arbusti abbattuti ricoperti di muschio, che cercavano di conficcare le loro radici in cielo per un gioco non del tutto maligno (una piccola sorpresa bianca per le élite lassù, le quali non prestavano la minima attenzione, la minima...), valli intrise d’autunno e, nascosto dietro la superficie dorata del panorama, un colore marrone scuro, da zitella avvizzita... acquazzoni appassiti in modo assai selettivo, molto fastidiosi, stuzzicanti, che ci costringevano a trovare riparo oltre gli appezzamenti vuoti, nelle stradine secondarie, le quali diventavano sempre più misteriose, dissestate, spezzettate, a un appezzamento ne seguiva un altro, tortuoso sette volte tanto, se non di più, ci costringevano a girare attorno alle siepi squadrate, ad attraversare le stramberie ottiche della luce del giorno finché, febbrili, silenziosi, non uscivamo dalla zona delle strade per ritrovarci nella campagna, nei campi trapuntati di nero, nei boschi... l’inizio della foresta vera e propria, dove già si poteva intravedere il travaglio che ci attendeva, e in cuor nostro cominciavamo a tremare... ma così come non è possibile spingere un’altalena oltre una certa angolazione, allo stesso modo non è possibile penetrare nella foresta oltre un certo raggio. Si poteva sempre porre un limite a tutto. Era così facile crescere in quell’ordinamento. Niente poteva essere più sano, più integro. I margini delle cose si intravedevano raramente, tantomeno ci si trastullava o si lottava con loro. Anche laggiù esisteva la distruzione, certo, così come esistevano i dèmoni – compreso il diavoletto di Maxwell laggiù, nel fitto del bosco, con le altre bestie selvagge che capriolavano fra i terrapieni della vostra sicurezza...

Il percorso terribile del Razzo era stato dunque ridotto, letteralmente, in termini borghesi nei termini di un’equazione in cui si mescolano con eleganza la filosofia e la meccanica, il cambiamento astratto e gli snodi cardanici di vero metallo, in cui si descrive il movimento dal punto di vista del controllo di imbardata:

 

per preservare, proteggere, governare il suo percorso tra Scilla e Cariddi, fino al Brennschluss finale.

 

 

***

 

Apparentemente, la proprietà principale che si cercava di raggiungere il più delle volte in queste materie era la resistenza – la prima delle tre virtù della Plasticità: Resistenza, Stabilità e Biancore (Kraft, Standfestigkeit, Weiße: quante volte queste parole erano state scambiate per uno slogan nazista, e in effetti di solito era davvero difficile distinguerle sui muri luccicanti di pioggia, mentre gli autobus procedevano in un grattar di marce nelle strade adiacenti, e i tram avanzavano in uno stridio metallico, e la gente se ne stava per la maggior parte silenziosa, e la luce del primo imbrunire si scuriva assumendo la tessitura del fumo della pipa, e i giovani passanti con il cappotto gettato sulle spalle, le braccia libere al suo interno, sembrava stessero offrendo un riparo a dei nanerottoli, oppure sembravano distolti dai loro impegni, trascinati in una estatica relazione tattile con la fodera, ancora più seducente del nuovo nylon...).

 

****

Quel tipo vestito di verde, che si rivela essere un argentino, un certo Francisco Squalidozzi, si attende una reazione... il passo chiave è la fine di un verso di Leopoldo Lugones, il grande poeta argentino: «Adesso vi dirò, in versi, come l’ho concepita, libera dalla macchia del Peccato Originale...». Si tratta della rivoluzione di Uriburu del 1930. Il giornale è vecchio di quindici anni. È impossibile sapere quale tipo di reazione Squalidozzi si attenda da Slothrop, a ogni modo tutto quello che riceve è indifferenza assoluta. Una reazione a quanto pare accettabile, l’argentino presto si rilassa quanto basta da confidargli che lui, insieme a una decina di colleghi, fra cui Graciela Imago Portales, quell’eccentrica figura nota in campo internazionale, qualche settimana prima sono riusciti a impadronirsi di un vetusto U-boot, a Mar del Plata, e ora hanno riportato il sommergibile tedesco al di qua dell’Atlantico, per cercare asilo politico in Germania, non appena la Guerra sarà finita...

***

 

«Ebbene» come giunge ad affermare il critico cinematografico Mitchell Prettyplace nel suo trattato definitivo in diciotto volumi su King Kong, «lui l’amava veramente.» Forte di questa tesi, Prettyplace apparentemente non ha tralasciato nulla, il suo studio include ogni ripresa – compresi gli spezzoni scartati al momento del montaggio, analizzati minuziosamente per trovarvi tutti gli elementi simbolici possibili e immaginabili – la biografia completa di tutte le persone coinvolte nella produzione del film, le comparse, i macchinisti, i tecnici di laboratorio... perfino le interviste ai Kultori di King Kong i quali, per poter essere ammessi alla setta, devono aver visto il film almeno cento volte ed essere pronti a sostenere un esame di ammissione di otto ore... Eppure, eppure: bisogna tener conto della Legge di Murphy, quella riformulazione volgare, da proletario irlandese, del teorema di Gödel – quando si è pensato tutto, quando si è certi che tutto funzionerà, che non ci saranno sorprese... qualcosa sicuramente andrà storto. E così, stando alle permutazioni e alle combinazioni dell’opera di Pudding, Tutto quello che può succedere nell’ambito della politica europea, relative al 1931, l’anno in cui ha visto la luce il teorema di Gödel, Hitler non ha la minima possibilità di riuscita.

 

***

Una delle attrazioni principali era l’elegante collezione di tute spaziali Raumwaffe, disegnate dal celebre sarto militare Heini di Berlino. La collezione ospitava divise talmente abbaglianti da poter entusiasmare i giovani protagonisti di un’operetta di fantascienza – si potevano addirittura scorgere le tremolanti immagini televisive, dai colori strani, lungo le unghie dei piedi – non solo, Heini aveva perfino ideato delle casacche di seta per i simpatici piccoli Fantini Spaziali (Raumjockeis), equipaggiati di frustini elettrici, i quali un giorno si sarebbero avventurati fuori dalla barriera luminescente, ai margini della Raketen-Stadt, sfrecciando sui loro «cavalli» levigati fatti di meteorite, tutti con la stessa faccia stilizzata (si vede un’immagine a contrasto forte del cavallo dietro, la quale mette in risalto i suoi occhi dementi, i suoi denti, la parte oscura sotto il suo posteriore...), mentre i gas dei propulsori si liberano come peti dal loro sedere – i giovani attori ridono scioccamente per quell’indecente episodio scatologico e, vincendo la forza di gravità – in quel luogo ridotta a poco più di un sospiro – avanzano piano muovendosi a scatti, radiosi, in uno sfoggio di plastica fluorescente, tornano al loro valzer, un Valzer del Futuro stranamente pubblico, un corale vagamente inquietante, dai suoni granulosi e dissonanti, implicito nel silenzio turbinoso delle facce, nelle nude scapole sollevate, così spazial-viennesi, così spossate del Domani...

 

***

 

Una delle gioie più dolci della vittoria, oltre al potersi abbandonare ai saccheggi e al sonno, dev’essere il poter ignorare i divieti di parcheggio.

***

 

Nelle montagne attorno a Nordhausen e Bleicheröde, nei pozzi delle miniere abbandonate, vivono i membri dello Schwarzkommando. Di questi tempi non sono più una formazione militare: adesso sono un popolo, gli herero della Zona, venuti dall’Africa sudoccidentale, in esilio da due generazioni. Erano stati i primi missionari renani a portarli con sé, al loro ritorno nella Metropoli, quel grande zoo grigio, come esemplari di una razza forse in via d’estinzione. Li avevano benevolmente sottoposti a tutta una serie di esperimenti: gli avevano fatto vedere le cattedrali, li avevano portati alle soirée wagneriane, gli avevano fatto indossare la biancheria intima Jaeger, avevano cercato di destare in loro l’interesse per la propria anima. Altri erano stati portati in Germania come domestici dai soldati inviati in Africa per sedare la grande rivolta herero del 1904-1906. Ma la maggior parte dei leader herero attuali erano arrivati solo dopo il 1933. Tutto questo nel quadro di un progetto – mai apertamente ammesso dal partito nazista – di instaurare delle giunte militari negre, dei governi ombra in grado di prendere il potere dopo l’eventuale caduta delle colonie inglesi e francesi nell’Africa nera, sul modello del piano tedesco per il Magreb. All’epoca, il Südwest era un protettorato amministrato dall’Unione Sudafricana, ma a detenere il potere vero e proprio erano ancora alcune vecchie famiglie coloniali tedesche, le quali cooperavano con loro.

Adesso esistono numerose comunità sotterranee nei pressi di Nordhausen/Bleicheröde. Da quelle parti sono conosciute, collettivamente, con il nome di Erdschweinhöhle. Nella lingua herero è una barzelletta, amara. Per gli ovatjimba, la più miserabile tribù herero, senza villaggio e senza bestiame, l’animale totem era l’Erdschwein, o aardvark. Gli ovatjimba avevano derivato il loro nome da lui, non si nutrivano mai della sua carne, scavavano la terra per cercar da mangiare, proprio come faceva lui. Vivevano come reietti, nel Veld, all’addiaccio. Li potevi facilmente vedere, la notte, dalla strada ferrata, i loro fuochi sfolgoravano splendidi controvento, fuori tiro dai fucili. Di loro sapevi che cosa temevano... ma non che cosa volevano, o che cosa li spingeva. Gli impegni però ti chiamavano nell’entroterra, nelle miniere, e così, mentre ti lasciavi dietro le luci dei loro fuochi scoppiettanti, ti lasciavi dietro anche il bisogno di pensare ancora a loro.

Tuttavia, nel girarti per andar via, ti sei chiesto chi fosse quella donna sola, in una buca del terreno, immersa fino alle spalle nel cunicolo scavato dall’aardvark, una testa radicata nella superficie piana del deserto, lo sguardo fisso, mentre dietro di lei si stagliavano le falde oscure delle montagne, perdendosi lontane, nella luce della sera. La donna sente sul proprio ventre la pressione incredibile di quei chilometri di sabbia e di argilla. In fondo al sentiero, ad attenderla, ci sono i fantasmi luminosi dei suoi quattro bambini nati morti, giacciono fra le cipolle selvatiche simili a grossi vermi, senza alcuna possibilità di ricevere conforto, reclamano a turno, piangendo, un latte ancora più sacro di quello che viene benedetto e assaggiato nelle caravazze del villaggio. In linea preterita, l’hanno indirizzata in quel punto, affinché lei possa entrare in contatto con il dono genetico naturale della Terra. La donna sente la forza fluire in lei attraverso ogni sua porta, è come un fiume fra le cosce, una luce guizzante sulla punta di tutte le dita. È una forza sicura e rigenerante come il sonno. È un calore. Più la luce declina, più lei si sottomette: all’oscurità, all’acqua che discende dall’aria. È un seme nella Terra. Il sacro aardvark le ha scavato il giaciglio.

Nel Südwest, l’Erdschweinhöhle era un potente simbolo di fertilità e vita. Ma qui, nella Zona, la sua vera funzione è meno chiara. Al momento, all’interno dello Schwarzkommando vi sono forze che hanno optato per la sterilità e la morte. È una lotta condotta per lo più nel silenzio, nella notte, nelle nausee e nei crampi delle gravidanze e degli aborti spontanei.

 

 

***

 

Si fanno chiamare otukungurua. Sì, cari esperti di cose africane, dovrebbe essere «omakungurua», ma loro hanno sempre avuto cura – dire cura è forse un po’ troppo esagerato, troppo salutare – di sottolineare che il prefisso oma si riferisce unicamente all’uomo e agli esseri viventi. Otu si riferisce alle cose inanimate e alla sollevazione, ed è così che loro si immaginano. Rivoluzionari dello Zero, intendono portare avanti quello che era cominciato fra i vecchi herero, dopo che la rivolta del 1904 era fallita. Vogliono la denatalità. Il loro è un suicidio razziale programmato. Vogliono portare a termine lo sterminio cominciato dai tedeschi nel 1904.

Il declino delle nascite presso gli herero, durante la generazione precedente, era materia di grande interesse nel mondo medico di tutta l’Africa del sud. I bianchi seguivano il fenomeno con preoccupazione, come se si fosse trattato di un’epidemia di peste bovina. Era davvero irritante vedere il numero dei propri sudditi scemare così, anno dopo anno. Che cos’era una colonia senza i suoi indigeni di carnagione bruna? Che divertimento c’era se morivano tutti senza essere sostituiti? Non sarebbe rimasto che un grosso pezzo di deserto, niente più domestiche, braccianti agricoli, manovali, minatori – ehi, ehi, un momento, ma certo, è proprio Karl Marx, quel vecchio furbone razzista sta cercando di defilarsi, i denti stretti e le ciglia inarcate, sta cercando di far credere che sia solo una questione di Manodopera a Basso Costo e di Mercati d’Oltremare... Oh, no. Le colonie sono molto, molto di più. Le colonie sono i gabinetti esterni dell’anima europea, dove uno può calare le braghe e rilassarsi un po’, gustando l’odore della propria merda. Dove uno può piombare ruggendo sulla fragile preda negra, dando fondo alla propria voce, ingozzandosi allegramente del suo sangue. Non è così? Dove uno può semplicemente sguazzare nel fango, accoppiarsi, lasciarsi andare in quelle membra scure e accoglienti, i capelli morbidi e lanosi quanto lo sono i peli dei propri genitali proibiti. Dove il papavero, la canapa e la coca crescono verdi e rigogliosi, non secondo il colore e lo stile della morte, tipici della segale cornuta e dell’agarico bianco, il carbonchio e il fungo originari dell’Europa. L’Europa cristiana è sempre stata sinonimo di morte, caro Karl, di morte e di repressione. Laggiù, nelle colonie, ci si può abbandonare senza ritegno alla vita, alla vita e alla sensualità in tutte le sue forme, senza che questo possa recare alcun danno alla Metropoli, senza insudiciare le cattedrali, le statue di marmo bianco, i pensieri nobili... Non lo verrà a sapere nessuno. I silenzi, laggiù, son così profondi da poter assorbire tutto, anche i comportamenti più degradanti, più bestiali...

Secondo alcuni degli uomini di medicina più razionali, questa diminuzione della natalità fra gli herero andava attribuita a una carenza di vitamina E nell’alimentazione – secondo altri all’utero stranamente stretto e allungato delle donne, una particolarità che rendeva la fecondazione difficile. Ma dietro a tutte queste speculazioni scientifiche, a questo linguaggio razionale, nessun afrikaner bianco era in grado di esprimere a parole l’effetto che faceva... Nel Veld si aggirava qualcosa di sinistro: bastava guardare le loro facce, soprattutto quelle delle donne, allineate dietro i recinti spinati, per capire, senza bisogno di prove razionali, che tutto quello era opera di una mente tribale, una mente che aveva scelto il suicidio... sconcertante, non è vero? Forse siamo stati un po’ ingiusti con loro, forse non avremmo dovuto prendergli il bestiame e le terre... e poi, i campi di lavoro coatto, il filo spinato, le palizzate... forse era un mondo in cui non volevano più vivere. Del resto, è tipico da parte loro rinunciare, strisciar via per andare a morire da qualche parte... Perché non vogliono neppure trattare? Si potrebbe cercare di trovare una soluzione, una soluzione qualunque...

Per gli herero la scelta era stata semplice, o una morte o l’altra: la morte tribale o la morte cristiana. La morte tribale aveva un senso. La morte cristiana nessuno: gli sembrava una pratica religiosa di cui non avevano alcun bisogno. Ma per gli europei, caduti nella Truffa del Bambin Gesù da loro stessi escogitata, ciò a cui stavano assistendo fra gli herero era un mistero impenetrabile, tanto quanto i cimiteri degli elefanti, o i lemming che si lanciavano in mare.

****

Di tutte le storie che si raccontano di quell’epoca, questa è la più tragica. I profughi avevano passato parecchi giorni nel deserto. Per aiutarli, Khama, re dei bechuana, aveva inviato loro delle guide, dei buoi, dei carri e dell’acqua. Ai primi arrivati era stato detto di bere piano, poco alla volta. Ma quando i ritardatari erano finalmente giunti nell’accampamento, gli altri dormivano tutti, per cui nessuno li aveva avvisati. L’ennesimo messaggio andato perduto. Avevano bevuto fino a scoppiare, esalando l’anima a centinaia. La madre di Enzian era una di loro. Enzian si era addormentato sotto una pelle di bue, stremato per la fame e per la sete. Si era risvegliato fra i morti. A trovarlo, si dice, era stata una banda nomade di ovatjimba, che lo avevano preso con loro e lo avevano accudito. Lo avevano riportato indietro, lasciandolo davanti al villaggio di sua madre, affinché vi facesse ritorno a piedi da solo. Erano nomadi, avrebbero potuto benissimo seguire una qualsiasi altra direzione in quell’immenso paese desolato, invece lo avevano riportato nello stesso punto da cui era partito. Al villaggio non era rimasto quasi nessuno. Molti erano partiti per il trek, altri erano stati portati via, verso la costa, per essere ammassati nei kraal, oppure per essere costretti a lavorare alla ferrovia che i tedeschi stavano costruendo nel deserto. Molti altri erano morti per aver mangiato il bestiame infettato dalla peste bovina.

Nessun ritorno. Il sessanta per cento degli herero erano stati sterminati. I rimanenti venivano usati come fossero animali. Enzian era cresciuto in un mondo occupato dai bianchi. La cattività, la morte improvvisa, le partenze senza ritorno erano una cosa comune di tutti i giorni. A un certo punto Enzian si era chiesto perché era sopravvissuto, però non aveva saputo trovare nessuna spiegazione logica. Non credeva potesse trattarsi di un processo di selezione. Ndjambi Karunga e il Dio cristiano erano troppo lontani. Non c’era nessuna differenza fra il comportamento di un dio e l’opera del caso. Weissmann, il suo protettore europeo, aveva sempre creduto di esser stato lui a corrompere Enzian, facendogli abbandonare la sua religione. Invece erano stati gli dèi che se n’erano andati da soli: gli dèi avevano abbandonato il loro popolo... Enzian aveva lasciato che Weissmann credesse quel che voleva. La sete di colpa di quell’uomo era insaziabile quanto la sete d’acqua del deserto.

 

***

All’inizio dell’era staliniana Čičerin era stato assegnato a una postazione remota, il cosiddetto «angolo dell’orso» (medvežhij ugolok) nella regione dei Sette Fiumi. Dove d’estate i canali di irrigazione stillavano il loro sudore formando un confuso lavoro a greca lungo l’oasi verde. Dove d’inverno i bicchieri da tè appiccicosi ornavano i davanzali, i soldati giocavano a preference e uscivano di casa solo per andare a pisciare, o a sparare con il loro ultimissimo modello del Moisin ai lupi sorpresi in strada. Era una landa desolata in cui la nostalgia della città veniva affogata nell’alcol... i chirghisi passavano silenziosi a cavallo, la terra era scossa da interminabili tremori... a causa dei terremoti, nessuno costruiva case a più di un piano, e così la città aveva l’aspetto di un film sul «selvaggio West»: una scura strada polverosa, fiancheggiata da grandiose false facciate di due o tre piani.

Čičerin era andato fin laggiù, fra i membri di quella lontana tribù, a portar loro il dono dell’alfabeto: per comunicare avevano solo la parola, i gesti, il tatto. Non avevano neppure un alfabeto arabo da dover sostituire. Čičerin agiva di comune accordo con il centro Likbez locale, parte di una serie di centri noti a Mosca come «džurt rossi». I chirghisi, vecchi e giovani, arrivavano dalle pianure ancora impregnati dell’odore di cavallo, di latte inacidito, di fumo d’erba, entravano nella tenda e sgranavano gli occhi davanti a quelle lavagne piene di segni di gesso. Le rigide lettere latine erano quasi altrettanto strane per i quadri russi – Galina, alta e imponente nei suoi pantaloni smessi dell’esercito e nelle sue camicie grigie cosacche... Ljuba, l’amica del cuore di Galina, il viso dolce e i capelli ondulati... Vaslav Čičerin, la spia politica... insomma, per tutti gli agenti segreti (anche se loro non la pensavano così) che rappresentavano l’NTA (Nuovo Alfabeto Turco) in quella regione straordinariamente aliena.

La mattina, dopo il rancio, Čičerin è solito fare un giretto fino allo džurt rosso con l’intenzione di vedere Galina, la pudibonda maestra di scuola – probabilmente lo attrae poiché riscontra in lei un paio di affinità genetiche femminili... comunque sia... spesso, quando esce, Čičerin trova il cielo mattutino pieno di fulmini diffusi, scroscianti, abbaglianti. Un orrore. La terra trema, appena al di sotto della soglia di percezione. Potrebbe essere la fine del mondo, sennonché, per l’Asia centrale, è un giorno come tanti. Un tremore dopo l’altro, grande quanto il cielo. Le nuvole scure, alcune dai contorni nitidissimi, neri e frastagliati, veleggiano come una flotta verso la regione artica asiatica, sopra le vaste dessiatine di graminacee, di steli di verbasco verdi e grigi che ondeggiano a perdita d’occhio, increspandosi al vento. Un vento sorprendente. Čičerin invece se ne sta lì, nella strada, a sistemarsi i pantaloni con un gesto brusco, mentre il vento sferza le punte dei risvolti della sua giacca, facendoli sbatacchiare sul petto, se ne sta lì a maledire l’Esercito, il Partito, la Storia: insomma, qualunque cosa lo abbia portato lì. Non amerà mai quel cielo, quella pianura, quella gente, il loro bestiame. Né lo rimpiangerà mai, no, nemmeno nei peggiori bivacchi lungo le paludi della sua anima, negli incontri nudi di Leningrado con la certezza della propria morte, della morte dei suoi compagni, non cercherà mai rifugio nel ricordo della regione dei Sette Fiumi. E neppure nel ricordo di una musica sentita, delle escursioni d’estate... di un cavallo sullo sfondo della steppa, all’imbrunire...

 

***

È un ajtys, una tenzone musicale in versi. Il ragazzo e la ragazza se ne stanno al centro del villaggio, impegnati in una specie di gioco sarcastico – del tipo «mi piaci abbastanza anche se hai un paio di piccoli difetti, per esempio...» – accompagnati dalle note dardeggianti delle kobza e delle dombra, prodotte dalle corde raschiate e pizzicate. La gente ride alle battute buone. Per riuscire in questo gioco, bisogna essere pronti di spirito: i due partecipanti si scambiano una serie di strofe di quattro versi, in cui il primo, il secondo e il quarto verso devono far rima, non devono avere una lunghezza specifica ma solo delle pause per respirare. Ciononostante, è un gioco delicato. E, a volte, anche offensivo. Si conoscono dei casi, in alcuni villaggi, in cui, dopo un ajtys, i duellanti non si sono più parlati per anni.

***

 

Una notte soave, spalmata di stelle dorate, una di quelle notti nella pampa di cui amava scrivere Leopoldo Lugones. Il sommergibile tedesco si culla silenzioso in superficie. Gli unici rumori che si sentono sono il borbottio della pompa sottocoperta, che ogni tanto si inserisce automaticamente per aspirare l’acqua della sentina, e El Ñato dietro, sulla poppa estrema, con la sua chitarra, che suona delle tristes e delle milongas di Buenos Aires. Beláustegui è di sotto che sta lavorando al generatore. Luz e Felipe dormono.

Graciela Imago Portales si dondola pigramente vicino agli affusti da 20 mm, l’aria pensierosa. Ai suoi tempi, a Buenos Aires, Graciela era la scema della città, non faceva del male a nessuno, andava d’accordo con tutti, le sue amicizie coprivano tutto l’arco delle posizioni politiche, da Cipriano Reyes, il quale una volta aveva intercesso in suo favore, ad Acción Argentina, l’organizzazione per cui lei lavorava prima che questa venisse bandita. Graciela era la favorita dei letterati. Borges, così si diceva, le aveva perfino dedicato una poesia ( «El laberinto de tu incertidumbre / Me trama con la disquietante luna...»)

Nell’equipaggio che si è impadronito di quel sommergibile sono rappresentate tutte le manie argentine. El Ñato se ne va in giro parlando nel gergo dei gaucho dell’Ottocento – le sigarette per lui sono pitos, i mozziconi puchos, lui non beve la caña ma la tacuara, e quando è ubriaco è mamao. A volte Felipe deve fargli da traduttore. Felipe è un giovane poeta scontroso, animato da molte passioni sgradevoli, fra cui le sue fantasie romantiche sui gaucho. È sempre lì che sviolina El Ñato.

 

***

Nel corso degli anni Venti e Trenta aveva lavorato lì come attrice, oltre che a Tempelhof e a Staaken, però quello era sempre stato il suo posto preferito. Lì aveva recitato sotto la direzione del grande Gerhardt von Göll, in una decina di film dell’orrore di tono vagamente pornografico. «Ho capito subito che era un genio. Io non ero nient’altro che una sua creazione.» Non aveva la stoffa della stella, come lei stessa ammette candidamente, non era né una Dietrich, né una vamp come Brigitte Helm. Però aveva un qualcosa che loro volevano («Loro chi?» chiede Slothrop. «Non saprei» risponde la Erdmann). L’avevano soprannominata l’anti-Dietrich: non una rovinafamiglie, ma una bambola – languida, sfinita… «Ho visto tutti i film che abbiamo fatto», rammenta lei, «alcuni anche sei o sette volte. Si direbbe che non mi muovo mai. Non muovo neppure la faccia. Ach! Quegli interminabili primi piani col velatino… avrebbero potuto benissimo usare la stessa inquadratura all’infinito… Perfino quando scappavo – nei miei film doveva esserci sempre qualcuno che mi inseguiva, mostri, pazzi, criminali – ero sempre così… impassibile» il suo braccialetto manda un luccichio, «così… monumentale. Quando non scappavo, di solito ero legata o incatenata a qualcosa. Venga, le faccio vedere.» La donna conduce Slothrop in quello che resta di una camera della tortura, i denti della ruota di legno spezzati, i muri in gesso sfaldati e scheggiati, la polvere accumulata, le torce spente e fredde, infilate di sbilenco nel loro anello a muro. La donna prende le catene di legno, la vernice argentata che le ricopriva praticamente scomparsa, e le fa scorrere rumorosamente fra le dita guantate. «Questo era uno dei set usati per Alpdrücken. A quei tempi Gerhardt amava ancora le illuminazioni esagerate.» Le fini grinze dei suoi guanti si colorano d’argento mentre lei spolvera il cavalletto e vi si distende sopra. «Così…» aggiunge, alzando le braccia e insistendo affinché lui le assicuri i polsi e le caviglie agli anelli di latta. «La luce proveniva allo stesso tempo dall’alto e dal basso, cosicché ognuno aveva due ombre: quella di Caino e quella di Abele, come diceva Gerhardt. Era in pieno periodo simbolista. In seguito, ha cominciato a usare un’illuminazione più naturale, a girare le riprese all’aperto.» Erano andati a Parigi, a Vienna. A Herrenchiemsee, nelle Alpi bavaresi. Von Göll sognava da tempo di fare un film su Luigi II di Baviera. Per questo motivo per poco non era finito nella lista nera. A quell’epoca andava di moda Federico. Non veniva considerato molto patriottico sostenere che un sovrano tedesco potesse essere matto. Ma davanti a tutti quegli ori, quegli specchi, quei chilometri di decorazioni barocche, anche Von Göll era uscito un po’ di senno. Soprattutto davanti a quei lunghi corridoi… «La metafisica del corridoio», era così che i francesi chiamavano quella condizione… Gli amanti dei corridoi normali sorrideranno teneramente al comportamento di Von Göll, il quale, finita da tempo la pellicola nella bobina, ancora carrellava imperterrito lungo quelle dorate fughe prospettiche, con un sorriso sciocco dipinto sulle labbra. Il calore di quelle immagini sopravviveva perfino sulla pellicola ortocromatica, in bianco e nero. Ovviamente, il film non era mai uscito. Das wütende Reich: come avrebbero potuto accettare un titolo simile senza protestare? C’erano state trattative interminabili. Alcuni ometti azzimati, il distintivo nazista sul risvolto, marciavano sul set interrompendo le riprese, andando regolarmente a sbattere il naso contro le pareti di vetro. Avrebbero accettato qualsiasi cosa al posto di «Reich», perfino «Königreich», ma Von Göll non ne voleva sapere. Camminava sul filo del rasoio. In compenso, aveva cominciato subito le riprese di La Buona Società, un film che, si dice, Goebbels aveva trovato incantevole, al punto che lo aveva addirittura visto tre volte, ridacchiando e dando dei colpetti di gomito al vicino di sedia, forse Adolf Hitler. Margherita recitava la parte della lesbica che lavorava nel caffè: «Quella con il monocolo, che alla fine viene frustata a morte dal travestito, si ricorda?». Le sue gambe sode fasciate nelle calze luminose di seta ora hanno un aspetto rigido, meccanico, le sue ginocchia levigate strusciano una contro l’altra mentre i ricordi affiorano nella sua mente, eccitandola. Ed eccitando anche Slothrop. Lei sorride nel vedere i suoi pantaloni di pelle scamosciata tendersi all’altezza dell’inforcatura. «Era un bell’uomo. A ogni modo, non aveva importanza. Lei me lo ricorda un po’, in un certo senso. Specialmente… quegli stivali… La Buona Società è stato il nostro secondo film, ma il primo è stato questo» – questo? – «Alpdrücken. Credo che sia lui il padre della mia Bianca. È stata concepita durante le riprese. Lui faceva la parte del Grande Inquisitore che mi torturava. Ah, eravamo gli Innamorati del Reich – Greta Erdmann e Max Schlepzig, la Coppia Meravigliosa…»

***

Kurt Mondaugen aveva interpretato l’accaduto come un segno. Era uno di quei mistici tedeschi cresciuti leggendo Hesse, Stefan George e Richard Wilhelm, pronti ad accettare Hitler sulla base della metafisica di Demian. Il combustibile e l’ossidante gli apparivano come una coppia di opposti, i princìpi maschile e femminile che si univano nell’uovo mistico della camera di combustione: la creazione e la distruzione, il fuoco e l’acqua, la polarità positiva e la polarità negativa della chimica…

***

Nessun commento:

Posta un commento