Da "La Tregua" di Primo Levi
Mi sentivo stremato, non
solo corporalmente: come un atleta che abbia corso per ore, spendendo tutte le proprie risorse, quelle di natura
prima, e poi quelle che si spremono, che si creano dal nulla
nei momenti di bisogno estremo; e che arrivi alla meta; e
che nell'atto in cui si abbandona esausto al suolo, venga rimesso brutalmente in piedi, e costretto a ripartire di corsa,
nel buio, verso un altro traguardo non si sa quanto lontano. Meditavo pensieri amari: che la natura concede raramente indennizzi, e così il consorzio umano, in quanto è
timido e tardo nello scostarsi dai grossi schemi della natura; e quale conquista rappresenti, nella storia del pensiero
umano, il giungere a vedere nella natura non più un modello da seguire, ma un blocco informe da scolpire, o un
nemico a cui opporsi.
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Sorse un giorno splendido. Uscimmo all'aperto, e solo
allora ci accorgemmo di avere pernottato nella platea di un
teatro, e di trovarci in un esteso complesso di caserme sovietiche danneggiate e abbandonate. Tutti gli edifici, inoltre, erano stati sottoposti a una devastazione e spoliazione
tedescamente meticolosa: le armate germaniche in fuga
avevano asportato tutto quanto era asportabile: i serramenti, le inferriate, le ringhiere, gli interi impianti di illuminazione e di riscaldamento, le tubazioni dell'acqua, perfino i paletti del recinto. Dalle pareti era stato estratto fin
l'ultimo chiodo. Da un raccordo ferroviario adiacente erano stati divelti i binari e le traversine: con una macchina
apposita, ci dissero i russi.
Più di un saccheggio, insomma: il genio della distruzione, della controcreazione, qui come ad Auschwitz; la mistica del vuoto, al di là di ogni esigenza di guerra o impeto
di preda.
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Errando per le vie di Monaco piene di macerie, intorno
alla stazione dove ancora una volta il nostro treno giaceva
incagliato, mi sembrava di aggirarmi fra torme di debitori
insolventi, come se ognuno mi dovesse qualcosa, e rifiutasse di pagare. Ero fra loro, nel campo di Agramante, fra il
popolo dei Signori: ma gli uomini erano pochi, molti mutilati, molti vestiti di stracci come noi. Mi sembrava che
ognuno avrebbe dovuto interrogarci, leggerci in viso chi
eravamo, e ascoltare in umiltà il nostro racconto. Ma nessuno ci guardava negli occhi, nessuno accettò la contesa:
erano sordi, ciechi e muti, asserragliati fra le loro rovine
come in un fortilizio di sconoscenza voluta, ancora forti,
ancora capaci di odio e di disprezzo, ancora prigionieri dell'antico nodo di superbia e di colpa.
Mi sorpresi a cercare fra loro, fra quella folla anonima
di visi sigillati, altri visi, ben definiti, molti corredati da un
nome: di chi non poteva non sapere, non ricordare, non rispondere; di chi aveva comandato e obbedito, ucciso, umiliato, corrotto. Tentativo vano e stolto: chè non loro, ma
altri, i pochi giusti, avrebbero risposto in loro vece.
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Nella salita verso il confine italiano il treno, più stanco
di noi, si strappò in due come una fune troppo tesa: vi furono diversi feriti, e questa fu l'ultima avventura. A notte
fatta passammo il Brennero, che avevamo varcato verso
l'esilio venti mesi prima: i compagni meno provati, in allegro tumulto; Leonardo ed io, in un silenzio gremito di memoria. Di seicentocinquanta, quanti eravamo partiti, ritornavamo in tre. E quanto avevamo perduto, in quei venti
mesi? Che cosa avremmo ritrovato a casa? Quanto di noi
stessi era stato eroso, spento? Ritornavamo più ricchi o più
poveri, più forti o più vuoti? Non lo sapevamo: ma sapevamo che sulle soglie delle nostre case, per il bene o per il
male, ci attendeva una prova, e la anticipavamo con timore. Sentivamo fluirci per le vene, insieme col sangue estenuato, il veleno di Auschwitz: dove avremmo attinto la
forza per riprendere a vivere, per abbattere le barriere, le
siepi che crescono spontanee durante tutte le assenze, intorno ad ogni casa deserta, ad ogni covile vuoto? Presto,
domani stesso, avremmo dovuto dare battaglia, contro nemici ancora ignoti, dentro e fuori di noi: con quali armi,
con quali energie, con quale volontà? Ci sentivamo vecchi
di secoli, oppressi da un anno di ricordi feroci, svuotati e
inermi. I mesi or ora trascorsi, pur duri, di vagabondaggio
ai margini della civiltà, ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono
provvidenziale ma irripetibile del destino.
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Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo trentacinque
giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi,
nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il
calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto
largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso. Ma solo dopo molti mesi svanì in me
l'abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto
e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento.
E un sogno entro un altro sogno, vario nei particolari,
unico nella sostanza. Sono a tavola con la famiglia, o con
amici, o al lavoro, o in una campagna verde: in un ambiente insomma placido e disteso, apparentemente privo di
tensione e di pena; eppure provo un'angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe.
E infatti, al procedere del sogno, a poco a poco o brutalmente, ogni volta in modo diverso, tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone, e l'angoscia si
fa più intensa e più precisa. Tutto è ora volto in caos: sono
solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so
che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all'infuori
del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi,
sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo
sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota;
una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E
il comando dell'alba in Auschwitz, una parola straniera,
temuta e attesa: alzarsi, «Wstawac».