venerdì 30 dicembre 2016

La   devotio

“La devotio – è noto – era un antico istituto romano nel quale un magistratus dotato di imperium militiae (consul, dux, praetor) – talvolta un privato cittadino (civis designatus) scelto tra i legionari dell’exercitus sul campo di battaglia – dopo essersi votato alle divinità infere e alla Terra, osservando minuziosamente un rito codificato dalla “teologia pontificale” (LIV. VIII 9, 6-8), si lanciava tra le schiere nemiche, per trovarvi la morte, al fine di garantire la vittoria alla propria parte e di salvare l’integrità della res publica. La tradizione attribuisce questo gesto a tre componenti della gens Decia: Publius Decius Mus al Veseris (340 a.C.)[1], suo figlio a Sentinum (295 a.C.[2]), e suo nipote ad Ausculum (279 a.C.[3]) ….Un voto, dunque, o un sacrificio? Né l’uno, né l’altro, invero, ma qualcosa di assimilabile, nella forma, ad entrambi. Da un punto di vista tecnico, infatti, il rituale deciano, più che al votum, assomiglia alla preghiera ordinaria seguita dal sacrificio e pare fondarsi sul pactum stabilito fra l’uomo e la divinità, volto a ristabilire e a mantenere la pax deorum: in particolare, la devotio sembra distinguersi dal votum in  senso stretto poiché, mentre in questo l’obbligo umano era condizionato all’esaudimento della preghiera da parte della divinità, nel rito della devotio il sacrificio precedeva e sollecitava l’intervento celeste. Nell’atto deciano si può registrare una forma di “religione civica”: culto, anzitutto, adorazione in atto, servizio reso agli dèi per riceverne in cambio (do ut des) la protezione della comunità. Una religione votata al “sacrificio”, quindi, ma un “sacrificio” per il “bene comune”….”


Da “Devotio” Aspetti storico-religiosi di un rito militare romano di Leonardo Sacco

Tito Livio Libro VIII nn. 9-10

9 I consoli romani offrirono sacrifici prima di guidare le loro truppe all'assalto. A quanto si racconta, l'aruspice avrebbe fatto notare a Decio che il fegato era inciso nella parte famigliare, ma che la vittima era ugualmente gradita agli dèi e che Manlio aveva ottenuto auspici quanto mai favorevoli. «Allora sta bene», disse Decio «il collega ha ricevuto dei segni favorevoli». Nella formazione già descritta, i Romani avanzarono sul campo di battaglia. Manlio guidava l'ala destra, Decio la sinistra. All'inizio le forze e l'ardore dei combattenti erano uguali da entrambe le parti. Ma dopo qualche tempo gli hastati romani, non riuscendo a reggere la pressione dei Latini, dovettero riparare tra i principes. In questo momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò: «Abbiamo bisogno dell'aiuto degli dèi, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del popolo romano, dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in sacrificio per salvare le legioni». Il pontefice gli ordinò di indossare la toga pretesta, di coprirsi il capo e, toccandosi il mento con una mano fatta uscire da sotto la toga, di pronunciare le seguenti parole, ritto, con i piedi su un giavellotto: «Giano, Giove, padre Marte, Quirino, Bellona, Lari, dèi Novensili, dèi Indigeti, dèi nelle cui mani ci troviamo noi e i nostri nemici, dèi Mani, io vi invoco, vi imploro e vi chiedo umilmente la grazia: concedete benigni ai Romani la vittoria e la forza necessaria e gettate paura, terrore e morte tra i nemici del popolo romano e dei Quiriti. Come ho dichiarato con le mie parole, così io agli dèi Mani e alla Terra, per la repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito, per le legioni e per le truppe ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, offro in voto le legioni e le truppe ausiliarie del nemico insieme con me stesso»

Rivolta questa invocazione, ordinò ai littori di recarsi da Tito Manlio e di annunciare quanto prima al suo collega che egli si era offerto in sacrificio per il bene dell'esercito. Cintasi poi la toga con il cinto gabino, saltò a cavallo con le armi in pugno e si gettò in mezzo ai nemici, apparendo a entrambi gli eserciti con un aspetto ben più maestoso di quello umano, come fosse stato inviato dal cielo per placare ogni ira degli dèi e allontanare dai compagni la disfatta rovinosa, respingendola sui nemici. Fu per questo che il suo assalto seminò panico e terrore nelle prime file dei Latini, arrivando poi a contagiare l'intero esercito. Era evidentissimo che, dovunque si dirigesse in sella al suo cavallo, lì i nemici si ritraevano spaventati come fossero stati colpiti da una meteora letale. Ma quando poi cadde sommerso da una pioggia di frecce, da quel momento non ci furono più dubbi sullo sbandamento delle coorti latine che si diedero ovunque alla fuga, lasciando dietro di sé il deserto. Nello stesso istante i Romani - liberati dal peso della superstizione -, come se solo allora fosse stato dato il segnale, si lanciarono all'assalto, riaccendendo la mischia. ……

10. Mi sembra opportuno aggiungere che il console, il dittatore o il pretore che offra in sacrificio le legioni nemiche non deve necessariamente immolare se stesso, ma può scegliere di offrire un cittadino incluso in una legione romana regolarmente arruolata e scelto a suo piacimento. Se l'uomo che viene offerto muore, è segno che le cose riusciranno per il meglio. Se invece non muore, allora una sua immagine viene sotterrata a sette o più piedi di profondità nella terra, e viene offerta in sacrificio una vittima espiatoria. E al magistrato romano non sarà consentito di salire sopra il punto in cui l'immagine è stata sotterrata. Se poi vuole offrire se stesso in voto, come fece Decio, e non muore, non può offrire sacrifici di natura né pubblica né privata senza macchiarsi di una colpa, sia che ricorra a una vittima, sia che si serva di un'altra offerta di suo piacimento. Colui che si offre in voto ha il diritto di dedicare le proprie armi a Vulcano o a qualunque altra divinità desideri. È considerata una violazione sacrilega che il nemico si impossessi del giavellotto sul quale è stato in piedi il console nell'atto di pronunciare la sua invocazione. Nel caso in cui la cosa si verifichi, bisogna placare l'ira di Marte offrendo in sacrificio una pecora, un maiale e un toro.



[1] Nel  corso della Battaglia del Vesuvio avvenuta nel 340 a.c. tra Romani e Latini nel corso della guerra Latina 340-338 a.c.
[2] Nel corso della Battaglia del Sentino,  detta anche delle nazioni, nel 295 a.c., durante la Terza Guerra Sannitica che oppose Roma a un'alleanza avversa di popolazioni, composta da Etruschi, Sanniti, Galli Senoni ed Umbri. I Romani avevano come alleati i Piceni. Chiamata "Battaglia delle Nazioni dell'antichità" perché tutte le popolazioni (nazioni) del centro Italia furono coinvolte nello scontro, che decise le sorti di tutto quel territorio. In questo caso i  consoli che comandavano i romani erano Quinto Fabio e Decio Mure (figlio dell’omonimo  Decio Mure morto Nella battaglia del Vesuvio)  
[3] Nel corso della Battaglia di Ascoli Stariano nella guerra Romano Tarantina contro Pirro. Anche in questo caso nell’esercito romano trovò la morte Publio Decio Mure figlio e nipote dei due omonimi Mure morti rispettivamente  nella Battaglia del Vesuvio ed in quella del Sentino.

Da "Cane e padrone" di Thomas Mann




L'illusione d'una vita stabile, semplice, raccolta e contemplativa, l'illusione d'appartenere in tutto a te stesso, ti rende felice; perché l'uomo tende a ritenere la sua condizione del momento, sia essa serena o intricata, tranquilla o appassionata, come quella vera, caratteristica e duratura della sua esistenza, e soprattutto a elevare immediatamente, nella sua fantasia, ogni felice ex tempore a bella regola e inviolabile consuetudine, mentre in realtà è condannato a improvvisare e a vivere, dal punto di vista morale,alla giornata.






Da “Rumore Bianco” di Don DeLillo

(Murray) - Io credo, Jack, che al mondo ci siano due tipi di persone. Chi assassina e chi muore. Nella stragrande maggioranza apparteniamo al secondo dei due. Non abbiamo la disposizione, la furia o quel
che sia, che occorre per essere assassini. Lasciamo che la morte arrivi. Ci mettiamo lì e moriamo. Ma pensa cosa si prova a essere un assassino. Pensa quant'è eccitante, in teoria, ammazzare un altro in un confronto diretto. Se muore l'altro, non puoi morire tu. Ucciderlo significa guadagnare credito vitale. Più gente si uccide, più credito si accumula. È la spiegazione di qualsiasi massacro, guerra, esecuzione.

(Jack) - Stai dicendo che l'uomo, nella storia, ha sempre cercato di guarire dalla morte uccidendo gli altri?

(Murray) - È evidente.

(Jack) - E la definisci una cosa eccitante?
(Murray) - Sto parlando in teoria. In teoria la violenza è una forma di rinascita. Colui che muore soccombe passivamente. L'assassino continua a vivere. Che equazione meravigliosa. Più una banda di predoni ammassa cadaveri, più ammassa forza. Forza che si accumula come un favore degli dèi.
(Jack) - Ma tutto questo che cosa c'entra con me?

(Murray) - È teoria. Siamo un paio di accademici che stanno facendo una passeggiata. Ma immagina lo shock viscerale di vedere l'avversario insanguinato nella polvere.

(Jack) - Pensi che ciò aumenti la riserva di credito dell'altro, come una transazione bancaria?

(Murray)- Il nulla ti sta fissando in faccia. Oblio totale ed eterno. Cesserai di essere. "Di essere", Jack. Chi muore lo accetta e muore. L'assassino, in teoria, tenta di sconfiggere la propria morte ammazzando gli altri. Compera tempo, compera vita. Guarda gli altri contorcersi. Vede il sangue scorrere nella polvere.

Lo guardai, sbalordito. Tirava beato la sua pipa, producendo rumori sordi.

(Murray) - È un modo per tenere sotto controllo la morte. Un modo per conquistare il sopravvento definitivo Essere per una volta l'assassino. E lasciare a un altro la parte di quello che muore. Lasciarsi,
teoricamente, sostituire da lui in quel ruolo. Se muore lui, non puoi essere tu. Lui muore, tu vivi. Non
vedi com'è meravigliosamente semplice?

(Jack) - Vuoi dire che è quello che si fa da secoli?

(Murray) - E si continua a farlo. Lo si fa su piccola scala privata, lo si fa per gruppi, folle e masse. Si ammazza
per vivere.

(Jack) - Mi sembra una cosa terribile.

Parve scrollare le spalle.

(Murray) - Il massacro non avviene mai a caso. Più gente si ammazza, più potere si ottiene sulla propria morte. Negli assassinii più selvaggi e indiscriminati agisce una forma di segreta precisione. Parlarne non significa fare pubbliche relazioni per l'assassinio. Siamo due accademici in un ambiente intellettuale. È nostro dovere esaminare correnti di pensiero, indagare il significato del comportamento umano. Ma pensa quant'è eccitante riuscire vincitore in una lotta mortale, guardare quel bastardo dell'avversario che spande sangue.

(Jack) - In altre parole mi stai dicendo di tramare un assassinio. Ma ogni trama è in realtà un assassinio. Tramare significa morire, che lo si sappia o no.

(Murray) - Tramare significa vivere - Ribatté.

Lo guardai. Esaminai il suo volto, le sue mani.

(Murray) - Cominciamo la vita nel caos, nel balbettio. Poi, a mano a mano che ci eleviamo nel mondo, cerchiamo di elaborare una forma, un progetto. Tutto ciò ha una sua dignità. Tutta la vita è una trama, un piano, un diagramma. Un piano fallito, ma questo non c'entra. Tramare significa affermare la vita, cercarne una forma e il controllo. Anche dopo la morte - anzi, soprattutto dopo la morte - la ricerca continua. I riti funebri sono un tentativo di completare lo schema, in termini rituali. Immaginati un funerale di stato, Jack. È tutto precisione, dettaglio, ordine, disegno. La nazione trattiene il fiato. Gli sforzi di un governo immenso e potente in azione su una cerimonia che elimina l'ultima traccia di disordine. Se tutto va bene, se essa viene portata a compimento, si osserva una legge naturale della perfezione. La nazione è liberata dall'ansia, la vita del defunto è redenta, la vita stessa è rafforzata, riaffermata.

(Jack) - Ne sei sicuro? - chiesi.

(Murray) - Tramare, mirare a qualcosa, dare forma a tempo e spazio. E così che facciamo progredire l'arte della coscienza umana.

Tornammo verso il campus compiendo un ampio arco. Vie immerse in un'ombra profonda e silenziosa, sacchi della spazzatura messi fuori per essere ritirati. Superammo il sovrappasso del tramonto, facendo una breve sosta per guardare le macchine schizzare via velocissime. Raggi del sole che rimbalzavano da vetri e cromature.

(Murray) - Tu sei un assassino o uno che muore, Jack?

(Jack) - La risposta la sai già. È tutta la vita che muoio.

(Murray) - Che cosa potresti fare allora?

(Jack) - Che cosa può fare chiunque sia destinato a morire? Non è implicito nel gioco, che non possa
passare dall'altra parte?

(Murray) - Pensiamoci. Esaminiamo la natura, per così dire, della belva. L'animale maschio. Non c'è un fondo, una pozza, un serbatoio di potenziale violenza nella psiche del maschio?

(Jack) - In teoria suppongo di sì.

(Murray) - Ma noi stiamo parlando "proprio" di teoria. È "esattamente" ciò di cui stiamo parlando. Due amici in una via alberata. Che cos'altro, se non teoria? Non c'è un campo in profondità, una sorta di deposito di petrolio grezzo, cui si possa attingere quando l'occasione lo consente? Un grande lago oscuro di furia maschia.

(Jack) - È quello che dice Babette. Furia omicida. Mi sembri lei.

(Murray) - Donna straordinaria. Ha ragione o torto?

(Jack) - In teoria? Ha probabilmente ragione.

(Murray) - Non esiste forse una zona limacciosa che preferiresti non conoscere? Residuo di un periodo preistorico, allorché sulla terra erravano i dinosauri e gli uomini combattevano con armi di pietra? Quando uccidere significava vivere?

(Jack) - Babette parla di biologia maschile. Si tratta di biologia o di geologia?

(Murray) - Importa qualcosa, Jack? A noi occorre soltanto sapere se è lì, celato nell'animo più prudente e modesto.

(Jack) - Credo di sì. Può essere. Dipende.

- (Murray) C'è o non c'è?

- C'è, Murray. E allora?

(Murray) - Voglio soltanto sentirtelo dire. Nient'altro. Desidero soltanto cavare fuori delle verità che possiedi già, delle verità che a un certo livello di base hai sempre conosciuto.

(Jack) - Vuoi dire che il destinato a morire può convertirsi in assassino?

(Murray) - Sono soltanto un visiting professor. Teorizzo, faccio passeggiate, ammiro alberi e case. Ho i miei studenti, la mia camera in affitto, il mio apparecchio T.V. Prendo una parola qui, un'immagine là. Ammiro i prati, le verande. Che cosa meravigliosa è una veranda. Come ho fatto a passare tutta una vita, fino ad adesso, senza una veranda dove sedermi? Io speculo, rifletto, prendo continuamente appunti. Sono qui per pensare, per vedere. Consentimi di avvertirti, Jack. Io non mollo.



giovedì 29 dicembre 2016

Da "La morte a Venezia", Thomas Mann 

"Niente è più singolare, più imbarazzante che il rapporto tra due persone che si conoscono solo attraverso gli occhi, che si vedono tutti i giorni a tutte le ore, si osservano e nello stesso tempo sono costretti dall'educazione o dalla bizzarria a fingere indifferenza e a passarsi accanto come estranei, senza saluto né parola. 

Fra di loro c'è inquietudine ed esasperata curiosità, l'isteria di un bisogno insoddisfatto, innaturale e represso di conoscersi e di comunicare e soprattutto una sorta di ansiosa attenzione. 

Infatti l'uomo ama e onora l'uomo fino a che non è in grado di giudicarlo, e il desiderio è il frutto di una conoscenza incompleta".