Thomas Mann
Thomas
Buddenbrook e Schopenhauer
da I Buddenbrook
Ma era lì in quel
padiglione, nella piccola sedia a dondolo di vimini gialli, restò a leggere un
giorno per quattro lunghe ore, con commozione sempre crescente un libro che, un
po’ per caso e un po’ cercato, gli era capitato fra le mani... Dopo la seconda
colazione, la sigaretta fra le labbra, lo aveva trovato nella saletta da fumo,
in un angolo recondito della libreria, nascosto dietro dei grossi volumi, e si
era ricordato che un giorno, anni prima, lo aveva acquistato distrattamente dal
libraio, a un prezzo d’occasione: un’opera piuttosto voluminosa, stampata male
su una carta sottile e giallastra, mal rilegata, la seconda
parte soltanto di un famoso sistema metafisico... Se lo era portato in giardino
e, profondamente assorto, voltava pagina dopo pagina...
Una
contentezza sconosciuta, grande e riconoscente lo colmava. Egli provava
l’impareggiabile soddisfazione di vedere come una mente enormemente superiore
si fosse impadronita della vita, di quella vita così forte, spietata e
beffarda, per sottometterla e
condannarla...
la soddisfazione di colui che soffre, che, davanti alla fredda durezza della
vita, ha tenuto costantemente nascosta la sua sofferenza, per vergogna e per
cattiva coscienza e improvvisamente, dalla mano di un grande saggio, ottiene il
diritto razionale e solenne di offrire nel mondo - questo mondo migliore di
tutti i mondi pensabili, che con scherzosa ironia veniva dimostrato come il
peggiore di tutti i mondi pensabili. Non capiva tutto; principi e premesse restavano per lui poco chiari,
e la sua mente, poco esercitata in quelle letture, non riusciva a seguire certi
ragionamenti. Ma, proprio l’avvicendarsi di luce e oscurità, di cupa
incomprensione, di vaga intuizione e di improvvisa chiarezza lo teneva col
fiato sospeso, e le ore svanivano, senza che alzasse gli occhi dal libro o
soltanto cambiasse posizione sulla sedia. Da
principio, aveva saltato molte pagine, e, andando avanti rapidamente, alla
ricerca frettolosa e inconsapevole della questione centrale, ansioso di
conoscere la parte veramente essenziale, si era soffermato soltanto su questo o
quel capitolo che più lo avvinceva. Ma poi incontrò un lungo capitolo, che lesse
dalla prima all’ultima parola, con le labbra serrate e le sopracciglia
aggrottate, con il volto serio, di una severità assoluta, quasi assente, e non
turbata per nulla dalla vita intorno a lui. Questo capitolo si intitolava:
«Della morte e del suo rapporto con l’indistruttibilità del nostro essere in
sé».
Gli
mancavano poche righe, quando, alle quattro, la cameriera venne attraverso il
giardino per annunciare che era in tavola. Egli fece cenno di sì, lesse le
ultime frasi, chiuse il libro e si guardò intorno... Sentiva tutto il suo
essere estendersi enormemente, preso da una grave, oscura ebbrezza; i sensi annebbiati e completamente
inebriati da qualcosa di indicibilmente nuovo, allettante e promettente, che
faceva pensare al primo trepido desiderio d’amore. Ma allorché, con mani fredde
e incerte, ripose il libro nel cassetto del tavolo da giardino, la sua testa
ardente, dominata da una strana pressione, da una tensione inquietante, come se
qualcosa potesse esplodervi dentro, non era capace di formulare un pensiero completo.
Che cosa è stato?
si chiese, mentre rientrava in casa, saliva lo scalone centrale e si sedeva a
tavola con i suoi... Che cosa mi è accaduto? Che cosa ho sentito? Che cosa mi è
stato detto, a me, Thomas Buddenbrook, senatore di questa città, presidente
della ditta «Johann Buddenbrook»...? Era destinato a me? Potrò sopportarlo? Non
so, che cosa è stato... so, solamente che è troppo, troppo per
il mio cervello
borghese...
In
questo stato di pesante, cupo abbattimento, ebbro e privo di pensieri,
trascorse tutto il giorno. Poi venne la sera, e, incapace di reggere ancora
oltre la testa sulle spalle, si coricò presto. Dormì per tre ore d’un sonno
profondo e incredibilmente profondo, come non mai nella sua vita. Poi si
svegliò, all’improvviso, con quella deliziosa angoscia di chi si sveglia solo,
con un amore nascente nel
cuore.
Sapeva
di essere solo nella grande camera da letto, poiché Gerda dormiva nella camera
di Ida Jungmann, che di recente, per essere più vicina al piccolo Johann, aveva
occupato una delle tre stanze dell’«Altana». Intorno a lui era notte fonda,
poiché le tende delle due alte finestre erano ben chiuse. Nel silenzio profondo
e nell’afa opprimente, egli rimase supino a guardare nel buio.
Ed ecco,
improvvisamente fu come se l’oscurità davanti ai suoi occhi si lacerasse, come
se il muro vellutato della notte si aprisse per svelare un’eterna infinita
lontananza di luce... «Io vivrò!» disse Thomas Buddenbrook quasi ad alta voce e
sentì come il petto gli tremasse per un intimo singhiozzo. «Ecco, io vivrò! Si
vivrà... e che questo “si” non sia io, è soltanto un’illusione, è stato
soltanto un errore che la morte correggerà. È così, è così!...Perché?»
- E a quella domanda la notte si richiuse davanti ai suoi occhi. Di nuovo non
vedeva, non sapeva e non capiva nulla e si lasciò cadere sui cuscini,
abbagliato e spossato da quel poco di verità che aveva potuto intravedere.
Giacque immobile,
in trepida attesa, quasi tentato di pregare, perché la luce tornasse ancora. E
tornò. A mani giunte, senza osare di muoversi, poté vedere...
Che cosa era la
morte? La risposta non gli si presentò in misere presuntuose parole: egli la
sentiva, la possedeva nel suo intimo. La morte era una felicità, così profonda
da potersi valutare appieno soltanto nei momenti di grazia, come quello. Era il
ritorno da un labirinto indicibilmente penoso, la correzione di un grave
errore, la liberazione dai limiti e dai vincoli più odiosi - il rimedio a una
deplorevole sventura.
Fine,
disfacimento? Tre volte compassionevole colui che prova orrore a questi vani
concetti! Che cosa dovrebbe finire! Che cosa dovrebbe disfarsi? Questo corpo...
questa personalità e individualità, questo pesante, ostinato, imperfetto e
detestabile impedimento a essere qualcosa di diverso e di migliore!
Non
è ogni uomo un errore, un passo falso? Non cade egli in una penosa prigionia
appena nasce?
Prigione!
Prigione! Barriere e vincoli dappertutto! Attraverso le sbarre della sua
individualità l’uomo fissa senza speranza le mura delle circostanze esteriori,
fin quando la morte arriva per richiamarlo in patria e alla libertà...
Individualità!...
ahimè! ciò che si è, ciò che si può e si possiede appare misero, grigio,
insufficiente e tedioso; ciò che invece non si è, ciò che non si può e non si possiede, è ciò a cui guardiamo con quell’ardente
invidia che diventa amore perché teme di trasformarsi in odio. Io porto in me
il germe, lo spunto, la possibilità di tutte le capacità e abilità del mondo...
Dove potrei essere, se non fossi qui! Chi, che cosa, come potrei essere, se non
fossi io, se questa mia persona non mi imprigionasse e se non superasse la mia
coscienza da quella di tutti coloro che non sono io! L’organismo! Cieca,
sconsiderata deplorevole eruzione della pressante volontà!
Meglio, in verità, che questa volontà erri libera nella notte senza spazio e
senza tempo, piuttosto che languire in una prigione, appena rischiarata dalla
vacillante fiammella dell’intelletto!
Ho sperato di
continuare a vivere in mio figlio? In una personalità ancora più timorosa,
debole ed esitante? Infantile, ingannevole follia! Che cosa è per me un figlio?
Io non ho bisogno di figli!... Dove sarò, quando sarò morto? Ma è così chiaro,
così incredibilmente semplice! Io sarò in tutti coloro, che mai abbiano detto
io, che lo dicono e lo diranno: ma particolarmente in coloro che lo dicono più
pienamente con più forza e con più gioia...
Da
qualche parte nel mondo cresce un fanciullo, ben dotato e ben riuscito, capace
di sviluppare le sue capacità, schietto e sereno, puro, spietato e vivace, uno
di quegli uomini la cui vista accresce la felicità ai felici e porta
gl’infelici alla disperazione: ecco mio figlio. Quello sono io, appena...
appena la morte mi libererà della povera illusione, che non sia tanto lui
quanto io...
Ho
mai odiato la vita. Questa vita pura, forte e spietata? Follia e malinteso!
Soltanto me ho odiato, per il fatto che non la potevo sopportare. Ma io vi
amo... vi amo tutti, voi felici, e presto finirò di essere separato da voi da
un’angusta prigione; presto ciò che dentro di me vi ama, diventerà liberamente
il mio amore per voi e sarà con voi e in voi... con e in voi tutti!
Piangeva;
premette il volto contro i cuscini e pianse, tremando, e come ebbro, sollevato
da una felicità, che non era paragonabile ad alcuna sulla terra per dolorosa dolcezza. Ecco cos’era, tutto quello che dal
pomeriggio precedente lo aveva colmato di ebbrezza, ciò che, nel cuore della
notte, si era mosso in lui e lo aveva destato come un amore nascente. E adesso
che poteva comprenderlo e riconoscerlo - non con parole e pensieri concatenati,
ma con improvvise beatificanti illuminazioni del suo spirito -, egli era già
libero, egli era realmente interamente riscattato, affrancato da ogni limite e
da ogni vincolo sia naturale sia artificiale.
Le
mura della sua città natale, nella quale egli, volontariamente e
scrupolosamente, si era chiuso, si spalancavano, e schiudevano al suo sguardo
il mondo, tutto il mondo, del quale in gioventù aveva visto questo o quel
tratto, e che la morte prometteva di regalargli per intero. Le ingannevoli
forme di percezione del tempo, dello spazio e quindi della storia, l’affanno di
una continuazione storica e onorata nella persona dei discendenti, la paura
della dissoluzione storica, della decomposizione finale - di tutto ciò il suo
spirito si era liberato e non gli impediva più di comprendere l’eternità. Nulla
incomincia e nulla finisce. Esisteva solo un infinito presente, e quella forza
in lui, che amava la vita di un amore così dolorosamente dolce, penetrante e nostalgico,
e della quale la sua persona era solo una mal riuscita espressione - avrebbe
sempre saputo trovare le vie d’accesso a questo presente.
«Io
vivrò!» sussurrava egli tra i cuscini, piangeva e... un attimo dopo non sapeva
più perché. Il suo cervello si era fermato, la sua scienza si era spenta, e in
lui improvvisamente non c’era più niente altro che un’oscurità silenziosa. «Ma
ritornerà!» assicurava a se stesso. «Non l’ho forse già posseduta?»... E,
mentre sentiva come lo stordimento ed il sonno calavano irresistibili come
un’ombra su di lui, giurò a se stesso di non lasciare mai andar via quella
immensa felicità, ma di riunire le sue forze, e di imparare, di leggere e di
studiare, fin quando non avesse fatta propria, in maniera salda e inalienabile
tutta la visione del mondo, dalla quale tutto ciò, aveva tratto origine.
Non fu possibile,
e già al mattino seguente, quando si destò con un lieve senso di imbarazzo per
le stravaganze spirituali del giorno precedente, presagì che quei bei propositi
non erano attuabili.
Si
alzò tardi e si doveva subito recare a una seduta del consiglio comunale. La
vita pubblica, la vita di cittadino e di un uomo d’affari nelle vie tortuose e
irte di frontoni di quella città commerciale di media grandezza, si impadronì
nuovamente del suo spirito e delle sue forze. Sempre animato dal proposito di
riprendere quella meravigliosa lettura, egli cominciò tuttavia a domandarsi se
le esperienze di quella notte fossero in realtà e durevolmente qualcosa per
lui, e se al giungere della morte avrebbero praticamente resistito. Il suo
istinto borghese si ribellava. Anche la sua vanità si risentiva: la paura di
giocare un ruolo strano e ridicolo. Erano cose da lui? Si attagliavano, a lui,
al senatore Thomas Buddenbrook, capo della ditta «Johann Buddenbrook?...»
Non
riuscì mai più a dare un’occhiata a quel singolare libro che nascondeva così
tanti tesori, né, tanto meno, a procurarsi gli altri volumi della grande opera.
Quella pedanteria nervosa che, con l’andare degli anni, si era impadronita di
lui, consumava i suoi giorni. Incalzato dalle cento futili piccolezze di tutti
i giorni, che la sua testa s’affannava a tenere in ordine e a portare a
compimento, era troppo debole per realizzare una ragionevole e proficua
suddivisione del suo tempo. E all’incirca due settimane dopo, quel memorabile
pomeriggio era così lontano che egli rinunciò a tutto e ordinò alla cameriera
di andare subito a prendere quel libro che, per trascuratezza, era rimasto nel
cassetto del tavolo da giardino, e di riporlo nella libreria.
E fu così che
Thomas Buddenbrook, che aveva teso evidentemente le mani verso le supreme
verità, ripiombò esausto nelle idee e nelle immagini, a cui fin dall’infanzia
era stato educato a credere. Meditava e gira e gira si ricordava del Dio uno e
trino, padre degli uomini, che aveva inviato sulla terra una
parte di sé, affinché per noi soffrisse e sanguinasse, che nel giorno del
giudizio avrebbe giudicato, e i giusti ai suoi piedi sarebbero stati
ricompensati nel corso dell’eternità, che avrebbe allora avuto inizio, per gli
affanni di questa valle di lacrime... di tutta questa storia, poco chiara e un
po’ assurda, che non richiedeva comprensione ma soltanto docile fede e che
sarebbe stata presente, con parole immutabili e puerili, al momento delle
estreme angosce... Davvero?
Ma
anche qui non trovava pace. Quell’uomo, roso dall’apprensione per l’onore della
sua casa, per sua moglie, per suo figlio, il suo nome e la sua famiglia,
quell’uomo logorato, che con arte e fatica manteneva il suo corpo diritto,
elegante e inappuntabile, si affannò per giorni chiedendosi come stavano le
cose: se dopo la morte l’anima andasse davvero direttamente al cielo, o se la
beatitudine avesse inizio soltanto con la resurrezione della carne... E dove
rimaneva l’anima fino ad allora?
Glielo
avevano mai insegnato a scuola e in chiesa? Era lecito lasciare gli uomini in
tale ignoranza? - E fu sul punto di recarsi dal pastore Pringsheim per
chiedergli consiglio e conforto, ma all’ultimo momento se ne astenne per paura
del ridicolo.
Infine, rinunciò a
tutto per rimettersi nelle mani di Dio. Ma poiché per mettere ordine nelle sue
cose spirituali era giunto a risultati così insoddisfacenti, egli decise almeno
di dare un assetto scrupoloso ai suoi affari terreni, portando a compimento un
proposito a lungo serbato.
Schopenhauer
«Della morte e del suo rapporto con
l’indistruttibilità del nostro essere in sé».
La morte e l’autentico genio
ispiratore, il segnavia della
filosofia, ed e per questo che Socrate ha definito quest’ultima anche come qan£tou melšth (esercizio di
morte). Sarebbe stato difficile, perciò, che senza la morte
si producesse il filosofare.
…
L’animale vive senza conoscere
davvero la morte, ed e per questo che il singolo animale gode in modo immediato
dell’intera immortalità
della specie, dato che ha coscienza di sè
come di un
essere non destinato alla fine. Nell’uomo,
invece, con la ragione si presenta necessariamente la coscienza spaventosa
della morte. Tuttavia, dato che dovunque in natura per ogni male è predisposto un rimedio, o, quanto meno, una sorta di
compensazione, anche qui quella stessa riflessione con la quale si produce la
conoscenza della morte fa anche in modo di elevarci a un punto di vista metafisico,
il quale riesce a consolarci dal pensiero della morte e del quale l’animale o non ha bisogno o non è capace. Tutte le religioni e i sistemi filosofici sono
diretti fondamentalmente a questo scopo e costituiscono dunque anzitutto l’antidoto contro quella
certezza della morte che la ragione, nella propria opera di
riflessione, produce con i suoi propri mezzi. Molto diverso, a ogni modo, e il
grado con il quale si riesce a conseguire questo scopo, e non c’e dubbio che una sola religione o una sola filosofia
renderanno l’uomo capace di guardare in faccia la morte
con occhio tranquillo ben più di quanto possano le altre. Il
brahmanesimo e il buddismo, che insegnano all’uomo
a considerare sè stesso come il Brahman, come lo stesso essere originario,
al quale ogni nascere e perire sono essenzialmente estranei, si prestano a
questo scopo assai più di quanto si prestino quelle dottrine
che considerano l’uomo come un essere prodotto dal
nulla e che fanno iniziare la
sua esistenza effettiva, ricevuta da un altro, con la
nascita. Conformemente a questo, troviamo in India una sicurezza e un disprezzo
nei confronti della morte di cui in Europa non abbiamo la
minima idea. In effetti è
intollerabile vedere come, a proposito di una questione di tale importanza, si
introducano a forza nell’uomo, inculcandoglieli precocemente,
pensieri falsi e inconsistenti, tali da renderlo incapace per sempre di
acquisirne di più corretti e più stabili. Per esempio, insegnargli che solo da breve tempo
egli è scaturito dal nulla e che, di conseguenza, per tutta un’eternità è
stato nulla, e che tuttavia per il futuro dovrà
essere immortale, è precisamente come insegnargli che,
sebbene egli sia in tutto e per tutto l’opera di un
altro, ciononostante dovrà essere responsabile per tutta l’eternità delle proprie azioni e omissioni. Così che poi, una volta che il suo spirito è maturato e ha fatto la sua comparsa la capacità di riflessione, l’insostenibilità di dottrine di tal fatta gli s’impone
a forza, ed egli non ha nulla di meglio da collocare al loro posto, anzi, non è nemmeno più capace di concepire nulla
di meglio, e in questo modo viene privato della
consolazione che la natura stessa ha predisposto per lui per compensare la
certezza della morte.
….
A ogni modo, stando a quanto abbiamo appreso a proposito
della morte, non possiamo negare che, quanto meno in Europa, l’opinione
degli uomini, anzi, spesso quella del medesimo individuo, si trova non di rado
a oscillare tra una nozione della morte come assoluto annientamento e l’ipotesi che noi, in carne e ossa, siamo immortali. Entrambe
le concezioni sono egualmente false, solo che ci mettiamo molto meno a trovare
un giusto mezzo tra di loro che a elevarci a quel superiore punto di vista dal
quale convinzioni di tal fatta svaniscono da sè.
Con queste considerazioni io voglio prima di tutto prendere le mosse da un
punto di vista puramente empirico.
Ci si presenta per prima cosa un fatto incontestabile:
stando alla coscienza naturale,
non è solo in relazione alla propria
persona che l’uomo teme la morte più di ogni altra cosa, ma piange disperatamente anche la
morte dei propri cari; ed è evidente che questo non accade perché egli sia egoisticamente afflitto dalla perdita di se
stesso, ma in ragione della compassione che ciascuno prova dinanzi alla
disgrazia così grave che li ha colpiti; ragion per cui costui biasima
quanti in circostanze di questo genere non piangono e non manifestano alcuna
tristezza, accusandoli di essere duri di cuore e insensibili. Parallelo a
questo e il fatto che la sete di vendetta, ai livelli più estremi, cerca la morte dell’avversario
come il male peggiore che gli possa essere inflitto.
Le opinioni mutano a seconda del tempo e del luogo, ma la
voce della natura rimane sempre e dovunque la stessa, ed è perciò quella alla quale dobbiamo prestare
ascolto prima che
a ogni altra. Ebbene, essa sembra dirci con chiarezza che
la morte è un grande male. Nel linguaggio della natura, morte
significa annientamento. E che la morte sia una faccenda seria, lo si può già ricavare dalla circostanza che, come
ognuno sa, la vita non è uno scherzo. Senza dubbio non ci
meritiamo niente di meglio di esse. La paura della morte è di fatto indipendente da qualsiasi conoscenza, come
dimostra il fatto che anche l’animale la prova, sebbene
non sappia che cosa sia la morte. Tutto ciò
che è nato la porta già
con sè nel mondo. Questa paura della morte, tuttavia, è a priori solo l’altra faccia di quella
volontà di vivere che tutti noi siamo. E’ per questo che in ogni animale tanto la cura per la
propria conservazione quanto la paura per la propria distruzione sono qualcosa
di innato; ed e appunto quest’ultima, non la mera tendenza a evitare
il dolore, che si manifesta nella cautela inquieta con la quale l’animale cerca di proteggere se stesso e ancor di più i suoi piccoli da chiunque possa rappresentare un
pericolo. Perchè l’animale si dà alla fuga, trema e cerca di nascondersi? Perchè è pura volontà
di vivere, ma in quanto tale è
preda della morte e vorrebbe guadagnare del tempo. Nella sua natura l’uomo non è niente di diverso.
Il peggiore dei mali, la cosa più grave che lo possa minacciare, è la morte: la sua paura più
grande è la paura della morte. Non c’è nulla che ci trascini in modo così irresistibile sino alla più
viva partecipazione quanto il vedere qualcun altro in pericolo di vita; nulla è così orribile quanto un’esecuzione
capitale. Ora, l’attaccamento illimitato alla vita che
si mostra in queste circostanze non può
però essersi originato dalla conoscenza e dalla riflessione; a
queste ultime, al contrario, esso sembra sciocco, dato che il valore obiettivo
della vita risulta molto precario e che resta quanto meno dubbio se essa sia o
meno preferibile al non-essere; anzi, se l’esperienza e
la riflessione potessero parlare, il non-essere dovrebbe senz’altro risultare vincente. Se bussassimo alle tombe e
chiedessimo ai defunti se vogliano risorgere, costoro scuoterebbero la testa in
segno di diniego. Viene di qui anche l’opinione
espressa da Socrate
nell’Apologia platonica :
“Ma è ormai venuta l’ora
di andare io a morire, e voi, invece, a vivere. Ma chi di
noi vada verso ciò
che è meglio, è oscuro a tutti, tranne che al dio”,
e persino l’amabile e allegro
Voltaire non può trattenersi dal dire:
≪On
aime la vie; mais le neant ne laisse pas d’avoir du bon
(Amiamo la vita, ma il nulla non cessa di avere qualcosa di buono) ≫; e ancora: ≪Je ne sais pas ce que c’est que la vie eternelle, mais celle-ci est une mauvaise
plaisanterie(Io non so che cosa sia la vita eterna, ma questa qui è un giuoco malvagio)≫
In aggiunta, la vita deve in ogni caso aver presto fine,
così che i pochi anni che presumibilmente sono ancora concessi
alla nostra esistenza svaniscono del tutto dinanzi al tempo infinito durante il
quale non esisteremo più. Di conseguenza, agli occhi della
riflessione non può che apparire ridicolo che noi ci si
preoccupi così tanto per questo breve lasso di tempo, che si tremi così tanto quando la nostra o l’altrui
vita vengono messe in pericolo, che si compongano tragedie nelle quali il
dramma ricava la propria forza unicamente dalla paura della morte. Questo
vigoroso attaccamento alla vita è
dunque cieco e contrario alla ragione: lo si può
spiegare solo con la circostanza che il nostro essere in sè è per intero e senza alcun dubbio
volontà di vivere, per la quale la vita, per quanto amara, breve e
incerta possa essere, non può perciò
che valere come il bene sommo, e che questa volontà è in sè
originariamente
cieca ed estranea alla conoscenza. La conoscenza,
viceversa, ben lungi dall’essere l’origine
di questo attaccamento alla vita, agisce in contrapposizione ad esso, in quanto
scopre la mancanza di valore della vita e, in questo modo, combatte la paura
della morte.
Quando riesce a vincere, e l’uomo,
conseguentemente, fronteggia la morte con coraggio e tranquillità, ecco che questa condotta viene onorata come grande e
nobile: celebriamo allora il trionfo della conoscenza sulla cecità della volontà
di vivere, la quale costituisce nondimeno il nocciolo del nostro proprio
essere. Analogamente, disprezziamo la persona nella quale, in questo conflitto,
la conoscenza venga sopraffatta, la persona che perciò si aggrappi incondizionatamente alla vita, che si opponga
strenuamente alla morte
che si approssima e si disperi quando è sul punto di riceverla; ciò
che parla in lui è appunto solo l’essenza
originaria del nostro sè e della natura. Potremmo chiederci,
di passaggio: com’è
che l’amore illimitato della vita e gli sforzi messi in
atto in tutti i modi per conservarla il più
a lungo possibile possono essere considerati bassi, spregevoli, indegni della
loro fede da parte di chi aderisce a una qualunque religione, se la vita è il dono di un dio buono che dev’essere
accolto con gratitudine? E come potranno mai apparire grandi e nobili coloro i
quali la trattano con disprezzo?
Intanto queste
considerazioni ci confermano:
1) che la volontà
di vivere è l’essenza profonda dell’uomo;
2) che essa è,
in sè stessa, cieca ed estranea alla conoscenza;
3) che la conoscenza è
un principio aggiuntivo, estraneo all’originario;
4) che volontà
e conoscenza sono in antagonismo e che il nostro giudizio plaude alla vittoria
della conoscenza sulla volontà.
Se quel che rende la morte così terribile ai nostri occhi è
il pensiero dell’essere-niente, allora dovremmo pensare
con il medesimo orrore al tempo durante il quale non esistevamo ancora.
Giacchè è
incontestabilmente certo che l’essere-niente dopo la
morte non può essere diverso da quello che ha preceduto la nascita e che
conseguentemente non può nemmeno essere più spiacevole di esso. Un’eternità intera ha fatto il suo corso quando noi non esistevamo
ancora
; questo pensiero però
non ci disturba in alcun modo. Viceversa troviamo duro, addirittura
insopportabile che al momentaneo intermezzo di
un’esistenza effimera debba
seguire una seconda infinita nella quale noi non esisteremo
più. Ora, può essere che questa sete di esistenza
si sia prodotta per il fatto che noi adesso l’abbiamo
assaggiata e l’abbiamo trovata così piacevole? L’abbiamo già spiegato brevemente poc’anzi:
certamente no; l’esperienza fatta avrebbe dovuto
piuttosto ridestare in noi un desiderio infinito di quel paradiso perduto che è il non-essere. Aggiungiamo anche che alla speranza di un’anima immortale si è
sempre accompagnata quella in un ≪mondo migliore≫ – segno che quello presente non deve valere granchè.
Malgrado tutto questo, la questione della nostra condizione
dopo la morte è stata certamente sollevata decine di migliaia di volte più spesso, nei libri e oralmente, di quella relativa alla
nostra condizione prima della nascita. Dal punto di vista teoretico, a ogni
modo, questo
è un problema immediato e legittimo tanto quanto il
precedente, così che colui il quale riuscisse a dare una risposta all’uno avrebbe parimenti fatto piena luce anche sull’altro. Che belle declamazioni possediamo su quanto
sconvolgente possa essere il pensiero che la mente umana, la quale abbraccia il
mondo intero ed è capace di cosi tanti pensieri assolutamente
eccellenti, debba essere calata nella tomba insieme al corpo; ma non si sente
una parola a proposito del tempo infinito che questa stessa mente deve aver
trascorso prima di nascere con queste sue caratteristiche, e di come il mondo
abbia dovuto arrangiarsi così a lungo anche in sua assenza. E
tuttavia alla conoscenza che non sia corrotta dalla volontà non c’è domanda che si presenti in modo più naturale di questa: un tempo infinito è trascorso prima della mia nascita; cos’ero
io durante tutto questo tempo? –
…
L’infinita a parte post senza di me, infatti, non può
essere più spaventosa della infinita a parte ante senza
di me, stante che non c’è
null’altro che le distingua se non l’interposizione
tra l’una e l’altra di un
effimero sogno di vita. Inoltre tutte le prove a sostegno di una continuazione
al di là della morte possono essere rivolte altrettanto bene anche in partem ante, nel qual caso esse dimostrano l’esistenza
prima della vita, assumendo la quale Indu e buddisti si dimostrano perciò assai consequenziali. Solamente l’idealità Kantiana del tempo
scioglie tutti questi
enigmi, ma non è
di questo che ci stiamo occupando al momento.
C’è
comunque qualcosa che segue da quel che s’è detto: che affliggersi per il tempo nel quale non
esisteremo più è tanto assurdo quanto affliggersi per
quello nel quale non esistevamo ancora: che il tempo che non è riempito dalla nostra esistenza sia, rispetto al
tempo che essa riempie, un futuro o un passato, non fa
davvero nessuna differenza.
Ma anche prescindendo da queste considerazioni relative al
tempo, è in sè e per sè
assurdo ritenere che il non-essere sia un male, dato che ogni male, come ogni
bene, ha come presupposto l’esistenza, anzi, di più: la coscienza; quest’ultima però cessa con il cessare della vita, come anche nel sonno e
nello svenimento; la sua assenza ci è
familiare, e ci è ben noto che non include alcun male,
e che in ogni caso il suo prodursi è
questione di un istante.
E p i c u r o considera la morte da questo punto di vista e
dice perciò, del tutto correttamente:
”Ð qanatoj mhd˜n prÒj ¹m©j (la morte non ci riguarda)”;
con la spiegazione che quando ci siamo noi, la morte non è, e quando la morte c’è, noi non ci siamo (Diogene Laerzio, X, 27). L’aver perduto qualcosa della cui mancanza non possiamo
accorgerci non è evidentemente un male; ragion per cui il diventar-niente
ci dovrebbe tormentare tanto poco quanto l’esser- stati-niente.
Dal punto di vista della conoscenza appare dunque che il timore della morte non
ha assolutamente alcun fondamento: la coscienza consiste nel sapere, e perciò per essa la morte non è
in alcun modo un male. Inoltre questa parte c o n o s c e n t e del nostro io
non è in effetti quella stessa che teme la morte; la fuga mortis scaturisce piuttosto dalla v o l o n t à cieca, della quale tutte le cose che vivono sono riempite.
La fuga mortis però – come
già sopra si è osservato – appartiene
essenzialmente alla volontà proprio perchè quest’ultima è volontà di vivere: tutta quanta la sua
essenza consiste in un impulso imperioso verso la vita e l’esistenza,
e la conoscenza non abita insieme ad essa originariamente, bensì solo a seguito del suo oggettivarsi in individui animali.
Ora, quando, per suo tramite, la volontà
riconosce nella morte la fine del
fenomeno con il quale si era identificata e nel quale dunque si era rinchiusa,
tutta la sua natura combatterà contro di essa con tutte le forze.
Indagheremo più avanti se essa abbia effettivamente qualcosa da temere
dalla morte, e allora ci dovremo rammentare
di quale sia la vera fonte della paura della morte, che qui
è stata indicata con
l’opportuna distinzione tra la parte volitiva e la
parte conoscitiva del nostro essere.
…..…
Corrisponde a quel che s’è detto anche il fatto che a rendere la morte cosi
spaventosa ai nostri occhi non è tanto la fine di una vita che nessuno
può ritenere particolarmente degna di essere rimpianta, quanto
piuttosto la distruzione dell’organismo, propriamente perche
quest’ultimo è
la volontà stessa che si manifesta come corpo.
Tuttavia noi percepiamo realmente questa distruzione solo nel
male della malattia o della vecchiaia; viceversa, la morte stessa consiste, per
il s o g g e t t o , solo nell’istante in cui la
coscienza svanisce, nel quale cessa l’attività del cervello. Il successivo diffondersi
di questa cessazione alle altre parti dell’organismo
è già, propriamente, un avvenimento che si
verifica dopo la morte. La morte, dal punto di vista soggettivo, riguarda
dunque solamente
la coscienza.
……………….
(La morte) essa appare invece spesso proprio come un bene,
come qualcosa di desiderabile, come una vera amica. Tutti coloro che si sono
imbattuti in ostacoli insormontabili per la loro esistenza o per i loro sforzi,
che soffrono di malattie incurabili o di struggimenti inconsolabili, trovano quasi
sempre spalancata dinanzi a loro, come ultima via di scampo, la possibilità di far ritorno nel grembo della natura, dal quale essi, come
ogni altra cosa, sono emersi per un breve lasso di tempo, allettati dalla
speranza di condizioni di esistenza piu favorevoli di quelle nelle quali si
sono imbattuti, e al quale possono far ritorno
percorrendo la stessa via che rimane sempre aperta dinanzi
a loro.
Questo ritorno è
la cessio bonorum del
vivente. Anche qui, tuttavia, il ritorno è
possibile solo dopo un conflitto fisico o un conflitto morale: tanto forte è la resistenza che ciascuno oppone al
ritornare nella condizione che ha prontamente abbandonato
con tanta facilita per un’esistenza che ha avuto da offrire così tante sofferenze e così
poche gioie.
–
Gli Indù danno a Yama , il dio della morte, due facce: l’una assai spaventosa e terribile, l’altra
assai amabile e benevolente. Il che è
già spiegato in parte dalle considerazioni che abbiamo appena
svolto.
……………
Il principio che ci dà
vita, tuttavia, lo dobbiamo pensare per il momento come una forza naturale,
sino a che un’indagine più
approfondita non ci consenta magari di riconoscere
che cosa esso sia in sè
stesso. Già come forza naturale, a ogni modo, la forza vitale non
viene in alcun modo intaccata dal mutamento delle forme e degli stati che si
producono e si dissolvono in forza della catena delle cause e che soli sono
soggetti al processo
del comparire e dello scomparire, come ci viene attestato
dall’esperienza.
Quel che s’e detto sin qui permette
già di dimostrare il carattere imperituro della nostra
autentica essenza. Ma sicuramente non soddisferà
le richieste che usualmente vengono avanzate in materia di prove del nostro
continuare a sussistere dopo la morte,
nè sarà
in grado di procurare la consolazione che ci si aspetta da prove di tal fatta.
Pure qualcosa c’è
sempre, e colui il quale teme che la morte sia il proprio assoluto
annientamento non potrà disdegnare la piena certezza che il
principio profondo della sua vita non viene intaccato da essa. –
Di più, si potrà prospettare il paradosso che anche quella seconda realtà, la quale, proprio come le forze della natura, non viene
intaccata dal continuo mutamento degli stati guidato dalla causalità, vale a dire la materia, ci assicuri in forza della
propria assoluta permanenza un’indistruttibilità in virtù della quale colui che sia incapace di
afferrarne un’altra
possa già confidare in una certa immortalità. ≪Ma come? –
si dirà,
–
la permanenza della mera polvere, della materia bruta, dovrà essere
considerata come la continuazione della nostra essenza?≫ –
Oh! Ma conoscete questa polvere? Sapete che cosa essa è e che
cosa e in grado di fare? Imparate a conoscerla, prima di
disprezzarla.
Questa materia, che ora sta qui come polvere e cenere,
comincerà
presto, una volta che venga disciolta nell’acqua,
a cristallizzarsi,
risplenderà come un metallo, emetterà poi scintille d’elettricità,
rivelerà, per mezzo della sua tensione galvanica,
una forza
che, disgregando le connessioni più resistenti, sarà
in grado di trasformare
la terra in metallo; anzi, prenderà da sè la forma di piante
e di animali, e dal suo grembo misterioso svilupperà quella vita
per la perdita della quale voi, nella vostra limitatezza,
siete così
ansiosamente preoccupati. E’
davvero dunque così assolutamente
niente continuare a sopravvivere come una materia di tal
fatta?
Anzi, io asserisco sul serio che la stessa permanenza della
materia
depone a favore dell’indistruttibilità del nostro vero essere, sebbene
solo con un’immagine e una
similitudine, o piuttosto solo
come una silhouette
…..….
Le considerazioni che ci hanno condotto sino a questo punto
e
alle quali sono collegate le delucidazioni che seguono,
hanno preso
le mosse dalla notevole paura della morte che tormenta
tutti gli
esseri viventi. Ora però
intendiamo modificare il nostro punto di
vista e considerare per una volta come l’
i n t e r o della natura, in
contrasto con le singole esistenze, si comporti per quel
che concerne
la morte; nel farlo noi continueremo comunque sempre a
stare
sul solido terreno dell’esperienza.
…………………..
La n a t u r a , che
non mente mai ma che è
sempre schietta e aperta, ci parla di questo
tema in modo affatto diverso, come fa Krishna nella Bhagavad-
Gītā. Dice che la morte o la vita dell’individuo
non hanno alcuna
importanza. E lo esprime lasciando la vita di ogni animale
e quella
dell’uomo stesso in balia dei casi
più insignificanti, senza farsi
carico della loro salvezza.
Considerate l’insetto che si trovi sul
vostro cammino: un piccolo, inconsapevole movimento del
vostro piede può decidere della sua vita o della sua morte. Osservate la
lumaca di bosco, che non ha mezzo alcuno per volare, per difendersi,
per depistare, per occultarsi: una preda a disposizione di
chiunque. Osservate il pesce che gioca spensierato nella
rete che
sta per richiudersi; la rana che, per la sua pigrizia, si
tiene lontana
dalla via di fuga che potrebbe darle la salvezza; l’uccello che non
si avvede del falco che si libra minaccioso su di lui; la
pecora sulla
quale, celato da un cespuglio, il lupo ha fissato i suoi
occhi attenti.
Tutti questi esseri, armati di poca prudenza, se ne vanno
in giro
senza alcuna malizia in mezzo ai pericoli che a ogni
istante ne
minacciano l’esistenza.
Ebbene, se
la madre di tutte le cose si preoccupa così poco di esporre i propri
figli, senza alcuna protezione, alla minaccia di migliaia
di pericoli,
questo può significare soltanto che essa sa che
quando muoiono
fanno ritorno al suo grembo, nel quale sono al sicuro, e
che perciò la
loro morte non è
che uno scherzo. Con l’uomo essa non si comporta
diversamente che con gli animali. Il suo dire si estende
dunque
anche ad esso: la morte o la vita dell’individuo
le sono indifferenti.
Conseguentemente esse dovrebbero, in un certo senso,
esserlo anche
per noi, giacchè
noi stessi siamo appunto natura. Se solo fossimo in
grado di guardare abbastanza a fondo, ci troveremmo
certamente
d’accordo con la natura e
considereremmo la morte o la vita con la
stessa indifferenza con la quale le considera lei.
………
Consideriamo ora, oltre a ciò,
che non solo, come già abbiamo
avuto modo di osservare, vita e morte dipendono dai casi più insignificanti,
ma che l’esistenza stessa degli
esseri organici è in generale
effimera, che animali e piante oggi nascono e domani
muoiono
e che nascita e morte si susseguono in rapida successione,
mentre alle realtà inorganiche, che occupano un gradino
assai più basso,
e assicurata una durata incomparabilmente più lunga; una durata
infinita, a ogni modo, tocca soltanto alla materia
assolutamente
priva di forma, alla quale noi infatti la attribuiamo a priori
…….
tutto l’essere e il non-essere
di questi esseri individuali, in relazione ai quali morte e
vita sono
contrapposte, possono essere solo un che di relativo: il
linguaggio
della natura, nel quale ci è
dato come qualcosa di assoluto, non
può dunque essere l’espressione
vera e ultima della conformazione
delle cose e dell’ordine del mondo,
ma può essere in verità
solo un
patois du pays, vale a dire un vero meramente relativo, un che di
presunto, qualcosa da prendere cum grano salis; o, per dirla nel
modo più appropriato, qualcosa di condizionato
dal nostro intelletto.
…………………
A ogni modo, anche una riflessione compiuta, come quella
che venne perseguita dalla mente superiore di Kant , conduce per un diverso
sentiero proprio al medesimo risultato, dato
che insegna che il nostro intelletto, nel quale si
rappresenta quel
mondo fenomenico così
rapidamente mutevole, non coglie la vera
essenza ultima delle cose, ma la sua mera manifestazione
fenomenica;
e questo in effetti, aggiungo io, perchè l’intelletto e originariamente
destinato a presentare i motivi alla nostra volontà, vale a
dire a servire quest’ultima nel
perseguimento dei suoi miseri scopi.
***
Se uccido un animale (sia esso un cane, un uccello, una
rana, o anche solamente un insetto) e sicuramente impensabile che questo
essere, o piuttosto la forza originaria
in virtù della quale un fenomeno cosi
meraviglioso solo un
istante prima si presentava in tutta la sua energia e in
tutta la sua
gioia di vivere, abbia potuto essere annientato dal mio
gesto malvagio
o sbadato. E d’altra parte,
aggiungiamo, i milioni di animali
di ogni specie che a ogni istante, pieni di forza e di
operosità, giungono
all’esistenza nella loro infinita
varietà, non possono in alcun
modo essere stati assolutamente niente prima dell’atto con il quale
si sono generati, ne possono in alcun modo essere giunti
dal nulla
a un inizio assoluto.
Ora, se vedo uno di
questi esseri sottrarsi in
questo modo alla mia vista senza riuscire a sapere dove
vada; e se
ne vedo un altro apparire senza riuscire a sapere da dove
provenga;
se, per di più,
essi hanno entrambi la stessa forma, la stessa essenza,
le stesse caratteristiche, e sono diversi solo per la
materia, della
quale peraltro si sbarazzano e che rinnovano continuamente
anche
durante la loro esistenza; allora si fa tangibilmente
strada l’ipotesi
secondo la quale ciò
che scompare e ciò che compare al suo posto
sono un solo e medesimo essere, il quale ha subito solo una
piccola
trasformazione, un rinnovamento della forma della sua
esistenza,
e che di conseguenza la morte e per la specie quello che il
sonno e
per l’individuo;
questa ipotesi, io
sostengo, è cosi a portata di
mano che è impossibile che non incappiamo in
essa, a meno che la
testa, guastata nella più
giovane età dai falsi principi che sono stati
impressi in essa, non se ne tenga bene alla larga con un
timore superstizioso.
Ma l’ipotesi opposta, secondo la
quale la nascita di un
animale sarebbe uno scaturire dal nulla e, in modo
corrispondente,
la sua morte sarebbe il suo annientamento assoluto, con l’aggiunta
poi che l’uomo, pur essendosi anch’egli generato dal nulla, godrebbe
tuttavia di una sopravvivenza individuale infinita, e per
di più
accompagnata da coscienza, mentre il cane, la scimmia e l’elefante
verrebbero annientati dalla morte, e davvero qualcosa
contro cui il
buon senso dovrebbe rivoltarsi e che dovrebbe dichiarare
assurda.
Se, come ho ripetuto a sufficienza, il confronto dei
risultati di un
sistema con gli enunciati di un intelletto umano sano deve
essere la
pietra di paragone della sua verità, allora mi auguro che i seguaci di
quella concezione fondamentale che si è tramandata da Cartesio sino
agli eclettici prekantiani e che ancora oggi predomina
presso la
gran parte degli uomini di cultura europei vogliano una
buona volta
utilizzare qui questa pietra di paragone.
***
Sempre e dovunque il
simbolo autentico della natura è il circolo,
poichè esso e lo schema del ritorno: quella
del ritorno è difatti
in natura la forma più
universale, e la natura la realizza in tutte
le cose, dal cammino degli astri sino alla morte e alla
nascita degli
esseri organici: è
soltanto grazie ad essa che, nell’incessante fluire
del tempo e del suo contenuto, diventa possibile pure un’esistenza
stabile, vale a dire una natura. Se in autunno osserviamo
il piccolo mondo degli insetti e vediamo
come l’uno si prepara il letto nel
quale dormirà durante il lungo
e rigido periodo del letargo; come l’altro
si rinchiude nel bozzolo
per svernare in esso sotto forma di crisalide e risvegliarsi,
a primavera,
ringiovanito e compiutamente formato; come infine i più, che
intendono trovare riposo tra le braccia della morte, altro
non fanno
che allestire con cura il giaciglio adatto al loro uovo,
per uscire un
giorno da esso rinnovati; se osserviamo tutto questo, – capiamo che
e questa la grande dottrina dell’immortalità della natura, la quale ci
potrebbe insegnare che tra il sonno e la morte non vi è alcuna differenza
radicale, ma che invece l’una è tanto poco una minaccia per
l’esistenza quanto lo è l’altro. La cura con la quale l’insetto prepara
una cella, una fossa, un nido e vi depone il suo uovo insieme al cibo
per la larva che dovrà
uscirne la primavera successiva, e poi tranquillamente
muore, è del tutto simile alla cura con la
quale un uomo
la sera prepara il proprio abito e la propria colazione per
il mattino
seguente, e poi tranquillamente se ne va a dormire, e
potrebbe in
fondo non aver luogo affatto se l’insetto
che in autunno muore non
fosse in sè stesso e secondo la sua vera essenza
proprio così identico
a quello che in primavera esce dall’uovo
come l’uomo che si addormenta
la sera lo e con quello che si rialza l’indomani.
Se ora, dopo queste considerazioni, torniamo a noi e alla
nostra
specie; e se poi gettiamo uno sguardo in avanti, ben
lontano
nell’avvenire e cerchiamo di
figurarci le generazioni future con i
milioni di individui che ne fanno parte, nella forma
sconosciuta
dei loro usi e dei loro costumi. Se poi pero ci
interrompiamo ponendoci
questa domanda: da dove verranno tutti costoro? Dove
si trovano in questo momento? Dov’è il grembo opulento del nulla
gravido di mondi che cela ancora dentro di sè le generazioni a
venire? Ebbene, non sarebbe questa la risposta vera che
daremmo
sorridendo: dove altro dovrebbero essere, se non là dove soltanto
il reale è sempre stato e sempre sarà, nel presente e in ciò
che esso contiene, e dunque in te, che poni domande alla cieca? In te che,
misconoscendo la tua vera essenza, sei come una foglia
appesa a
un albero che in autunno, quando appassisce e sta per
cadere, si
duole della propria fine e non si vuole lasciar consolare
dalla previsione
del verde fresco che in primavera ricoprirà l’albero, e invece
si lamenta dicendo: ≪Io pero non
sono questo! Quelle sono
foglie del tutto diverse!≫? Oh,
sciocca foglia! Dove credi di andare?
E da dove dovrebbero venire tutte le altre foglie? Dov’è il
Nulla, del quale tu temi il baratro? Riconosci dunque l’essenza che
ti è propria, ossia proprio ciò che è cosi pieno della sete di esistere;
riconoscila ancora una volta nella forza profonda e
misteriosa
che fa crescere l’albero, la quale,
essendo sempre una sola è la
medesima in tutte le generazioni di foglie, non viene
toccata dal
sorgere e trapassare.
…….
A dispetto di ciò,
tuttavia, anzi, come se le cose non andassero affatto
in questo modo, c’e sempre tutto e
tutto è al proprio posto,
proprio come se tutto fosse immortale. La pianta continua
sempre
a mettere le foglie e a fiorire, l’insetto
a ronzare, l’animale e l’uomo
continuano a mantenersi nella loro solidissima giovinezza,
e a
ogni estate ci troviamo di nuovo di fronte le ciliegie che
abbiamo
già gustato mille volte. Anche i popoli
esistono come individui immortali,
sebbene talvolta cambino nome; persino il loro agire, ciò
di cui si occupano e ciò
di cui soffrono, è in ogni tempo lo stesso,
sebbene la storia abbia la pretesa di narrare ogni volta qualcosa
di
diverso: essa è
infatti come il caleidoscopio, che a ogni giro mostra
una nuova configurazione, mentre quel che abbiamo dinanzi
agli occhi e sempre la stessa cosa. Non c’è dunque nulla che ci si
imponga in modo più
irresistibile del pensiero che quel sorgere e
trapassare non riguardano l’essenza
autentica delle cose: quest’ultima
non viene toccata da esse ed è
dunque imperitura, si che tutte
le cose e ogni singola cosa che vogliono esistere esistono
effettivamente in modo continuativo e senza fine.
Conseguentemente,
in ogni determinato momento tutte le specie animali, dal
moscerino all’elefante, coesistono
al completo. Si sono già rinnovate
molte migliaia di volte, e tuttavia sono rimaste le stesse.
Non
sanno nulla di altri loro simili che sono vissuti prima di
loro o che
vivranno dopo: e la specie quella che vive sempre, ed è nella coscienza
dell’immortalità di quest’ultima e della propria identità
con essa che gli individui esistono e godono. La volontà di vivere
si manifesta a sè
stessa in un presente senza fine, poiché
è questa la
forma della vita della specie, la quale perciò non invecchia e rimane
invece sempre giovane. La morte è per la specie quel che il sogno
è per l’individuo, o quel che è per l’occhio il batter di ciglia,
dalla
cui assenza si riconoscono gli dei indiani quando si
manifestano in
sembianze umane. Cosi come al calar della notte il mondo
svanisce,
ma non per questo cessa di esistere anche solo per un
istante,
allo stesso modo l’uomo e l’animale, quando muoiono, scompaiono
solo in apparenza, mentre la loro vera essenza continua a
esistere
indisturbata. Immaginiamoci ora quell’alternarsi
di morte e nascita
come se fosse un succedersi di vibrazioni infinitamente
rapide
e avremo dinanzi a noi, ferme come l’arcobaleno
sopra la cascata,
l’oggettivazione immobile della
volontà, le idee permanenti degli
esseri. E’
questa l’immortalità nel tempo. Grazie ad essa, a dispetto
di millenni di morte e di putrefazione, nulla è andato perduto,
nemmeno un atomo di materia, ne, a maggior ragione, alcunchè di quell’essenza profonda che
manifesta sè stessa
come Natura. Di
conseguenza noi possiamo in ogni momento lietamente
esclamare:
≪A
dispetto del tempo, della morte e della putrefazione, noi siamo
ancora tutti insieme!≫
……..
Vale la pena comunque richiamare l’attenzione
sul fatto che le
doglie del parto e l’amarezza della
morte sono le due condizioni
costanti sotto le quali la volontà di vivere conserva sè
stessa nella
sua oggettivazione, vale a dire che il nostro essere in sè, che non
viene intaccato dallo scorrere del tempo e dal trapasso
delle generazioni,
esiste in un perpetuo presente e gode il frutto dell’affermazione
della volontà
di vivere. Il che è analogo al fatto che noi
siamo in grado di rimanere svegli di giorno solo a
condizione di
dormire ogni notte; quest’ultima
circostanza è anzi il commentario
che la natura ci offre per comprendere quel difficile
passo: la
sospensione delle funzioni animali, infatti, è il sonno, quella delle
funzioni organiche è
la morte.
………………
Il sostrato, o ciò
che riempie, il pl»rwma, o la materia di
cui e
costituito il p r e s e n t e , è propriamente lo stesso in ogni tempo.
L’impossibilità di riconoscere immediatamente questa identità è
appunto i l t emp o , una forma e un limite del nostro
intelletto.
Il fatto che, a causa di esso, per esempio il futuro non ci
sia ancora
dipende da un’illusione della quale
ci rendiamo conto una volta
che esso sia sopraggiunto. Che la forma essenziale del
nostro intelletto
produca un’illusione di tal fatta
si spiega e si giustifica con
il fatto che l’intelletto non è stato in alcun modo prodotto dalle
mani della natura per comprendere l’essenza
delle cose, ma piuttosto
solamente per comprendere i motivi, ed è dunque destinato
a servire un fenomeno individuale
e temporale della volontà.
Si da u n s o l o p r e s e n t
e , ed esso è sempre,
giacchè e l’unica
forma dell’esistenza reale.
Si deve arrivare a comprendere
che il p a s s a t o
è diverso dal presente non in sé , ma solo in
quella nostra apprensione che
ha come forma il
tempo: solamente in forza di
essa il presente
si mostra come qualcosa di
diverso dal passato.
Per comprendere meglio la
questione, pensiamo
a tutti quegli episodi ed
eventi della vita umana,
cattivi e buoni, fortunati e
sfortunati, gradevoli e
terribili, che ci si presentano
nella più variegata
diversità l’uno
dopo l’altro nel corso del tempo e
nella varietà dei luoghi; pensiamoli, quegli
eventi,
come presenti tutti insieme, simultaneamente ed eternamente nel Nunc stans (ora
permanente), e che solo in apparenza vi sia
ora questo, ora quello: allora
comprenderemo
che cosa significhi autenticamente
l’oggettivazione
della volontà di vivere.
Anche il piacere
che proviamo dinanzi ai quadri
di genere dipende
principalmente dal fatto che
essi fissano i fuggevoli
episodi della vita.
Dal sentore della verità
che abbiamo espressa e derivato
il dogma delle
metempsicosi.
Se riassumiamo le considerazioni
che ci hanno qui impegnati
comprenderemo anche il vero significato
della paradossale dottrina
degli Eleati, secondo la quale
non si dà alcun nascere e alcun
morire, ma il tutto permane immobile: Parmenides et Melissus
ortum et interitum tollebant,
quoniam nihil moveri putabant. Stobeo,
(Eclogae ethicae, I, 21 ≪Parmenide e Melisso
eliminavano la generazione e la corruzione, perchè
ritenevano
il tutto immobile)
Allo
stesso modo ne risulta illuminato
anche il bel passo di Empedocle,
che ci è stato conservato da Plutarco nel
libro Adversus Coloten,
al capitolo 12:
“Questi ingenui!, non dimostrano certo un ingegno acuto con
i loro affanni, se si
aspettano che si crei ciò che prima non esiste, o che qualcosa possa perire del
tutto e distruggersi
totalmente. Un uomo saggio non può concepire nella sua mente un pensiero simile,
| che fino a quando gli uomini vivono quella che chiamano
appunto la loro esistenza,
| fino a quel momento credono di esistere, quando miserie e
conforti stanno accanto a
loro; | ma invece di non esistere affatto, prima d’essere costruiti e dopo di venire dissolti”
Non merita meno di essere menzionato qui quel passo cosi
notevole
e, quanto alla sua collocazione, sorprendente, che si trova
in Jacques
le fataliste di Diderot: ≪Un
chateau immense, au
frontespice duqel on lisait: “Je n’appartiens a personne, et j’appartiens
a tout le monde: vous y etiez avant que d’y
entrer, vous
y serez encore, quand vous en sortirez” (Un
immenso castello, sulla cui facciata si leggeva: “Non
appartengo a nessuno e
appartengo a tutti. Gia eravate qui prima di entrare, e ci
sarete ancora quando ne uscirete”)≫
………………..
Non c’e maggiore contrasto di
quello tra l’inarrestabile fuga del
tempo che trascina via con sè
tutto intero il suo contenuto e la rigida
immobilita di ciò
che effettivamente esiste e che in ogni tempo
è uno e il medesimo. E se, partendo da questo punto di vista,
si considerano in modo veramente oggettivo gli eventi
immediati
della vita, allora il Nunc
stans ci diverrà chiaro e visibile al centro
della ruota del tempo. A un occhio che vivesse
incomparabilmente
più a lungo, che abbracciasse con un solo
sguardo il genere
umano in tutta la sua durata, il continuo alternarsi di
nascita e
morte si presenterebbe come una mera vibrazione continua,
si che
non gli verrebbe nemmeno in mente di vedere in esso un
sempre
nuovo uscire dal niente e ritornare nel niente: così come al nostro
sguardo una scintilla fatta ruotare rapidamente si presenta
come
un cerchio continuo, una molla che vibra rapidamente come
un
triangolo immobile, una corda che vibra come un fuso, allo
stesso
modo la specie apparirebbe a quello sguardo come ciò che è e permane,
e la morte e la nascita come vibrazioni.
……..
Avremo sempre delle idee sbagliate a proposito del fatto
che il
nostro vero essere non viene distrutto dalla morte sino a
quando
non ci decideremo a studiare questa circostanza prima di
tutto
negli animali, invece di continuare a pretendere per noi
soli una
parte speciale di questa indistruttibilità, assegnandole l’appellativo
borioso di immortalità.
Ma è proprio questa pretesa, unita alla
limitatezza di vedute da cui scaturisce, la sola ragione
per la quale
la maggior parte delle persone rifiuta cosi ostinatamente
di riconoscere
quella verità
del tutto palese la quale dice che noi, primariamente
ed essenzialmente, siamo identici agli animali; anzi, al
benchè minimo accenno alla nostra parentela
con essi, si ritraggono
tremanti. Ma e proprio questo ripudio della verità che più
d’ogni altra cosa sbarra loro la
strada verso l’effettiva conoscenza
dell’indistruttibilità del nostro essere: cercando qualcosa sulla via
sbagliata, infatti, abbandoniamo per ciò stesso quella giusta, e alla fine non potremo che restare
tardivamente delusi. Coraggio, dunque:
perseguiamo la verità
non secondo fantasie preconcette, ma
attenendoci alla natura! Impariamo anzitutto, quando
guardiamo
i piccoli di qualsiasi animale, a riconoscere l’esistenza della specie,
che non invecchia mai e che, come un riflesso della sua
eterna
giovinezza, dona un’esistenza
temporale a ogni nuovo individuo,
conferendogli un aspetto così
nuovo, così fresco come se il mondo
esistesse solo da oggi. Chiediamoci onestamente se la
rondine
della primavera di oggi sia in tutto e per tutto un’altra rispetto a
quella della prima primavera, e se davvero tra l’una e l’altra si
sia reiterato milioni di volte il miracolo della creazione
dal nulla,
solo perchè essa potesse essere spinta
altrettante volte nelle mani
dell’annientamento assoluto.
Ogni s p e c i e di esseri viventi non viene in
alcun modo coinvolta dal cambiamento continuo degli
individui
che la costituiscono. L’ i d e a ,
però, o la specie, è
ciò in cui propriamente
si radica e si manifesta la volonta di vivere; è anche per
questo che la volontà
è interessata solamente alla continuazione
della specie. Per esempio, i singoli leoni che nascono e muoiono
sono come le goccioline della cascata, mentre la leonitas, l’ i d e a ,
o la forma, del leone e come l’arcobaleno
che sta immobile su di
loro. E’ per questo che P l a t o n e ha
attribuito solamente alle
i d e e , vale a dire alle species, ai generi, un essere autentico, e agli
individui solo un incessante nascere e perire. Dalla
coscienza più
profonda della propria natura imperitura derivano
propriamente
anche la sicurezza e la serenità con le quali ogni animale e lo stesso
individuo umano se ne vanno a spasso spensieratamente in
mezzo
a una infinità
di eventi causali che a ogni istante li possono annientare,
e per giunta muovendo diritti verso la morte, mentre dai
loro occhi traspare la tranquillità della specie, alla quale quella distruzione
non arreca danno e che non se ne cura. Una tranquillità
che non potrebbe essere conferita nemmeno all’uomo dai dogmi,
insicuri e mutevoli come sono. Tuttavia, come si è detto, la vista
di qualsiasi animale ci insegna che la morte non è d’ostacolo al manifestarsi
del nocciolo della vita, al manifestarsi della volontà. Che
mistero imperscrutabile c’è in effetti in ogni animale!
Kant , con il suo procedimento soggettivo, mise in luce
la grande,
anche se negativa, verità secondo la quale il tempo non può essere
una prerogativa che competa alla cosa in sè, poichè
esso è già
presente come forma nella nostra capacità di comprendere. Ora,
la morte è
la fine temporale del fenomeno temporale; solo che,
non appena togliamo di mezzo il tempo, non si dà più alcuna
fine
e questa parola ha perduto ogni significato. Per parte mia, intendo
ora sforzarmi di dimostrare, mantenendomi sulla via
oggettiva
che sto seguendo in questa sede, l’aspetto
positivo della questione,
vale a dire che la cosa in sè
non viene toccata dal tempo nè da
ciò – il nascere
e il perire – che solo il tempo rende possibile, e che
i fenomeni sottoposti al tempo non potrebbero nemmeno avere
quell’esistenza incessantemente
fuggevole che si trova sempre nelle
vicinanze del Niente
se non fosse presente in essi un nocciolo di
eternità. Certo, l’ e
t e r n i t à è un concetto a fondamento del quale
non vi è alcuna intuizione; è ha anche, per questo, un contenuto
puramente negativo, vale a dire che significa un’esistenza senza
tempo. Tuttavia il tempo è
una mera immagine dell’eternità era immagine
del nostro essere in sè.
Quest’ultimo deve trovarsi nell’eternità,
proprio perchè
il tempo e solo la forma del nostro conoscere; ma
e solamente in virtù
di essa che noi conosciamo la nostra essenza
e quella di tutte le cose come un che di transitorio,
finito e destinato
all’annientamento.
……………………
Per la
conoscenza individuale, viceversa, vale a dire nel tempo, l’ i d e a
si presenta sotto la forma della s p e c i e , la quale non
è che l’idea
che, immettendosi nel tempo, si è dispiegata. Per questo la specie è dunque l’oggettivazione più immediata della cosa in sè,
vale
a dire della volontà
di vivere. L’essenza più
profonda di ogni animale,
e anche dell’uomo, sta
conseguentemente nella s p e c i e ; ed
è ancora in essa e non, propriamente, nell’individuo,
che si radica
quella volontà
di vivere che si agita così vigorosamente. Viceversa
la coscienza immediata si trova solamente nell’individuo: ecco
perchè s’immagina di
essere diverso dalla specie e, di conseguenza,
teme la morte.
La volontà di vivere si manifesta rispetto all’individuo
come fame e paura della morte, rispetto alla specie come
impulso sessuale e come cura appassionata della prole. In
conformità
a ciò vediamo che la natura, in quanto e
libera dall’illusione
cui è assoggettato l’individuo,
è tanto attenta alla conservazione
della specie quanto indifferente alla morte degli
individui: questi
sono per lei sempre e solo i mezzi, quella lo scopo.
…………………….
Se adesso diamo ancora uno sguardo alla scala degli esseri,
dai
polipi all’uomo, e ai gradi di
coscienza che li accompagnano, allora
vediamo che questa meravigliosa piramide viene si tenuta in
una
condizione di incessante oscillazione dalla continua morte
degli
individui, è tuttavia, per mezzo del legame della
generazione, permane
nella specie attraversando l’infinita
del tempo. Ora, mentre,
come si e spiegato sopra, l’ o g g
e t t i v o , la specie, si manifesta
come indistruttibile, il s o g g e t t i v o , che sussiste
solo nell’autocoscienza
di questi esseri, sembra avere una durata brevissima e
venire incessantemente distrutto precisamente per
riemergere altrettante
volte, in modo incomprensibile, dal niente. Bisogna però
avere davvero la vista molto corta per lasciarsi ingannare
da questa
apparenza e non comprendere che, sebbene la forma della
durata
temporale competa solo all’oggettivo,
il soggettivo –
vale a dire
la v o l o n t à
, la quale vive e si manifesta nel tutto, e con essa il
soggetto del c o n o s c e r e , nel quale essa si mostra – dev’essere
non meno indistruttibile di quello; infatti la durata dell’oggettivo,
ossia dell’esteriore, può essere solo la manifestazione fenomenica
dell’indistruttibilità del soggettivo, dell’interiore,
dal momento
che l’oggettivo non può possedere nulla che non abbia ricevuto in
prestito dal soggettivo; non ci può essere pero essenzialmente e
originariamente un che di oggettivo, un fenomeno, e poi
secondariamente
e accidentalmente un che di soggettivo, una cosa in sè,
un’autocoscienza.
………………..
In fondo pero noi siamo
una cosa sola con il mondo assai più di quanto comunemente
pensiamo: la sua essenza profonda è la nostra volontà;
la sua manifestazione
fenomenica è la nostra rappresentazione. Se
fossimo
in grado di avere una chiara coscienza di questa unità vedremmo
scomparire la differenza tra il persistere del mondo
esterno dopo
che siamo scomparsi e il nostro persistere dopo la morte: l’uno e
l’altro ci si presenterebbero come
una sola e medesima cosa, anzi,
non potremmo che ridere dell’illusione
che potessero essere separati.
La comprensione dell’indistruttibilità del nostro essere coincide
infatti con quella dell’identità tra macrocosmo e microcosmo
………………………
sorge allora in noi il sentimento che il mondo non è meno in noi di quanto noi siamo in esso, e che la fonte di
ogni
realtà si trova nel profondo di noi stessi. Il risultato è propriamente
questo: il tempo nel quale io non sarò giungerà oggettivamente;
soggettivamente, invece, non potrà mai arrivare.
***
Una persona ragionevole,
infatti, può pensarsi imperituro solo in quanto si
pensi come privo
d’inizio, eterno, in senso proprio
come sottratto al tempo. Chi
viceversa ritenga di essere scaturito dal nulla deve anche
pensare
che farà ritorno nel nulla, giacchè che sia trascorsa un’eternità prima
che egli cominciasse a essere e che poi però ne debba iniziare
una seconda nel corso della quale egli non cesserà mai di essere è
un’idea mostruosa.
………………….
Chi però
ritiene che la nascita sia l’inizio
assoluto dell’uomo deve anche considerare
la morte come la fine assoluta. L’una
e l’altra infatti sono
ciò che sono nello stesso senso:
ciascuno, conseguentemente, può ritenersi immortale solo in quanto si
ritiene anche ingenerato, è nello stesso senso. Quel che è
la nascita nella sua essenza
e nel suo significato, lo è
anche la morte: esse sono la stessa linea
tracciata in due direzioni diverse. Se la nascita è effettivamente
uno scaturire dal nulla, allora anche la morte sarà effettivamente
un annientamento. In verità,
tuttavia, è solo grazie all’eternità della nostra essenza autentica che riusciamo a pensare
alla
nostra immortalità;
quest’ultima, perciò,
non è nulla di temporale.
L’ipotesi che l’uomo
sia creato dal nulla conduce di necessità
a
quella che la morte sia la sua fine assoluta. L’Antico Testamento e
qui dunque perfettamente consequenziale, giacchè non c’e dottrina
dell’immortalità che sia compatibile con l’idea di
una nascita
dal nulla.
………………….
Bramanesimo e buddismo,
viceversa, insieme alla sopravvivenza dopo la morte
ammettono
in modo del tutto coerente anche un’esistenza
precedente la nascita,
per espiare le colpe della quale esiste questa vita.
……………………
Chi concepisce la propria esistenza come un che di
meramente
accidentale dovrà
certamente temere di perderla con la morte.
Chi viceversa si rende conto, anche solo in generale, che
tale esistenza
dipende da una sorta di necessità originaria non crederà
che quest’ultima, che ha prodotto
qualcosa di così meraviglioso,
sia limitata a un così
breve lasso di tempo, e riterrà invece che essa
agisca in ogni tempo. Riconosceremo pero la nostra
esistenza come
qualcosa di necessario se rifletteremo sul fatto che,
nonostante sino
a questo momento, in cui esistiamo, sia già trascorso un tempo
infinito e si sia perciò
verificata anche un’infinità di mutamenti,
noi ciononostante senza dubbio esistiamo: l’intera successione di
tutti gli stati possibili si è
dunque già esaurita, senza che ciò
abbia
potuto sopprimere la nostra esistenza. S e potessimo mai
diventare niente, allora saremmo già
niente.
L’infinità del tempo già
trascorso, con l’esaurimento della possibilità
dei suoi eventi, garantisce che ciò che esiste, esiste necessariamente. Ciascuno deve perciò concepire sè
stesso
come un essere necessario, vale a dire come un essere dalla
cui vera
ed esaustiva definizione, se la possedessimo, potremmo
ricavare
l’esistenza. In questo ragionamento
risiede in effetti la sola prova
immanente – vale a dire la sola
prova che si mantenga nell’ambito
dei dati empirici – dell’eternità del nostro essere autentico.
………..
Dal fatto che adesso esistiamo segue,
ove si rifletta con attenzione, che dobbiamo esistere
sempre.
Siamo infatti proprio noi l’essere
che il tempo ha accolto in
se per colmare il suo vuoto: esso riempie appunto perciò t u t t o
il tempo, riempie presente, passato e futuro allo stesso
modo, ed
è perciò tanto impossibile che fuoriusciamo
dall’esistenza quanto
lo sarebbe cadere al di fuori dello spazio.
Se consideriamo attentamente
la questione, è
impensabile che ciò che esiste una volta
con tutta la forza della realtà effettiva possa mai diventare niente
e poi non esistere più
per un tempo infinito. Sono sorte da qui
la dottrina cristiana della resurrezione di tutte le cose,
la dottrina
indù della perpetua creazione del mondo da
parte di Brahma, come
anche gli analoghi dogmi dei filosofi greci.
Il grande mistero
del nostro essere e non-essere, per svelare il quale sono
stati escogitati
questi dogmi e tutti quelli affini, dipende in ultima
analisi
dal fatto che il medesimo, che oggettivamente costituisce
una serie
temporale infinita, soggettivamente è un punto, un’attualità
indivisibile sempre presente: ma chi se ne rende conto? A
esporlo
nel modo più chiaro e stato Ka n t , con la sua
immortale dottrina
del carattere ideale del tempo e della realtà esclusiva della cosa
in sè. Da essa risulta infatti che l’essenza autentica delle cose,
dell’uomo, del mondo si trova
permanentemente e durevolmente
nel Nunc
stans, stabile e immobile; e che il
mutamento dei fenomeni
e degli eventi è
una mera conseguenza del nostro modo di
cogliere quell’essenza per mezzo
del tempo, che è una forma della
nostra intuizione.
Per questo, invece
di dire agli uomini: ≪Siete
comparsi con la nascita, ma siete immortali≫, si dovrebbe dire loro:
≪Voi
non siete niente≫, e insegnar loro a comprendere questa
affermazione nel senso della massima, attribuita a Ermete
Trismegisto,
che dice: tò
g£r Ôn ¢eˆ œstai (Cio
che è, infatti, sarà
sempre). Se però, così facendo, non ci si riesce,
e il cuore angustiato intona il suo antico lamento: ≪Io vedo tutti gli
esseri scaturire alla nascita dal niente e ritornare nel niente dopo
un breve lasso di tempo; anche la mia esistenza, che ora è nel presente, sarà
presto in un passato remoto e io sarò
diventato niente!≫
allora la risposta giusta e: ≪Non
esisti? Non hai in te stesso, ora
e realmente in te stesso, quel prezioso presente al quale
tutti voi,
figli del tempo, aspirate cosi avidamente? E comprendi come
ci sei
arrivato? E conosci le vie che ti hanno condotto ad esso,
tanto da
riuscire a vedere che esse ti verranno sbarrate dalla
morte? Un’esistenza
del tuo io dopo la distruzione del tuo corpo è una possibilità
che trovi inconcepibile: ma è
forse più inconcepibile della tua esistenza
presente e del modo in cui sei giunto ad essa? Perchè dovresti
dubitare che le vie misteriose che si sono aperte
consentendoti
di giungere a questo presente non rimarranno aperte per te
anche
in ogni futuro presente?≫
Sebbene dunque considerazioni di questo genere siano
certamente
adatte a risvegliare la persuasione che in noi c’è qualcosa
che la morte non può
distruggere, ciò può tuttavia accadere solo a
condizione che ci si sappia elevare a un punto di vista per
il quale
la nascita non sia l’inizio della
nostra esistenza. Di qui segue però
che vi è sì
qualcosa che non può essere distrutto dalla morte, ma
che esso non è
propriamente l’individuo, il quale per giunta è nato
attraverso la procreazione e, portando in sè le caratteristiche
del padre e della madre, si presenta come un mero
differenziarsi
della specie e, in quanto tale, può avere un’esistenza solo finita.
Come, conformemente a ciò,
l’individuo non ha alcun ricordo della
propria esistenza antecedente la nascita, cosi, dopo la
morte,
non potrà averne nessuno della propria
esistenza presente. E’ pero
nella c o s c i e n z a che ciascuno colloca il proprio io:
esso gli appare
perciò legato all’individualità, con la quale soccombe anche
tutto ciò che lo caratterizza come tale e che
lo distingue dagli altri.
La sua sopravvivenza priva dell’individualità diventa indistinguibile
dal continuare a sussistere degli altri esseri, ed egli
vede il proprio
io sprofondare. Ora, chi tuttavia collega la propria
esistenza
all’identità della c o s c i e n z a e pretende perciò che essa sopravviva
all’infinito dopo la morte,
dovrebbe riflettere intorno alla circostanza
che in ogni caso essa potrebbe essere ottenuta solo al
prezzo di un passato altrettanto infinito prima della
nascita.
………………….
In effetti, però,
è nella
parola ≪io≫
che si cela l’equivoco più
grande, come riconoscerà
senz’altro chi abbia presente il
contenuto del nostro secondo libro
e la separazione proposta in quella sede tra la parte
volente e la
parte conoscente del nostro essere. A seconda di come
intendo
questa parola, posso dire: ≪La
morte è la mia fine completa≫, oppure
anche: ≪Io sono una parte
infinitamente piccola del mondo;
questa manifestazione fenomenica che costituisce la mia
individualità
è una parte altrettanto piccola del mio vero essere≫. L’io
pero è il punto oscuro nella coscienza, cosi come il punto
preciso
in cui il nervo ottico s’inserisce
nella retina è
cieco, come il cervello
è di per sè del tutto privo di sensibilità, come il corpo del sole
è oscuro, e come l’occhio vede
tutto, tranne solo se stesso. La nostra
facoltà conoscitiva è diretta tutta verso l’ e s t e r n
o , coerentemente
al fatto che essa è il prodotto di una funzione cerebrale
sorta unicamente allo scopo dell’autoconservazione,
ossia per la
ricerca del nutrimento e per la cattura della preda. Ciascuno perciò
conosce se stesso solo come questo individuo determinato,
così
come si rappresenta nell’intuizione
esterna. Se invece potesse
avere coscienza di ciò
che egli è oltre e al di fuori di questo, lascerebbe
volentieri andare la propria individualità, riderebbe della
tenacia con la quale è
attaccato ad essa, e direbbe: ≪Che m’importa
della perdita di questa individualità, dato che io porto dentro
di me la possibilità
di innumerevoli individualità?≫ Comprenderebbe
che, sebbene non ci sia ad attenderlo una sopravvivenza
della
sua individualità,
nondimeno è proprio come se l’avesse
ugualmente,
poichè ha dentro di sè qualcosa che la compensa alla perfezione.
Anzi, se già la rigida immutabilità
e l’essenziale limitatezza di ogni
individualità
avessero, come tali,
una durata infinita, dovrebbero da ultimo produrre, in
ragione
della loro monotonia, una nausea tale che, pur di
liberarcene, saremmo disposti volentieri a diventare nulla. Pretendere l’immortalità
dell’individualita significa
propriamente voler perpetuare
all’infinito un errore. Questo
perchè
in fondo ogni individualità e
appunto solo un errore particolare, un passo falso,
qualcosa che
sarebbe meglio non ci fosse; anzi, qualcosa allontanarci
dalla quale
è il vero e proprio scopo della vita. Ciò trova conferma anche
nel fatto che la maggior parte, anzi, propriamente, tutti
gli uomini
sono fatti in modo tale che, in qualsiasi mondo li si
volesse trasferire,
non riuscirebbero comunque a essere felici. Questo perchè
nella misura in cui un mondo di tal fatta escludesse da sè il bisogno
e le disgrazie, essi diverrebbero preda della noia e, nella
misura
in cui fossero al riparo da quest’ultima,
cadrebbero nel bisogno,
nella pena e nella sofferenza. Per garantire all’uomo una condizione
di felicita non sarebbe dunque in alcun modo sufficiente
che lo si trasferisse in un ≪mondo
migliore≫, ma sarebbe necessario
che in lui si verificasse anche una trasformazione
radicale; vale
a dire che l’uomo non dovrebbe
essere più
ciò
che è
e dovrebbe
diventare invece ciò che non è. A questo scopo, tuttavia, egli dovrebbe
anzitutto smettere di essere ciò che è: questa esigenza viene
soddisfatta provvisoriamente dalla morte, della quale, da
questo
punto di vista, si può
già avvertire la necessità
morale. Essere trasferiti
in un altro mondo e trasformare tutto il proprio essere
sono,
in fondo, una sola e medesima cosa.
………………….
Ora pero, dopo che la morte ha posto
fine una buona volta alla coscienza individuale, ci sarebbe
anche
solo da augurarsi che essa venisse riaccesa per poter
continuare
all’infinito? Il suo contenuto è per la maggior parte, anzi, il più
delle volte per intero, null’altro
che un flusso di pensieri meschini, terreni, miseri e di infinite preoccupazioni:
lasciate una buona volta
che si acquietino!
Avevano perciò buon senso gli antichi, quando
incidevano sulle loro pietre tombali: ≪Securitati
perpetuae≫, o
≪bonae
quieti≫ (≪All’eterna
sicurezza≫, o ≪alla buona
quiete≫)
…………………
La risposta più
esauriente alla domanda relativa alla permanenza
dell’individuo dopo la morte si
trova nella grande dottrina kantiana della idealità del tempo, la quale proprio a questo
proposito si dimostra particolarmente feconda e ricca di
conseguenze,
in quanto sostituisce una prospettiva puramente teoretica,
ma
ben dimostrata, a dogmi che, per una via o per l’altra, conducono
all’assurdo, ed elimina con un
colpo solo la più inquietante fra
tutte le domande metafisiche. Incominciare, finire e
durare sono
concetti che prendono a prestito il loro significato solo
ed esclusivamente
dal tempo, e di conseguenza valgono solo ove si presupponga
quest’ultimo. Solo che il tempo non
ha un’esistenza assoluta,
non è la modalità dell’essere in sè delle | cose, ma semplicemente
la forma della nostra c o n o s c e n z a che abbiamo dell’esistenza
e dell’essenza di noi stessi e di
tutte le cose, conoscenza che proprio
per questo e molto imperfetta ed e confinata entro l’ambito
dei meri fenomeni.
E’ dunque solo in riferimento a questi ultimi
che trovano applicazione i concetti del cessare e del
durare, non in
riferimento a ciò
che in essi si rappresenta, all’essenza in sè delle
cose, applicati alla quale quei concetti non hanno perciò più alcun
vero senso.
Questo lo prova anche il fatto che è impossibile dare
una risposta alla domanda che proviene da quei concetti di
tempo,
e a ogni affermazione con la quale si cerchi, in un senso o
nell’altro,
i darne una possono essere mosse obiezioni convincenti.
………
L’essere
in sè non viene dunque infastidito dalla
fine temporale di un
fenomeno temporale e conserva sempre quell’esistenza
alla quale
i concetti di inizio, fine e durata non sono applicabili.
Tale essere
in sè, pero, per quel che siamo in grado di
seguirlo è, in ogni essere
che si manifesta fenomenicamente, la volontà stessa; e questo
vale anche per l’uomo. La coscienza
consiste invece nel conoscere;
ma il conoscere, come è
stato dimostrato a sufficienza, in quanto
attività del cervello e quindi in quanto
funzione dell’organismo,
riguarda il mero fenomeno e perciò finisce con esso: solamente la
volontà – della quale
il corpo è l’opera o, piuttosto, l’immagine –
non può essere distrutta.
…..…
Tutti i filosofi hanno commesso l’errore
di collocare nell’ i n t e l l e t
t o ciò che vi è nell’uomo di
metafisico,
ciò che non può essere distrutto, che è
eterno: esso si trova
esclusivamente nella v o l o n t à , la quale è
completamente diversa
dall’intelletto ed è la sola realtà
originaria. L’intelletto …
è un
fenomeno secondario e condizionato dal cervello, ragion per
cui incomincia
e finisce con esso. Solamente la volontà e il condizionante,
il nocciolo del fenomeno nella sua interezza, ed è, di conseguenza,
libera dalle forme di quest’ultimo,
alle quali appartiene il tempo, e
dunque non può
essere distrutta. Con la morte, di conseguenza, va
effettivamente perduta la coscienza, ma non ciò che ha prodotto e
mantenuto la coscienza: la vita si spegne, ma con essa non
si spegne
il principio della vita che in essa si manifesta.E’ dunque per questo
che ciascuno di noi sente con sicurezza che dentro di sè c’è
qualcosa
di assolutamente imperituro e indistruttibile.
……..
non si è mai riuscito a chiarire che cosa sia
questa realtà imperitura.
Non si tratta della coscienza, e tanto meno del corpo, dal
quale
la coscienza manifestamente dipende. Si tratta piuttosto di
ciò da
cui il corpo, insieme alla coscienza, dipende. Questo però è proprio
ciò che, quando fa il suo ingresso nella
coscienza, si presenta come
volontà . Al di là di questa, che è
la manifestazione fenomenica
più immediata della volontà, è fuori discussione che non possiamo
andare, giacchè
non possiamo andare al di là della coscienza: perciò
la domanda che chiede che cosa mai possa essere quel
qualcosa
quando non fa il suo ingresso nella coscienza, vale a dire
che
cosa questo qualcosa possa essere assolutamente è in sè stesso, e
una domanda che rimane senza risposta.
Nel fenomeno e attraverso le sue forme, tempo e spazio, che
costituiscono
il principium
individuationis,
le cose stanno così: l’individuo
umano trapassa, il genere umano, viceversa, permane e vive
stabilmente.
Solo che nell’essere in sè
delle cose, che è libero da
queste forme, viene a cadere completamente anche la
differenza
tra l’individuo e la specie, e l’uno e l’altra sono immediatamente
una sola cosa. La volontà
di vivere è presente tutta intera nell’individuo
come nella specie, e perciò
la continuazione della specie
e semplicemente l’immagine dell’indistruttibilità
dell’individuo
…
La generazuione. Questo processo infatti, che è tanto misterioso
quanto quello della morte …
Ora, pero, dal lato della
volontà, noi sappiamo, grazie all’autocoscienza, che il prodursi
di quest’organismo è l’opera di un atto che e l’esatto opposto di
ogni riflessione, l’opera di un
impulso impetuoso, cieco, l’opera di
un’esuberante sensazione
voluttuosa. Questa contrapposizione e
puntualmente affine all’interminabile
contrasto, che è stato dimostrato
sopra, tra l’assoluta facilità con la quale la natura produce
le sue opere, accompagnata dalla corrispondente sconfinata
noncuranza
con la quale abbandona queste ultime all’annientamento
da un lato, e dall’altro la
costruzione incalcolabilmente ingegnosa
e ben ponderata di queste stesse opere, a giudicare dalla
quale
esse dovrebbero essere state infinitamente difficili a
farsi, si che
la natura dovrebbe vigilare sulla loro conservazione con
ogni cura
possibile e immaginabile, mentre noi abbiamo sotto gli
occhi il
contrario.
Ora, dopo che, grazie a questa considerazione certamente
molto inusuale, abbiamo condotto l’una
di fronte all’altra,
nel modo più brusco, le due parti eterogenee del
mondo e le abbiamo,
per dir così, strette in u n s o l o pugno,
dobbiamo adesso
tenerle ben strette
per convincerci che le leggi del fenomeno,
o del mondo come rappresentazione, non hanno alcun valore
nel
mondo della volontà,
nel mondo della cosa in sè. Ci renderemo
allora meglio conto che, mentre dal lato della
rappresentazione,
vale a dire nel mondo fenomenico, ci si presenta ora un
originarsi dal nulla, ora un annientamento completo di ciò che si è prodotto,
dall’altro lato, ossia in sè, ci sta dinanzi un essere al quale non
ha proprio alcun senso l’applicazione
dei concetti di originarsi e
perire. Proprio adesso, infatti, ritornando al punto
radicale in cui,
mediante l’autocoscienza, il
fenomeno e l’essere in sè
coincidono,
abbiamo quasi toccato con mano che i due sono del tutto
incommensurabili,
e che l’intero modo di essere dell’uno, insieme a tutte
le leggi fondamentali di questo essere, nell’altro significa nulla
è meno di nulla. – Io credo che
quest’ultima considerazione sarà
compresa correttamente solo da pochi, e che riuscirà sgradevole e
persino indecente a tutti coloro i quali non la
comprendono; non
per questo, tuttavia, tralascerò qualcosa che possa servire a spiegare
i miei pensieri fondamentali.
….
La volontà, che costituisce il nostro essere in
sè, ha una natura semplice:
vuole solamente, e non conosce niente. Il soggetto del
conoscere
è invece un fenomeno secondario, prodotto dall’oggettivazione
della volontà:
e il punto di unificazione della sensibilità
del sistema
nervoso, il fuoco – potremmo dire – nel quale convergono i raggi
dell’attività di tutte le parti del cervello. Deve dunque perire insieme
a quest’ultimo. Nell’autocoscienza esso, in quanto è
l’unico
principio conoscente, si trova di fronte alla volontà come suo spettatore
e, sebbene sia sbocciato da essa, la riconosce tuttavia
come
qualcosa di diverso da sè,
come una realtà estranea, e dunque solo
empiricamente, nel tempo, frammentariamente, nel susseguirsi
dei suoi impulsi e dei suoi atti, e viene a conoscenza
delle sue decisioni
solo a
posteriori, e spesso in modo molto indiretto. Si
spiega così perchè il nostro proprio essere sia per noi,
vale a dire per
il nostro intelletto, un enigma, e perchè l’individuo veda sè stesso
come una creatura nuova e come perituro, sebbene il suo
essere in
se sia sottratto al tempo, e dunque eterno. Ora, come la volontà
non c o n o s c e , così,
per converso, l’intelletto, o il soggetto della
conoscenza, può
solo c o n o s c e r e , ma non può
in alcun modo
volere.
…………………..
L’intelletto, come il mondo
intuitivo che esiste solamente in esso,
è mero fenomeno; ma la finitezza dell’uno
e dell’altro non intacca
ciò di cui essi sono il fenomeno. L’intelletto e funzione del sistema
nervoso cerebrale; ma quest’ultimo,
come il resto del corpo, e
l’oggettiva della volontà. L’intelletto dipende perciò dalla vita
corporea dell’organismo; quest’ultimo dipende pero a sua volta dalla
volontà. Il corpo organico può dunque in un certo senso essere
considerato come l’intermediario
tra la volontà e l’intelletto, sebbene
esso sia propriamente solo la volontà stessa che si rappresenta
spazialmente nell’intuizione dell’intelletto. Morte e nascita sono
il continuo | rinnovamento della coscienza della volontà, la quale
in sè è
senza fine e senza principio e che è
la sola che costituisce,
per così dire, la sostanza dell’esistenza (un rinnovamento di questo
genere porta pero con sè
ogni volta una nuova possibilità di negazione
della volontà
di vivere). La coscienza è la vita del soggetto
del conoscere, o del cervello, e la morte la sua fine. Per
questo la coscienza è finita, sempre nuova, e incomincia
ogni volta daccapo.
La volontà solamente permane; d’altra
parte è solo ad essa che
il permanere sta a cuore, poichè essa è la volontà di vivere. Al soggetto
conoscente di per sè
non sta a cuore nulla. E’ tuttavia l’una
e
l’altro sono congiunti nell’io.
In ogni essere animale la volontà ha
acquisito un intelletto, il quale è la luce con cui essa persegue i propri
scopi.
……………….….
Se perciò la
realtà autentica non stesse nella volontà e se quella che si estende
al di là della morte non fosse l’esistenza morale , allora, dato
che l’intelletto, e il suo mondo
con esso, si spegne, l’essenza delle
cose in generale non sarebbe altro che una successione infinita
di sogni brevi e foschi, privi di connessione reciproca: la
permanenza
della natura priva di conoscenza, infatti, sussiste
solamente
nella rappresentazione temporale di quella conoscente. Il
tutto
verrebbe allora a coincidere con uno spirito del mondo che
per lo
più sogna sogni assai foschi e
opprimenti, senza fine e senza scopo.
Ora, quando un individuo sperimenta la paura della morte,
si
verifica propriamente uno strano, anzi, ridicolo spettacolo
in cui il signore dei mondi, che con il suo essere riempie il tutto, e grazie
al quale solamente tutto ciò che è ha la propria esistenza, si perde
d’animo e teme di perire, di
sprofondare nell’abisso del Nulla
eterno; laddove, in verità, il tutto è pieno di lui e non si dà alcun
luogo nel quale egli non sia, alcun essere nel quale egli
non viva,
dato che non è l’esistenza a sostenerlo, ma è invece lui a sostenere
l’esistenza. Eppure è lui che si perde d’animo nell’individuo tormentato
dall’angoscia della morte, e ciò perchè subisce l’inganno
prodotto dal principium individuationis, che gli fa credere che la
sua esistenza sia limitata a quella dell’essere
che ora sta morendo:
questo inganno fa parte del sogno straziante del quale è divenuto
preda in quanto volontà di vivere.
Ma a colui che sta morendo
si potrebbe dire: ≪Tu stai cessando
di essere qualcosa che avresti
fatto meglio a non diventare mai≫ Sino
a quando non si verifica alcuna negazione di quella volontà,
quel che di noi la morte lascia indietro è il germe e il nocciolo di
un’esistenza del tutto diversa,
nella quale si ritrova un nuovo individuo,
così fresco e originario che si mette
stupito a meditare su
sè stesso. Di qui la propensione a
entusiasmarsi e a sognare che è
tipica dei giovani nobili nel tempo in cui questa coscienza
fresca si
è sviluppata compiutamente. Quel che il sonno è per l’individuo, la
morte lo è per la volontà come cosa in sè.
Per quest’ultima sarebbe
insopportabile continuare all’infinito,
senza vero profitto, con le
stesse azioni e le stesse sofferenze, se le rimanesse il
ricordo e l’individualità.
Essa se ne sbarazza – è questo il Lete – e, rigenerata
dal sonno della morte e dotata di un altro intelletto, si
ripresenta
come un nuovo essere: ≪A nuove rive
invita un giorno nuovo (Zu neuen Ufern lockt ein neuer Tag - Goethe, Faust, I,) ≫.
In quanto volontà di vivere che afferma sè stessa, l’uomo ha la
radice della propria esistenza nella specie. Per questo la
morte è
dunque la perdita di un’individualità e l’acquisizione di un’altra,
e conseguentemente è una trasformazione dell’individualità sotto
la | guida esclusiva della propria volontà. Solamente
in essa, infatti,
si trova la forza eterna che è
stata in grado di produrre la sua
esistenza con il suo io, ma che, in considerazione della
natura di
quest’ultimo, non è in grado di mantenervelo. Giacche la morte e
il dementi
(smentita) che l’essenza
(essentia) di ciascuno riceve nel suo pretendere allesistenza (existentia), il prodursi di una contraddizione
che si trova in ogni esistenza individuale:
“Giacchè nulla
c’e che nasca e non meriti
di finire disfatto (Denn alles, was entsteht, | ist wert,
das nichts entstunde Goethe, Faust,) ≫.
Tuttavia questa stessa forza, ossia la volontà, ha a disposizione
un numero infinito proprio di queste esistenze, ciascuna
con
il proprio io, le quali pero diverranno a loro volta
altrettanto vane
e transitorie. Ora, dato che ciascun io ha la propria
coscienza
separata, quell’infinità di coscienze, in riferimento ad esso, non
è diversa da una sola di esse.
Da questo punto di
vista non mi
sembra casuale che aevum
, a„èn, significhi
insieme sia la durata
di una vita individuale sia un tempo infinito: di qui si può dunque
intuire, sia pure indistintamente, che in sè e in ultima analisi
si tratta della stessa cosa; ragion per cui, propriamente,
non c’è
alcuna differenza che io esista solo per la durata della
mia vita, o
che esista per un tempo infinito.
…………….
Non c’è dubbio però che non possiamo raggiungere una
rappresentazione
compiuta di tutto quel che s’è detto prescindendo del
tutto dai concetti di tempo; eppure quando ci si occupa
della cosa
in sè, essi dovrebbero essere esclusi. Solo
che uno dei limiti insuperabili
del nostro intelletto consiste nell’impossibilità di spogliarsi
del tutto di questa, che è
la prima e la più immediata forma di
tutte le sue rappresentazioni, per poter operare poi senza
di essa.
Perciò noi ci imbattiamo qui certamente in
una sorta di metempsicosi,
pur con la notevole differenza che essa non riguarda la yuc»
nella sua interezza, ossia l’essere
c o n o s c e n t e , bensì solamente
la v o l o n t à;
scompaiono in questo modo così tante assurdità che
accompagnano la dottrina della metempsicosi, e abbiamo
inoltre coscienza
del fatto che la forma del tempo interviene qui solo in
quanto
inevitabile adeguamento alla limitatezza del nostro
intelletto.
…………
La morte è il grande ammonimento che la volontà di vivere, e più
esattamente l’egoismo che ad essa è essenziale, ricevono dal corso
della natura, e la si può concepire come una punizione per la nostra
esistenza. Essa è lo scioglimento
doloroso del nodo che la generazione
aveva stretto con la voluttà e
la distruzione violenta, che irrompe dall’esterno,
dell’errore fondamentale
del nostro essere: la grande disillusione. Siamo, in fondo,
qualcosa che non dovrebbe esistere: per questo cessiamo di
essere.
L’egoismo consiste propriamente nel
fatto che l’uomo circoscrive
ogni realtà alla sua propria persona, in quanto s’immagina
di esistere
solamente in essa e non nelle altre. La morte gli
impartisce la lezione
migliore, in quanto sopprime questa sua persona, così che l’essenza
dell’uomo, che e la sua volontà, d’ora in avanti vive solo in
altri in dividui, mentre il suo intelletto, che apparteneva solo al fenomeno,
vale a dire al mondo come rappresentazione, ed era la mera
forma
del mondo esterno, continua a esistere ancora appunto nell’essere
rappresentativo, vale a dire nell’essere
o g g e t t i v o delle cose i n
q u a n t o t a l i
; quindi, parimenti, solo nell’esistenza di quello che
è oggi il mondo esterno. Tutto il suo io vive dunque d’ora in avanti
solo in ciò che egli ha sinora considerato come non-io, giacchè viene
a mancare la differenza tra esterno e interno.
………….…
Segue da quanto sopra che il grado secondo il quale la
morte può
essere considerata come l’annientamento
dell’uomo e proporzionale
all’entità di questa differenza. Se noi però prendiamo le mosse dal
fatto che la differenza tra fuori-di-me e in-me, in quanto è una differenza
spaziale, ha un fondamento solo nel fenomeno e non nella
cosa in sè, e che dunque non è in alcun modo reale, allora nella privazione
della nostra individualità personale vedremo solo la perdita
di un fenomeno, ossia una perdita soltanto apparente. Per
quanta
realtà quella differenza possa anche avere nella coscienza
empirica,
ciononostante, da un punto di vista metafisico, gli asserti
che
dicono ≪Io perisco, ma il mondo
perdura≫, e ≪Il mondo perisce,
ma io perduro≫ non sono, nella
sostanza, autenticamente diversi.
Oltre a tutto questo, però, la morte e la grande occasione di
non essere più io: beato colui che ne approfitta! Durante la vita
la volontà dell’uomo e priva di liberta:
sulla base del suo carattere
immutabile, il suo agire si sviluppa secondo necessità seguendo
la concatenazione dei motivi. Ora, però, ciascuno conserva nella
propria memoria davvero molte cose che ha fatto e delle
quali e
insoddisfatto. Supponiamo che egli continui a vivere per
sempre:
in questo caso, in forza dell’immodificabilità del carattere, si troverebbe
anche a continuare ad agire sempre nello stesso modo.
Egli, di conseguenza, deve cessare di essere ciò che è, per poter
rinascere rinnovato e diverso dal germe del suo essere. La
morte
scioglie perciò
quei legami, e la volontà torna a essere libera; e
infatti nell’esse, non nell’operari che si trova la libertà:
≪Findi tur nodus cordis, dissolvuntur omnes
dubitationes, ejusque opera
evanescunt (Si spezza il nodo del cuore, si sciolgono tutti
i dubbi, si dissolvono tutte le azioni Mundaka
Upaniṣad, 2, 2, 8, in Upaniṣad ≫è un detto assai famoso dei Veda, che tutti i Vedanti ripetono frequentemente.
Quello del morire è
l’istante in cui ci
si libera dall’unilateralità di un’individualità che non costituisce
il nucleo più
profondo del nostro essere, ma che deve piuttosto essere
considerata come una sorta di aberrazione di esso: la
libertà
vera, originaria, fà
nuovamente la sua comparsa in questo istante,
il quale, nel senso chiarito, può essere considerato come una restitutio
in integrum. Sembrano derivare da questo la pace e la tranquillità
che si riscontrano sul volto della maggior parte dei
defunti.
Tranquilla e serena è, di regola, la morte di ogni brava persona;
ma morire di buon grado, aver piacere di morire, morire con
gioia
è privilegio del rassegnato, di colui che rinuncia e dice no
alla
volontà di vivere. Solo costui, infatti, vuole morire d a v v e r
o , e
non in modo meramente a p p a r e n t e , e, di
conseguenza, non ha
bisogno e non chiede che la sua persona continui a vivere.
Rinuncia
di buon grado all’esistenza come la
conosciamo noi: quel che
gli tocca in sorte in luogo di essa ai nostri occhi è n u l l a , poichè
n u l l a è la nostra esistenza
rispetto all’altra condizione. La fede
buddista la chiama Ni r v a n a , vale a dire estinzione.