lunedì 23 agosto 2021

 

LA VISIONE DELLE DONNE DI LUDOVICO ARIOSTO NELL’ORLANDO FURIOSO

 


Canto IV

 

66
S’un medesimo ardor, s’un disir pare
inchina e sforza l’uno e l’altro sesso
a quel suave fin d’amor, che pare
all’ignorante vulgo un grave eccesso;
perché si de’ punir donna o biasmare,
che con uno o più d’uno abbia commesso
quel che l’uom fa con quante n’ha appetito,
e lodato ne va, non che impunito?

67
Son fatti in questa legge disuguale
veramente alle donne espressi torti;
e spero in Dio mostrar che gli è gran male
che tanto lungamente si comporti. –
Rinaldo ebbe il consenso universale,
che fur gli antiqui ingiusti e male accorti,
che consentiro a così iniqua legge,
e mal fa il re, che può, né la corregge.

Canto XX

1
Le donne antique hanno mirabil cose
fatto ne l’arme e ne le sacre muse;
e di lor opre belle e gloriose
Gran lume in tutto il mondo si diffuse.
Arpalice e Camilla son famose,
perché in battaglia erano esperte ed use;
Safo e Corinna, perché furon dotte,
splendono illustri, e mai non veggon notte.

2
Le donne son venute in eccellenza
Di ciascun’arte ove hanno posto cura;
e qualunque all’istorie abbia avvertenza,
ne sente ancor la fama non oscura.
Se ‘l mondo n’è gran tempo stato senza,
non però sempre il mal influsso dura;
e forse ascosi han lor debiti onori
l’invidia o il non saper degli scrittori.

Canto XVIII

1
Donne, e voi che le donne avete in pregio,
per Dio, non date a questa istoria orecchia,
a questa che l’ostier dire in dispregio
e in vostra infamia e biasmo s’apparecchia;
ben che né macchia vi può dar né fregio
lingua sì vile, e sia l’usanza vecchia
che ‘l volgare ignorante ognun riprenda,
e parli più di quel che meno intenda.

……

79
Ditemi un poco: è di voi forse alcuno
ch’abbia servato alla sua moglie fede?
che nieghi andar, quando gli sia oportuno,
all’altrui donna, e darle ancor mercede?
credete in tutto ‘l mondo trovarne uno?
chi ‘l dice, mente; e folle è ben chi ‘l crede.
Trovatene vo’ alcuna che vi chiami?
(non parlo de le publiche ed infami).

80
Conoscete alcun voi, che non lasciasse
la moglie sola, ancor che fosse bella,
per seguire altra donna, se sperasse
in breve e facilmente ottener quella?
Che farebbe egli, quando lo pregasse
o desse premio a lui donna o donzella?
Credo, per compiacere or queste or quelle,
che tutti lasciaremmovi la pelle.

81
Quelle che i lor mariti hanno lasciati,
le più volte cagione avuta n’hanno.
Del suo di casa, li veggon svogliati,
e che fuor, de l’altrui bramosi, vanno.
Dovriano amar, volendo essere amati,
e tor con la misura ch’a lor danno.
Io farei (se a me stesse il darla e torre)
tal legge, ch’uom non vi potrebbe opporre.

82
Saria la legge, ch’ogni donna colta
in adulterio, fosse messa a morte,
se provar non potesse ch’una volta
avesse adulterato il suo consorte:
se provar lo potesse, andrebbe asciolta,
né temeria il marito né la corte.
Cristo ha lasciato nei precetti suoi:
non far altrui quel che patir non vuoi.

83
La incontinenza è quanto mal si puote
imputar lor, non già a tutto lo stuolo.
Ma in questo chi ha di noi più brutte note?
che continente non si trova un solo.
E molto più n’ha ad arrossir le gote,
quando bestemmia, ladroneccio, dolo,
usura ed omicidio, e se v’è peggio,
raro, se non dagli uomini, far veggio. –

 

 

 

 

domenica 22 agosto 2021

 THEODOR STORM






da Immensee


Oggi son bella

oggi soltanto

per me domani 

non c'è che pianto.


Un'ora ancora 

con te gioire...

abbandonata 

dovrò morire.

 

Thomas Mann



Thomas Buddenbrook e Schopenhauer

da I Buddenbrook


 

Ma era lì in quel padiglione, nella piccola sedia a dondolo di vimini gialli, restò a leggere un giorno per quattro lunghe ore, con commozione sempre crescente un libro che, un po’ per caso e un po’ cercato, gli era capitato fra le mani... Dopo la seconda colazione, la sigaretta fra le labbra, lo aveva trovato nella saletta da fumo, in un angolo recondito della libreria, nascosto dietro dei grossi volumi, e si era ricordato che un giorno, anni prima, lo aveva acquistato distrattamente dal libraio, a un prezzo d’occasione: un’opera piuttosto voluminosa, stampata male su una carta sottile e giallastra, mal rilegata, la seconda parte soltanto di un famoso sistema metafisico... Se lo era portato in giardino e, profondamente assorto, voltava pagina dopo pagina...

Una contentezza sconosciuta, grande e riconoscente lo colmava. Egli provava l’impareggiabile soddisfazione di vedere come una mente enormemente superiore si fosse impadronita della vita, di quella vita così forte, spietata e beffarda, per sottometterla e

condannarla... la soddisfazione di colui che soffre, che, davanti alla fredda durezza della vita, ha tenuto costantemente nascosta la sua sofferenza, per vergogna e per cattiva coscienza e improvvisamente, dalla mano di un grande saggio, ottiene il diritto razionale e solenne di offrire nel mondo - questo mondo migliore di tutti i mondi pensabili, che con scherzosa ironia veniva dimostrato come il peggiore di tutti i mondi pensabili. Non capiva tutto; principi e premesse restavano per lui poco chiari, e la sua mente, poco esercitata in quelle letture, non riusciva a seguire certi ragionamenti. Ma, proprio l’avvicendarsi di luce e oscurità, di cupa incomprensione, di vaga intuizione e di improvvisa chiarezza lo teneva col fiato sospeso, e le ore svanivano, senza che alzasse gli occhi dal libro o soltanto cambiasse posizione sulla sedia. Da principio, aveva saltato molte pagine, e, andando avanti rapidamente, alla ricerca frettolosa e inconsapevole della questione centrale, ansioso di conoscere la parte veramente essenziale, si era soffermato soltanto su questo o quel capitolo che più lo avvinceva. Ma poi incontrò un lungo capitolo, che lesse dalla prima all’ultima parola, con le labbra serrate e le sopracciglia aggrottate, con il volto serio, di una severità assoluta, quasi assente, e non turbata per nulla dalla vita intorno a lui. Questo capitolo si intitolava: «Della morte e del suo rapporto con l’indistruttibilità del nostro essere in sé».

Gli mancavano poche righe, quando, alle quattro, la cameriera venne attraverso il giardino per annunciare che era in tavola. Egli fece cenno di sì, lesse le ultime frasi, chiuse il libro e si guardò intorno... Sentiva tutto il suo essere estendersi enormemente, preso da una grave, oscura ebbrezza; i sensi annebbiati e completamente inebriati da qualcosa di indicibilmente nuovo, allettante e promettente, che faceva pensare al primo trepido desiderio d’amore. Ma allorché, con mani fredde e incerte, ripose il libro nel cassetto del tavolo da giardino, la sua testa ardente, dominata da una strana pressione, da una tensione inquietante, come se qualcosa potesse esplodervi dentro, non era capace di formulare un pensiero completo.

Che cosa è stato? si chiese, mentre rientrava in casa, saliva lo scalone centrale e si sedeva a tavola con i suoi... Che cosa mi è accaduto? Che cosa ho sentito? Che cosa mi è stato detto, a me, Thomas Buddenbrook, senatore di questa città, presidente della ditta «Johann Buddenbrook»...? Era destinato a me? Potrò sopportarlo? Non so, che cosa è stato... so, solamente che è troppo, troppo per

il mio cervello borghese...

In questo stato di pesante, cupo abbattimento, ebbro e privo di pensieri, trascorse tutto il giorno. Poi venne la sera, e, incapace di reggere ancora oltre la testa sulle spalle, si coricò presto. Dormì per tre ore d’un sonno profondo e incredibilmente profondo, come non mai nella sua vita. Poi si svegliò, all’improvviso, con quella deliziosa angoscia di chi si sveglia solo, con un amore nascente nel

cuore.

Sapeva di essere solo nella grande camera da letto, poiché Gerda dormiva nella camera di Ida Jungmann, che di recente, per essere più vicina al piccolo Johann, aveva occupato una delle tre stanze dell’«Altana». Intorno a lui era notte fonda, poiché le tende delle due alte finestre erano ben chiuse. Nel silenzio profondo e nell’afa opprimente, egli rimase supino a guardare nel buio.

Ed ecco, improvvisamente fu come se l’oscurità davanti ai suoi occhi si lacerasse, come se il muro vellutato della notte si aprisse per svelare un’eterna infinita lontananza di luce... «Io vivrò!» disse Thomas Buddenbrook quasi ad alta voce e sentì come il petto gli tremasse per un intimo singhiozzo. «Ecco, io vivrò! Si vivrà... e che questo “si” non sia io, è soltanto un’illusione, è stato soltanto un errore che la morte correggerà. È così, è così!...Perché?» - E a quella domanda la notte si richiuse davanti ai suoi occhi. Di nuovo non vedeva, non sapeva e non capiva nulla e si lasciò cadere sui cuscini, abbagliato e spossato da quel poco di verità che aveva potuto intravedere.

Giacque immobile, in trepida attesa, quasi tentato di pregare, perché la luce tornasse ancora. E tornò. A mani giunte, senza osare di muoversi, poté vedere...

Che cosa era la morte? La risposta non gli si presentò in misere presuntuose parole: egli la sentiva, la possedeva nel suo intimo. La morte era una felicità, così profonda da potersi valutare appieno soltanto nei momenti di grazia, come quello. Era il ritorno da un labirinto indicibilmente penoso, la correzione di un grave errore, la liberazione dai limiti e dai vincoli più odiosi - il rimedio a una deplorevole sventura.

Fine, disfacimento? Tre volte compassionevole colui che prova orrore a questi vani concetti! Che cosa dovrebbe finire! Che cosa dovrebbe disfarsi? Questo corpo... questa personalità e individualità, questo pesante, ostinato, imperfetto e detestabile impedimento a essere qualcosa di diverso e di migliore!

Non è ogni uomo un errore, un passo falso? Non cade egli in una penosa prigionia appena nasce?

Prigione! Prigione! Barriere e vincoli dappertutto! Attraverso le sbarre della sua individualità l’uomo fissa senza speranza le mura delle circostanze esteriori, fin quando la morte arriva per richiamarlo in patria e alla libertà...

Individualità!... ahimè! ciò che si è, ciò che si può e si possiede appare misero, grigio, insufficiente e tedioso; ciò che invece non si è, ciò che non si può e non si possiede, è ciò a cui guardiamo con quell’ardente invidia che diventa amore perché teme di trasformarsi in odio. Io porto in me il germe, lo spunto, la possibilità di tutte le capacità e abilità del mondo... Dove potrei essere, se non fossi qui! Chi, che cosa, come potrei essere, se non fossi io, se questa mia persona non mi imprigionasse e se non superasse la mia coscienza da quella di tutti coloro che non sono io! L’organismo! Cieca, sconsiderata deplorevole eruzione della pressante volontà! Meglio, in verità, che questa volontà erri libera nella notte senza spazio e senza tempo, piuttosto che languire in una prigione, appena rischiarata dalla vacillante fiammella dell’intelletto!

Ho sperato di continuare a vivere in mio figlio? In una personalità ancora più timorosa, debole ed esitante? Infantile, ingannevole follia! Che cosa è per me un figlio? Io non ho bisogno di figli!... Dove sarò, quando sarò morto? Ma è così chiaro, così incredibilmente semplice! Io sarò in tutti coloro, che mai abbiano detto io, che lo dicono e lo diranno: ma particolarmente in coloro che lo dicono più pienamente con più forza e con più gioia...

Da qualche parte nel mondo cresce un fanciullo, ben dotato e ben riuscito, capace di sviluppare le sue capacità, schietto e sereno, puro, spietato e vivace, uno di quegli uomini la cui vista accresce la felicità ai felici e porta gl’infelici alla disperazione: ecco mio figlio. Quello sono io, appena... appena la morte mi libererà della povera illusione, che non sia tanto lui quanto io...

Ho mai odiato la vita. Questa vita pura, forte e spietata? Follia e malinteso! Soltanto me ho odiato, per il fatto che non la potevo sopportare. Ma io vi amo... vi amo tutti, voi felici, e presto finirò di essere separato da voi da un’angusta prigione; presto ciò che dentro di me vi ama, diventerà liberamente il mio amore per voi e sarà con voi e in voi... con e in voi tutti!

Piangeva; premette il volto contro i cuscini e pianse, tremando, e come ebbro, sollevato da una felicità, che non era paragonabile ad alcuna sulla terra per dolorosa dolcezza. Ecco cos’era, tutto quello che dal pomeriggio precedente lo aveva colmato di ebbrezza, ciò che, nel cuore della notte, si era mosso in lui e lo aveva destato come un amore nascente. E adesso che poteva comprenderlo e riconoscerlo - non con parole e pensieri concatenati, ma con improvvise beatificanti illuminazioni del suo spirito -, egli era già libero, egli era realmente interamente riscattato, affrancato da ogni limite e da ogni vincolo sia naturale sia artificiale.

Le mura della sua città natale, nella quale egli, volontariamente e scrupolosamente, si era chiuso, si spalancavano, e schiudevano al suo sguardo il mondo, tutto il mondo, del quale in gioventù aveva visto questo o quel tratto, e che la morte prometteva di regalargli per intero. Le ingannevoli forme di percezione del tempo, dello spazio e quindi della storia, l’affanno di una continuazione storica e onorata nella persona dei discendenti, la paura della dissoluzione storica, della decomposizione finale - di tutto ciò il suo spirito si era liberato e non gli impediva più di comprendere l’eternità. Nulla incomincia e nulla finisce. Esisteva solo un infinito presente, e quella forza in lui, che amava la vita di un amore così dolorosamente dolce, penetrante e nostalgico, e della quale la sua persona era solo una mal riuscita espressione - avrebbe sempre saputo trovare le vie d’accesso a questo presente.

«Io vivrò!» sussurrava egli tra i cuscini, piangeva e... un attimo dopo non sapeva più perché. Il suo cervello si era fermato, la sua scienza si era spenta, e in lui improvvisamente non c’era più niente altro che un’oscurità silenziosa. «Ma ritornerà!» assicurava a se stesso. «Non l’ho forse già posseduta?»... E, mentre sentiva come lo stordimento ed il sonno calavano irresistibili come un’ombra su di lui, giurò a se stesso di non lasciare mai andar via quella immensa felicità, ma di riunire le sue forze, e di imparare, di leggere e di studiare, fin quando non avesse fatta propria, in maniera salda e inalienabile tutta la visione del mondo, dalla quale tutto ciò, aveva tratto origine.

Non fu possibile, e già al mattino seguente, quando si destò con un lieve senso di imbarazzo per le stravaganze spirituali del giorno precedente, presagì che quei bei propositi non erano attuabili.

Si alzò tardi e si doveva subito recare a una seduta del consiglio comunale. La vita pubblica, la vita di cittadino e di un uomo d’affari nelle vie tortuose e irte di frontoni di quella città commerciale di media grandezza, si impadronì nuovamente del suo spirito e delle sue forze. Sempre animato dal proposito di riprendere quella meravigliosa lettura, egli cominciò tuttavia a domandarsi se le esperienze di quella notte fossero in realtà e durevolmente qualcosa per lui, e se al giungere della morte avrebbero praticamente resistito. Il suo istinto borghese si ribellava. Anche la sua vanità si risentiva: la paura di giocare un ruolo strano e ridicolo. Erano cose da lui? Si attagliavano, a lui, al senatore Thomas Buddenbrook, capo della ditta «Johann Buddenbrook?...»

Non riuscì mai più a dare un’occhiata a quel singolare libro che nascondeva così tanti tesori, né, tanto meno, a procurarsi gli altri volumi della grande opera. Quella pedanteria nervosa che, con l’andare degli anni, si era impadronita di lui, consumava i suoi giorni. Incalzato dalle cento futili piccolezze di tutti i giorni, che la sua testa s’affannava a tenere in ordine e a portare a compimento, era troppo debole per realizzare una ragionevole e proficua suddivisione del suo tempo. E all’incirca due settimane dopo, quel memorabile pomeriggio era così lontano che egli rinunciò a tutto e ordinò alla cameriera di andare subito a prendere quel libro che, per trascuratezza, era rimasto nel cassetto del tavolo da giardino, e di riporlo nella libreria.

E fu così che Thomas Buddenbrook, che aveva teso evidentemente le mani verso le supreme verità, ripiombò esausto nelle idee e nelle immagini, a cui fin dall’infanzia era stato educato a credere. Meditava e gira e gira si ricordava del Dio uno e trino, padre degli uomini, che aveva inviato sulla terra una parte di sé, affinché per noi soffrisse e sanguinasse, che nel giorno del giudizio avrebbe giudicato, e i giusti ai suoi piedi sarebbero stati ricompensati nel corso dell’eternità, che avrebbe allora avuto inizio, per gli affanni di questa valle di lacrime... di tutta questa storia, poco chiara e un po’ assurda, che non richiedeva comprensione ma soltanto docile fede e che sarebbe stata presente, con parole immutabili e puerili, al momento delle estreme angosce... Davvero?

Ma anche qui non trovava pace. Quell’uomo, roso dall’apprensione per l’onore della sua casa, per sua moglie, per suo figlio, il suo nome e la sua famiglia, quell’uomo logorato, che con arte e fatica manteneva il suo corpo diritto, elegante e inappuntabile, si affannò per giorni chiedendosi come stavano le cose: se dopo la morte l’anima andasse davvero direttamente al cielo, o se la beatitudine avesse inizio soltanto con la resurrezione della carne... E dove rimaneva l’anima fino ad allora?

Glielo avevano mai insegnato a scuola e in chiesa? Era lecito lasciare gli uomini in tale ignoranza? - E fu sul punto di recarsi dal pastore Pringsheim per chiedergli consiglio e conforto, ma all’ultimo momento se ne astenne per paura del ridicolo.

Infine, rinunciò a tutto per rimettersi nelle mani di Dio. Ma poiché per mettere ordine nelle sue cose spirituali era giunto a risultati così insoddisfacenti, egli decise almeno di dare un assetto scrupoloso ai suoi affari terreni, portando a compimento un proposito a lungo serbato.

 

Schopenhauer

«Della morte e del suo rapporto con l’indistruttibilità del nostro essere in sé».

 





La morte e lautentico genio ispiratore, il segnavia  della filosofia, ed e per questo che Socrate ha definito questultima anche come qan£tou melšth (esercizio di morte). Sarebbe stato difficile, perciò, che senza la morte  si producesse il filosofare.

Lanimale vive senza conoscere davvero la morte, ed e per questo che il singolo animale gode in modo immediato dellintera immortalità della specie, dato che ha coscienza di sè come di un

essere non destinato alla fine. Nelluomo, invece, con la ragione si presenta necessariamente la coscienza spaventosa della morte. Tuttavia, dato che dovunque in natura per ogni male è predisposto un rimedio, o, quanto meno, una sorta di compensazione, anche qui quella stessa riflessione con la quale si produce la conoscenza della morte fa anche in modo di elevarci a un punto di vista metafisico, il quale riesce a consolarci dal pensiero della morte e del quale lanimale o non ha bisogno o non è capace. Tutte le religioni e i sistemi filosofici sono diretti fondamentalmente a questo scopo e costituiscono dunque anzitutto lantidoto contro quella

certezza della morte che la ragione, nella propria opera di riflessione, produce con i suoi propri mezzi. Molto diverso, a ogni modo, e il grado con il quale si riesce a conseguire questo scopo, e non ce dubbio che una sola religione o una sola filosofia renderanno luomo capace di guardare in faccia la morte con occhio tranquillo ben più di quanto possano le altre. Il brahmanesimo e il buddismo, che insegnano alluomo a considerare sè stesso come il Brahman, come lo stesso essere originario, al quale ogni nascere e perire sono essenzialmente estranei, si prestano a questo scopo assai più di quanto si prestino quelle dottrine che considerano luomo come un essere prodotto dal nulla e che fanno iniziare la

sua esistenza effettiva, ricevuta da un altro, con la nascita. Conformemente a questo, troviamo in India una sicurezza e un disprezzo nei confronti della morte di cui in Europa non abbiamo la

minima idea. In effetti è intollerabile vedere come, a proposito di una questione di tale importanza, si introducano a forza nelluomo, inculcandoglieli precocemente, pensieri falsi e inconsistenti, tali da renderlo incapace per sempre di acquisirne di più corretti e più stabili. Per esempio, insegnargli che solo da breve tempo egli è scaturito dal nulla e che, di conseguenza, per tutta uneternità è stato nulla, e che tuttavia per il futuro dovrà essere immortale, è precisamente come insegnargli che, sebbene egli sia in tutto e per tutto lopera di un altro, ciononostante dovrà essere responsabile per tutta leternità delle proprie azioni e omissioni. Così che poi, una volta che il suo spirito è maturato e ha fatto la sua comparsa la capacità di riflessione, linsostenibilità di dottrine di tal fatta gli simpone a forza, ed egli non ha nulla di meglio da collocare al loro posto, anzi, non è nemmeno più capace di concepire nulla

di meglio, e in questo modo viene privato della consolazione che la natura stessa ha predisposto per lui per compensare la certezza della morte.

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A ogni modo, stando a quanto abbiamo appreso a proposito della morte, non possiamo negare che, quanto meno in Europa, lopinione degli uomini, anzi, spesso quella del medesimo individuo, si trova non di rado a oscillare tra una nozione della morte come assoluto annientamento e lipotesi che noi, in carne e ossa, siamo immortali. Entrambe le concezioni sono egualmente false, solo che ci mettiamo molto meno a trovare un giusto mezzo tra di loro che a elevarci a quel superiore punto di vista dal quale convinzioni di tal fatta svaniscono da sè. Con queste considerazioni io voglio prima di tutto prendere le mosse da un punto di vista puramente empirico.

Ci si presenta per prima cosa un fatto incontestabile: stando alla coscienza naturale,

non è solo in relazione alla propria persona che luomo teme la morte più di ogni altra cosa, ma piange disperatamente anche la morte dei propri cari; ed è evidente che questo non accade perché egli sia egoisticamente afflitto dalla perdita di se stesso, ma in ragione della compassione che ciascuno prova dinanzi alla disgrazia  così grave che li ha colpiti; ragion per cui costui biasima quanti in circostanze di questo genere non piangono e non manifestano alcuna tristezza, accusandoli di essere duri di cuore e insensibili. Parallelo a questo e il fatto che la sete di vendetta, ai livelli più estremi, cerca la morte dellavversario come il male peggiore che gli possa essere inflitto.

Le opinioni mutano a seconda del tempo e del luogo, ma la voce della natura rimane sempre e dovunque la stessa, ed è perciò quella alla quale dobbiamo prestare ascolto prima che

a ogni altra. Ebbene, essa sembra dirci con chiarezza che la morte è un grande male. Nel linguaggio della natura,  morte  significa annientamento. E che la morte sia una faccenda seria, lo si può già ricavare dalla circostanza che, come ognuno sa, la vita non è uno scherzo. Senza dubbio non ci meritiamo niente di meglio di esse. La paura della morte è di fatto indipendente da qualsiasi conoscenza, come dimostra il fatto che anche lanimale la prova, sebbene non sappia che cosa sia la morte. Tutto ciò che è nato la porta già con sè nel mondo. Questa paura della morte, tuttavia, è a priori solo laltra faccia di quella volontà di vivere che tutti noi siamo. E per questo che in ogni animale tanto la cura per la propria conservazione quanto la paura per la propria distruzione sono qualcosa di innato; ed e appunto questultima, non la mera tendenza a evitare il dolore, che si manifesta nella cautela inquieta con la quale lanimale cerca di proteggere se stesso e ancor di più i suoi piccoli da chiunque possa rappresentare un pericolo. Perchè lanimale si dà alla fuga, trema e cerca di nascondersi? Perchè è pura volontà

di vivere, ma in quanto tale è preda della morte e vorrebbe guadagnare del tempo. Nella sua natura luomo non è niente di diverso.

Il peggiore dei mali, la cosa più grave che lo possa minacciare, è la morte: la sua paura più grande è la paura della morte. Non cè nulla che ci trascini in modo così irresistibile sino alla più viva partecipazione quanto il vedere qualcun altro in pericolo di vita; nulla è così orribile quanto unesecuzione capitale. Ora, lattaccamento illimitato alla vita che si mostra in queste circostanze non può però essersi originato dalla conoscenza e dalla riflessione; a queste ultime, al contrario, esso sembra sciocco, dato che il valore obiettivo della vita risulta molto precario e che resta quanto meno dubbio se essa sia o meno preferibile al non-essere; anzi, se lesperienza e la riflessione potessero parlare, il non-essere dovrebbe senzaltro risultare vincente. Se bussassimo alle tombe e chiedessimo ai defunti se vogliano risorgere, costoro scuoterebbero la testa in segno di diniego. Viene di qui anche lopinione espressa da  Socrate

nellApologia platonica :

Ma è ormai venuta lora di andare io a morire, e voi, invece, a vivere. Ma chi di

noi vada verso ciò che è meglio, è oscuro a tutti, tranne che al dio,

e persino lamabile e allegro Voltaire non può trattenersi dal dire:

On aime la vie; mais le neant ne laisse pas davoir du bon (Amiamo la vita, ma il nulla non cessa di avere qualcosa di buono) ; e ancora: Je ne sais pas ce que cest que la vie eternelle, mais celle-ci est une mauvaise plaisanterie(Io non so che cosa sia la vita eterna, ma questa qui è un giuoco malvagio)

 

In aggiunta, la vita deve in ogni caso aver presto fine, così che i pochi anni che presumibilmente sono ancora concessi alla nostra esistenza svaniscono del tutto dinanzi al tempo infinito durante il quale non esisteremo più. Di conseguenza, agli occhi della riflessione non può che apparire ridicolo che noi ci si preoccupi così tanto per questo breve lasso di tempo, che si tremi così tanto quando la nostra o laltrui vita vengono messe in pericolo, che si compongano tragedie nelle quali il dramma ricava la propria forza unicamente dalla paura della morte. Questo vigoroso attaccamento alla vita è dunque cieco e contrario alla ragione: lo si può spiegare solo con la circostanza che il nostro essere in sè è per intero e senza alcun dubbio volontà di vivere, per la quale la vita, per quanto amara, breve e incerta possa essere, non può perciò che valere come il bene sommo, e che questa volontà è in sè originariamente

cieca ed estranea alla conoscenza. La conoscenza, viceversa, ben lungi dallessere lorigine di questo attaccamento alla vita, agisce in contrapposizione ad esso, in quanto scopre la mancanza di valore della vita e, in questo modo, combatte la paura della morte.

Quando riesce a vincere, e luomo, conseguentemente, fronteggia la morte con coraggio e tranquillità, ecco che questa condotta viene onorata come grande e nobile: celebriamo allora il trionfo della conoscenza sulla cecità della volontà di vivere, la quale costituisce nondimeno il nocciolo del nostro proprio essere. Analogamente, disprezziamo la persona nella quale, in questo conflitto, la conoscenza venga sopraffatta, la persona che perciò si aggrappi incondizionatamente alla vita, che si opponga strenuamente alla morte

che si approssima e si disperi quando è sul punto di riceverla; ciò che parla in lui è appunto solo lessenza originaria del nostro sè e della natura. Potremmo chiederci, di passaggio: comè che lamore illimitato della vita e gli sforzi messi in atto in tutti i modi per conservarla il più a lungo possibile possono essere considerati bassi, spregevoli, indegni della loro fede da parte di chi aderisce a una qualunque religione, se la vita è il dono di un dio buono che devessere accolto con gratitudine? E come potranno mai apparire grandi e nobili coloro i quali la trattano con disprezzo?

Intanto  queste considerazioni ci confermano:

1) che la volontà di vivere è lessenza profonda delluomo;

2) che essa è, in sè stessa, cieca ed estranea alla conoscenza;

3) che la conoscenza è un principio aggiuntivo, estraneo alloriginario;

4) che volontà e conoscenza sono in antagonismo e che il nostro giudizio plaude alla vittoria della conoscenza sulla volontà.

Se quel che rende la morte così terribile ai nostri occhi è il pensiero dellessere-niente, allora dovremmo pensare con il medesimo orrore al tempo durante il quale non esistevamo ancora.

Giacchè è incontestabilmente certo che lessere-niente dopo la morte non può essere diverso da quello che ha preceduto la nascita e che conseguentemente non può nemmeno essere più spiacevole di esso. Uneternità intera ha fatto il suo corso quando noi non esistevamo ancora

; questo pensiero però non ci disturba in alcun modo. Viceversa troviamo duro, addirittura insopportabile che al momentaneo intermezzo  di unesistenza effimera debba

seguire una seconda infinita nella quale noi non esisteremo più. Ora, può essere che questa sete di esistenza si sia prodotta per il fatto che noi adesso labbiamo assaggiata e labbiamo trovata così piacevole? Labbiamo già spiegato brevemente pocanzi: certamente no; lesperienza fatta avrebbe dovuto piuttosto ridestare in noi un desiderio infinito di quel paradiso perduto che è il non-essere. Aggiungiamo anche che alla speranza di unanima immortale si è sempre accompagnata quella in un mondo migliore≫ – segno che quello presente non deve valere granchè.

Malgrado tutto questo, la questione della nostra condizione dopo la morte è stata certamente sollevata decine di migliaia di volte più spesso, nei libri e oralmente, di quella relativa alla nostra condizione prima della nascita. Dal punto di vista teoretico, a ogni modo, questo

è un problema immediato e legittimo tanto quanto il precedente, così che colui il quale riuscisse a dare una risposta alluno avrebbe parimenti fatto piena luce anche sullaltro. Che belle declamazioni possediamo su quanto sconvolgente possa essere il pensiero che la mente umana, la quale abbraccia il mondo intero ed è capace  di cosi tanti pensieri assolutamente eccellenti, debba essere calata nella tomba insieme al corpo; ma non si sente una parola a proposito del tempo infinito che questa stessa mente deve aver trascorso prima di nascere con queste sue caratteristiche, e di come il mondo abbia dovuto arrangiarsi così a lungo anche in sua assenza. E tuttavia alla conoscenza che non sia corrotta dalla volontà non cè domanda che si presenti in modo più naturale di questa: un tempo infinito è trascorso prima della mia nascita; cosero io durante tutto questo tempo?

Linfinita a parte post senza di me, infatti, non può essere più spaventosa della infinita a parte ante   senza di me, stante che non cè nullaltro che le distingua se non linterposizione tra luna e laltra di un effimero sogno di vita. Inoltre tutte le prove a sostegno di una continuazione al di là della morte possono essere rivolte altrettanto bene anche in partem ante, nel qual caso esse dimostrano lesistenza prima della vita, assumendo la quale Indu e buddisti si dimostrano perciò assai consequenziali. Solamente lidealità Kantiana  del tempo scioglie tutti questi

enigmi, ma non è di questo che ci stiamo occupando al momento.

Cè comunque qualcosa che segue da quel che sè detto: che affliggersi per il tempo nel quale non esisteremo più è tanto assurdo quanto affliggersi per quello nel quale non esistevamo ancora: che il tempo che non è riempito dalla nostra esistenza sia, rispetto al

tempo che essa riempie, un futuro o un passato, non fa davvero nessuna differenza.

Ma anche prescindendo da queste considerazioni relative al tempo, è in sè e per sè assurdo ritenere che il non-essere sia un male, dato che ogni male, come ogni bene, ha come presupposto lesistenza, anzi, di più: la coscienza; questultima però cessa con il cessare della vita, come anche nel sonno e nello svenimento; la sua assenza ci è familiare, e ci è ben noto che non include alcun male, e che in ogni caso il suo prodursi è questione di un istante.

E p i c u r o considera la morte da questo punto di vista e dice perciò, del tutto correttamente:

Ð qanatoj mhd˜n prÒj  ¹m©j (la morte non ci riguarda); con la spiegazione che quando ci siamo noi, la morte non è, e quando la morte cè, noi non ci siamo (Diogene Laerzio, X, 27). Laver perduto qualcosa della cui mancanza non possiamo accorgerci non è evidentemente un male; ragion per cui il diventar-niente ci dovrebbe tormentare tanto poco quanto lesser- stati-niente. Dal punto di vista della conoscenza appare dunque che il timore della morte non ha assolutamente alcun fondamento: la coscienza consiste nel sapere, e perciò per essa la morte non è in alcun modo un male. Inoltre questa parte c o n o s c e n t e del nostro io non è in effetti quella stessa che teme la morte; la fuga mortis scaturisce piuttosto dalla v o l o n t à cieca, della quale tutte le cose che vivono sono riempite. La fuga mortis però come

già sopra si è osservato appartiene essenzialmente alla volontà proprio perchè questultima è volontà di vivere: tutta quanta la sua essenza consiste in un impulso imperioso verso la vita e lesistenza, e la conoscenza non abita insieme ad essa originariamente, bensì solo a seguito del suo oggettivarsi in individui animali. Ora, quando, per suo tramite, la volontà riconosce  nella morte la fine del fenomeno con il quale si era identificata e nel quale dunque si era rinchiusa, tutta la sua natura combatterà contro di essa con tutte le forze. Indagheremo più avanti se essa abbia effettivamente qualcosa da temere dalla morte, e allora ci dovremo rammentare

di quale sia la vera fonte della paura della morte, che qui è stata  indicata con lopportuna distinzione tra la parte volitiva e la parte conoscitiva del nostro essere.

 

..

 

Corrisponde a quel che sè detto anche il fatto che a rendere la morte cosi spaventosa ai nostri occhi non è tanto la fine di una vita che nessuno può ritenere particolarmente degna di essere rimpianta, quanto piuttosto la distruzione dellorganismo, propriamente perche questultimo è la volontà stessa che si manifesta come corpo.

Tuttavia noi percepiamo realmente questa distruzione solo nel male della malattia o della vecchiaia; viceversa, la morte stessa consiste, per il s o g g e t t o , solo nellistante in cui la coscienza svanisce, nel quale cessa lattività del cervello. Il successivo diffondersi

di questa cessazione alle altre parti dellorganismo è già, propriamente, un avvenimento che si verifica dopo la morte. La morte, dal punto di vista soggettivo, riguarda dunque solamente

la coscienza.

 

 

……………….

(La morte) essa appare invece spesso proprio come un bene, come qualcosa di desiderabile, come una vera amica. Tutti coloro che si sono imbattuti in ostacoli insormontabili per la loro esistenza o per i loro sforzi, che soffrono di malattie incurabili o di struggimenti inconsolabili, trovano quasi sempre spalancata dinanzi a loro, come ultima via di scampo, la possibilità di far ritorno nel grembo della natura, dal quale essi, come ogni altra cosa, sono emersi per un breve lasso di tempo, allettati dalla speranza di condizioni di esistenza piu favorevoli di quelle nelle quali si sono imbattuti, e al quale possono far ritorno

percorrendo la stessa via che rimane sempre aperta dinanzi a loro.

Questo ritorno è la cessio bonorum  del vivente. Anche qui, tuttavia, il ritorno è possibile solo dopo un conflitto fisico o un conflitto morale: tanto forte è la resistenza che ciascuno oppone al

ritornare nella condizione che ha prontamente abbandonato con tanta facilita per unesistenza che ha avuto da offrire così tante sofferenze e così poche gioie.

Gli Indù danno a Yama , il dio della morte, due facce: luna assai spaventosa e terribile, laltra assai amabile e benevolente. Il che è già spiegato in parte dalle considerazioni che abbiamo appena svolto.

 

……………

 

Il principio che ci dà vita, tuttavia, lo dobbiamo pensare per il momento come una forza naturale, sino a che unindagine più approfondita non ci consenta magari di riconoscere

che cosa esso sia in sè stesso. Già come forza naturale, a ogni modo, la forza vitale non viene in alcun modo intaccata dal mutamento delle forme e degli stati che si producono e si dissolvono in forza della catena delle cause e che soli sono soggetti al processo

del comparire e dello scomparire, come ci viene attestato dallesperienza.

Quel che se detto sin qui permette già di dimostrare il carattere imperituro della nostra autentica essenza. Ma sicuramente non soddisferà le richieste che usualmente vengono avanzate in materia di prove del nostro continuare a sussistere dopo la morte,

nè sarà in grado di procurare la consolazione che ci si aspetta da prove di tal fatta. Pure qualcosa cè sempre, e colui il quale teme che la morte sia il proprio assoluto annientamento non potrà disdegnare la piena certezza che il principio profondo della sua vita non viene intaccato da essa.

Di più, si potrà prospettare il paradosso che anche quella seconda realtà, la quale, proprio come le forze della natura, non viene intaccata dal continuo mutamento degli stati guidato dalla causalità, vale a dire la materia, ci assicuri in forza della propria assoluta permanenza unindistruttibilità in virtù della quale colui che sia incapace di afferrarne unaltra

possa già confidare in una certa immortalità. Ma come? si dirà,

la permanenza della mera polvere, della materia bruta, dovrà essere

considerata come la continuazione della nostra essenza?≫ –

Oh! Ma conoscete questa polvere? Sapete che cosa essa è e che

cosa e in grado di fare? Imparate a conoscerla, prima di disprezzarla.

Questa materia, che ora sta qui come polvere e cenere, comincerà

presto, una volta che venga disciolta nellacqua, a cristallizzarsi,

risplenderà come un metallo, emetterà poi scintille delettricità,

rivelerà, per mezzo della sua tensione galvanica, una forza

che, disgregando le connessioni più resistenti, sarà in grado di trasformare

la terra in metallo; anzi, prenderà da sè la forma di piante

e di animali, e dal suo grembo misterioso svilupperà quella vita

per la perdita della quale voi, nella vostra limitatezza, siete così

ansiosamente preoccupati. E davvero dunque così assolutamente

niente continuare a sopravvivere come una materia di tal fatta?

Anzi, io asserisco sul serio che la stessa permanenza della materia

depone a favore dellindistruttibilità del nostro vero essere, sebbene

solo con unimmagine e una similitudine, o piuttosto solo

come una silhouette

...

Le considerazioni che ci hanno condotto sino a questo punto e

alle quali sono collegate le delucidazioni che seguono, hanno preso

le mosse dalla notevole paura della morte che tormenta tutti gli

esseri viventi. Ora però intendiamo modificare il nostro punto di

vista e considerare per una volta come l i n t e r o della natura, in

contrasto con le singole esistenze, si comporti per quel che concerne

la morte; nel farlo noi continueremo comunque sempre a stare

sul solido terreno dellesperienza.

…………………..

La  n a t u r a , che

non mente mai ma che è sempre schietta e aperta, ci parla di questo

tema in modo affatto diverso, come fa Krishna nella Bhagavad-

Gītā. Dice che la morte o la vita dellindividuo non hanno alcuna

importanza. E lo esprime lasciando la vita di ogni animale e quella

delluomo stesso in balia dei casi più insignificanti, senza farsi

carico della loro salvezza.

 Considerate linsetto che si trovi sul

vostro cammino: un piccolo, inconsapevole movimento del vostro piede può decidere della sua vita o della sua morte. Osservate la

lumaca di bosco, che non ha mezzo alcuno per volare, per difendersi,

per depistare, per occultarsi: una preda a disposizione di

chiunque. Osservate il pesce che gioca spensierato nella rete che

sta per richiudersi; la rana che, per la sua pigrizia, si tiene lontana

dalla via di fuga che potrebbe darle la salvezza; luccello che non

si avvede del falco che si libra minaccioso su di lui; la pecora sulla

quale, celato da un cespuglio, il lupo ha fissato i suoi occhi attenti.

Tutti questi esseri, armati di poca prudenza, se ne vanno in giro

senza alcuna malizia in mezzo ai pericoli che a ogni istante ne

minacciano lesistenza.

Ebbene, se

la madre di tutte le cose si preoccupa così poco di esporre i propri

figli, senza alcuna protezione, alla minaccia di migliaia di pericoli,

questo può significare soltanto che essa sa che quando muoiono

fanno ritorno al suo grembo, nel quale sono al sicuro, e che perciò la

loro morte non è che uno scherzo. Con luomo essa non si comporta

diversamente che con gli animali. Il suo dire si estende dunque

anche ad esso: la morte o la vita dellindividuo le sono indifferenti.

Conseguentemente esse dovrebbero, in un certo senso, esserlo anche

per noi, giacchè noi stessi siamo appunto natura. Se solo fossimo in

grado di guardare abbastanza a fondo, ci troveremmo certamente

daccordo con la natura e considereremmo la morte o la vita con la

stessa indifferenza con la quale le considera lei.

………

 

Consideriamo ora, oltre a ciò, che non solo, come già abbiamo

avuto modo di osservare, vita e morte dipendono dai casi più insignificanti,

ma che lesistenza stessa degli esseri organici è in generale

effimera, che animali e piante oggi nascono e domani muoiono

e che nascita e morte si susseguono in rapida successione, mentre alle realtà inorganiche, che occupano un gradino assai più basso,

e assicurata una durata incomparabilmente più lunga; una durata

infinita, a ogni modo, tocca soltanto alla materia assolutamente

priva di forma, alla quale noi infatti la attribuiamo a priori

…….

tutto lessere e il non-essere

di questi esseri individuali, in relazione ai quali morte e vita sono

contrapposte, possono essere solo un che di relativo: il linguaggio

della natura, nel quale ci è dato come qualcosa di assoluto, non

può dunque essere lespressione vera e ultima della conformazione

delle cose e dellordine del mondo, ma può essere in verità solo un

patois du pays, vale a dire un vero meramente relativo, un che di

presunto, qualcosa da prendere cum grano salis; o, per dirla nel

modo più appropriato, qualcosa di condizionato dal nostro intelletto.

…………………

 

A ogni modo, anche una riflessione compiuta, come quella che venne perseguita dalla mente superiore di Kant , conduce per un diverso sentiero proprio al medesimo risultato, dato

che insegna che il nostro intelletto, nel quale si rappresenta quel

mondo fenomenico così rapidamente mutevole, non coglie la vera

essenza ultima delle cose, ma la sua mera manifestazione fenomenica;

e questo in effetti, aggiungo io, perchè lintelletto e originariamente

destinato a presentare i motivi alla nostra volontà, vale a

dire a servire questultima nel perseguimento dei suoi miseri scopi.

***

Se uccido un animale (sia esso un cane, un uccello, una rana, o anche solamente un insetto) e sicuramente impensabile che questo essere, o piuttosto la forza originaria

in virtù della quale un fenomeno cosi meraviglioso solo un

istante prima si presentava in tutta la sua energia e in tutta la sua

gioia di vivere, abbia potuto essere annientato dal mio gesto malvagio

o sbadato. E daltra parte, aggiungiamo, i milioni di animali

di ogni specie che a ogni istante, pieni di forza e di operosità, giungono

allesistenza nella loro infinita varietà, non possono in alcun

modo essere stati assolutamente niente prima dellatto con il quale

si sono generati, ne possono in alcun modo essere giunti dal nulla

a un inizio assoluto.

 Ora, se vedo uno di questi esseri sottrarsi in

questo modo alla mia vista senza riuscire a sapere dove vada; e se

ne vedo un altro apparire senza riuscire a sapere da dove provenga;

se, per di più, essi hanno entrambi la stessa forma, la stessa essenza,

le stesse caratteristiche, e sono diversi solo per la materia, della

quale peraltro si sbarazzano e che rinnovano continuamente anche

durante la loro esistenza; allora si fa tangibilmente strada lipotesi

secondo la quale ciò che scompare e ciò che compare al suo posto

sono un solo e medesimo essere, il quale ha subito solo una piccola

trasformazione, un rinnovamento della forma della sua esistenza,

e che di conseguenza la morte e per la specie quello che il sonno e

per lindividuo;

 questa ipotesi, io sostengo, è cosi a portata di

mano che è impossibile che non incappiamo in essa, a meno che la

testa, guastata nella più giovane età dai falsi principi che sono stati

impressi in essa, non se ne tenga bene alla larga con un timore superstizioso.

Ma lipotesi opposta, secondo la quale la nascita di un

animale sarebbe uno scaturire dal nulla e, in modo corrispondente,

la sua morte sarebbe il suo annientamento assoluto, con laggiunta

poi che luomo, pur essendosi anchegli generato dal nulla, godrebbe

tuttavia di una sopravvivenza individuale infinita, e per di più

accompagnata da coscienza, mentre il cane, la scimmia e lelefante

verrebbero annientati dalla morte, e davvero qualcosa contro cui il

buon senso dovrebbe rivoltarsi e che dovrebbe dichiarare assurda.

Se, come ho ripetuto a sufficienza, il confronto dei risultati di un

sistema con gli enunciati di un intelletto umano sano deve essere la

pietra di paragone della sua verità, allora mi auguro che i seguaci di

quella concezione fondamentale che si è tramandata da Cartesio sino

agli eclettici prekantiani e che ancora oggi predomina presso la

gran parte degli uomini di cultura europei vogliano una buona volta

utilizzare qui questa pietra di paragone.

***

Sempre e dovunque  il simbolo autentico della natura è il circolo,

poichè esso e lo schema del ritorno: quella del ritorno è difatti

in natura la forma più universale, e la natura la realizza in tutte

le cose, dal cammino degli astri sino alla morte e alla nascita degli

esseri organici: è soltanto grazie ad essa che, nellincessante fluire

del tempo e del suo contenuto, diventa possibile pure unesistenza

stabile, vale a dire una natura. Se in autunno osserviamo il piccolo mondo degli insetti e vediamo

come luno si prepara il letto nel quale dormirà durante il lungo

e rigido periodo del letargo; come laltro si rinchiude nel bozzolo

per svernare in esso sotto forma di crisalide e risvegliarsi, a primavera,

ringiovanito e compiutamente formato; come infine i più, che

intendono trovare riposo tra le braccia della morte, altro non fanno

che allestire con cura il giaciglio adatto al loro uovo, per uscire un

giorno da esso rinnovati; se osserviamo tutto questo, capiamo che

e questa la grande dottrina dellimmortalità della natura, la quale ci

potrebbe insegnare che tra il sonno e la morte non vi è alcuna differenza

radicale, ma che invece luna è tanto poco una minaccia per

lesistenza quanto lo è laltro. La cura con la quale linsetto prepara

una cella, una fossa, un  nido e vi depone il suo uovo insieme al cibo

per la larva che dovrà uscirne la primavera successiva, e poi tranquillamente

muore, è del tutto simile alla cura con la quale un uomo

la sera prepara il proprio abito e la propria colazione per il mattino

seguente, e poi tranquillamente se ne va a dormire, e potrebbe in

fondo non aver luogo affatto se linsetto che in autunno muore non

fosse in sè stesso e secondo la sua vera essenza proprio così identico

a quello che in primavera esce dalluovo come luomo che si addormenta

la sera lo e con quello che si rialza lindomani.

Se ora, dopo queste considerazioni, torniamo a noi e alla nostra

specie; e se poi gettiamo uno sguardo in avanti, ben lontano

nellavvenire e cerchiamo di figurarci le generazioni future con i

milioni di individui che ne fanno parte, nella forma sconosciuta

dei loro usi e dei loro costumi. Se poi pero ci interrompiamo ponendoci

questa domanda: da dove verranno tutti costoro? Dove

si trovano in questo momento? Dovè il grembo opulento del nulla

gravido di mondi che cela ancora dentro di sè le generazioni a

venire? Ebbene, non sarebbe questa la risposta vera che daremmo

sorridendo: dove altro dovrebbero essere, se non là dove soltanto

il reale è sempre stato e sempre sarà, nel presente e in ciò che esso contiene, e dunque in te, che poni domande alla cieca? In te che,

misconoscendo la tua vera essenza, sei come una foglia appesa a

un albero che in autunno, quando appassisce e sta per cadere, si

duole della propria fine e non si vuole lasciar consolare dalla previsione

del verde fresco che in primavera ricoprirà lalbero, e invece

si lamenta dicendo: Io pero non sono questo! Quelle sono

foglie del tutto diverse!? Oh, sciocca foglia! Dove credi di andare?

E da dove dovrebbero venire tutte le altre foglie? Dovè il

Nulla, del quale tu temi il baratro? Riconosci dunque lessenza che

ti è propria, ossia proprio ciò che è cosi pieno della sete di esistere;

riconoscila ancora una volta nella forza profonda e misteriosa

che fa crescere lalbero, la quale, essendo sempre una  sola è la

medesima in tutte le generazioni di foglie, non viene toccata dal

sorgere e trapassare.

…….

A dispetto di ciò, tuttavia, anzi, come se le cose non andassero affatto

in questo modo, ce sempre tutto e tutto è al proprio posto,

proprio come se tutto fosse immortale. La pianta continua sempre

a mettere le foglie e a fiorire, linsetto a ronzare, lanimale e luomo

continuano a mantenersi nella loro solidissima giovinezza, e a

ogni estate ci troviamo di nuovo di fronte le ciliegie che abbiamo

già gustato mille volte. Anche i popoli esistono come individui immortali,

sebbene talvolta cambino nome; persino il loro agire, ciò

di cui si occupano e ciò di cui soffrono, è in ogni tempo lo stesso,

sebbene la storia abbia la pretesa di narrare ogni volta qualcosa di

diverso: essa è infatti come il caleidoscopio, che a ogni giro mostra

una nuova configurazione, mentre quel che abbiamo dinanzi

agli occhi e sempre la stessa cosa. Non cè dunque nulla che ci si

imponga in modo più irresistibile del pensiero che quel sorgere e

trapassare non riguardano lessenza autentica delle cose: questultima

non viene toccata da esse ed è dunque imperitura, si che tutte

le cose e ogni singola cosa che vogliono esistere esistono

effettivamente in modo continuativo e senza fine. Conseguentemente,

in ogni determinato momento tutte le specie animali, dal

moscerino allelefante, coesistono al completo. Si sono già rinnovate

molte migliaia di volte, e tuttavia sono rimaste le stesse. Non

sanno nulla di altri loro simili che sono vissuti prima di loro o che

vivranno dopo: e la specie quella che vive sempre, ed è nella coscienza

dellimmortalità di questultima  e della propria identità

con essa che gli individui esistono e godono. La volontà di vivere

si manifesta a sè stessa in un presente senza fine, poiché è questa la

forma della vita della specie, la quale perciò non invecchia e rimane

invece sempre giovane. La morte è per la specie quel che il sogno

è per lindividuo, o quel che è per locchio il batter di ciglia, dalla

cui assenza si riconoscono gli dei indiani quando si manifestano in

sembianze umane. Cosi come al calar della notte il mondo svanisce,

ma non per questo cessa di esistere anche solo per un istante,

allo stesso modo luomo e lanimale, quando muoiono, scompaiono

solo in apparenza, mentre la loro vera essenza continua a esistere

indisturbata. Immaginiamoci ora quellalternarsi di morte e nascita

come se fosse un succedersi di vibrazioni infinitamente rapide

e avremo dinanzi a noi, ferme come larcobaleno sopra la cascata,

loggettivazione immobile della volontà, le idee permanenti degli

esseri. E questa limmortalità nel tempo. Grazie ad essa, a dispetto

di millenni di morte e di putrefazione, nulla è andato perduto,

nemmeno un atomo di materia, ne, a maggior ragione, alcunchè di quellessenza profonda che manifesta sè stessa come Natura. Di

conseguenza noi possiamo in ogni momento lietamente esclamare:

A dispetto del tempo, della morte e della putrefazione, noi siamo

ancora tutti insieme!

……..

Vale la pena comunque richiamare lattenzione sul fatto che le

doglie del parto e lamarezza della morte sono le due condizioni

costanti sotto le quali la volontà di vivere conserva sè stessa nella

sua oggettivazione, vale a dire che il nostro essere in sè, che non

viene intaccato dallo scorrere del tempo e dal trapasso delle generazioni,

esiste in un perpetuo presente e gode il frutto dellaffermazione

della volontà di vivere. Il che è analogo al fatto che noi

siamo in grado di rimanere svegli di giorno solo a condizione di

dormire ogni notte; questultima circostanza è anzi il commentario

che la natura ci offre per comprendere quel difficile passo: la

sospensione delle funzioni animali, infatti, è il sonno, quella delle

funzioni organiche è la morte.

 

………………

 

Il sostrato, o ciò che riempie, il pl»rwma, o la  materia di cui e

costituito il p r e s e n t e , è propriamente lo stesso in ogni tempo.

Limpossibilità di riconoscere immediatamente questa identità è

appunto i l t emp o , una forma e un limite del nostro intelletto.

Il fatto che, a causa di esso, per esempio il futuro non ci sia ancora

dipende da unillusione della quale ci rendiamo conto una volta

che esso sia sopraggiunto. Che la forma essenziale del nostro intelletto

produca unillusione di tal fatta si spiega e si giustifica con

il fatto che lintelletto non è stato in alcun modo prodotto dalle

mani della natura per comprendere lessenza delle cose, ma piuttosto

solamente per comprendere i motivi, ed è dunque destinato

a servire un fenomeno individuale

e temporale della volontà.

 

Si da u n s o l o p r e s e n t e , ed esso è sempre,

giacchè e lunica forma dellesistenza reale.

Si deve arrivare a comprendere che il p a s s a t o

è diverso dal presente  non in sé  , ma solo in

quella nostra apprensione che ha come forma il

tempo: solamente in forza di essa il presente

si mostra come qualcosa di diverso dal passato.

Per comprendere meglio la questione, pensiamo

a tutti quegli episodi ed eventi della vita umana,

cattivi e buoni, fortunati e sfortunati, gradevoli e

terribili, che ci si presentano nella più variegata

diversità luno dopo laltro nel corso del tempo e

nella varietà dei luoghi; pensiamoli, quegli eventi,

come presenti  tutti insieme,  simultaneamente ed eternamente nel Nunc stans (ora permanente), e che solo in apparenza vi sia

ora questo, ora quello: allora comprenderemo

che cosa significhi autenticamente loggettivazione

della volontà di vivere.

 Anche il piacere

che proviamo dinanzi ai quadri di genere dipende

principalmente dal fatto che essi fissano i fuggevoli

episodi della vita.

 Dal sentore della verità

che abbiamo espressa e derivato il dogma delle

metempsicosi.

 

 

Se riassumiamo le considerazioni

che ci hanno qui impegnati

comprenderemo anche il vero significato

della paradossale dottrina

degli Eleati, secondo la quale

non si dà alcun nascere e alcun

morire, ma il tutto permane immobile: Parmenides et Melissus

ortum et interitum tollebant,

quoniam nihil moveri putabant. Stobeo,

(Eclogae ethicae, I, 21 Parmenide e Melisso eliminavano la generazione e la corruzione, perchè ritenevano

il tutto immobile)

 

Allo

stesso modo ne risulta illuminato

anche il bel passo di Empedocle,

che ci è stato conservato da Plutarco nel libro Adversus Coloten,

al capitolo 12:

 

Questi ingenui!, non dimostrano certo un ingegno acuto con i loro affanni, se si

aspettano che si crei ciò che prima non esiste, o che qualcosa possa perire del tutto e distruggersi

totalmente. Un uomo saggio non può concepire nella sua mente un pensiero simile,

| che fino a quando gli uomini vivono quella che chiamano appunto la loro esistenza,

| fino a quel momento credono di esistere, quando miserie e conforti stanno accanto a

loro; | ma invece di non esistere affatto, prima dessere costruiti e dopo di venire dissolti

 

Non merita meno di essere menzionato qui quel passo cosi notevole

e, quanto alla sua collocazione, sorprendente, che si trova

in Jacques le fataliste di Diderot: Un chateau immense, au

frontespice duqel on lisait: Je nappartiens a personne, et jappartiens

a tout le monde: vous y etiez avant que dy entrer, vous

y serez encore, quand vous en sortirez(Un immenso castello, sulla cui facciata si leggeva: Non appartengo a nessuno e

appartengo a tutti. Gia eravate qui prima di entrare, e ci sarete ancora quando ne uscirete)

………………..

 

Non ce maggiore contrasto di quello tra linarrestabile fuga del

tempo che trascina via con sè tutto intero il suo contenuto e la rigida

immobilita di ciò che effettivamente esiste e che in ogni tempo

è uno e il medesimo. E se, partendo da questo punto di vista,

si considerano in modo veramente oggettivo gli eventi immediati

della vita, allora il Nunc stans ci diverrà chiaro e visibile al centro

della ruota del tempo. A un occhio che vivesse incomparabilmente

più a lungo, che abbracciasse con un solo sguardo il genere

umano in tutta la sua durata, il continuo alternarsi di nascita e

morte si presenterebbe come una mera vibrazione continua, si che

non gli verrebbe nemmeno in mente di vedere in esso un sempre

nuovo uscire dal niente e ritornare nel niente: così come al nostro

sguardo una scintilla fatta ruotare rapidamente si presenta come

un cerchio continuo, una molla che vibra rapidamente come un

triangolo immobile, una corda che vibra come un fuso, allo stesso

modo la specie apparirebbe a quello sguardo come ciò che è e permane,

e la morte e la nascita come vibrazioni.

……..

Avremo sempre delle idee sbagliate a proposito del fatto che il

nostro vero essere non viene distrutto dalla morte sino a quando

non ci decideremo a studiare questa circostanza prima di tutto

negli animali, invece di continuare a pretendere per noi soli una

parte speciale di questa indistruttibilità, assegnandole lappellativo

borioso di immortalità. Ma è proprio questa pretesa, unita alla

limitatezza di vedute da cui scaturisce, la sola ragione per la quale

la maggior parte delle persone rifiuta cosi ostinatamente di riconoscere

quella verità del tutto palese la quale dice che noi, primariamente

ed essenzialmente, siamo identici agli animali; anzi, al

benchè minimo accenno alla nostra parentela con essi, si ritraggono

tremanti. Ma e proprio questo ripudio della verità che più

dogni altra cosa sbarra loro la strada verso leffettiva conoscenza

dellindistruttibilità del nostro essere: cercando qualcosa sulla via

sbagliata, infatti, abbandoniamo per ciò stesso quella giusta, e alla fine non potremo che restare tardivamente delusi. Coraggio, dunque:

perseguiamo la verità non secondo fantasie preconcette, ma

attenendoci alla natura! Impariamo anzitutto, quando guardiamo

i piccoli di qualsiasi animale, a riconoscere lesistenza della specie,

che non invecchia mai e che, come un riflesso della sua eterna

giovinezza, dona unesistenza temporale a ogni nuovo individuo,

conferendogli un aspetto così nuovo, così fresco come se il mondo

esistesse solo da oggi. Chiediamoci onestamente se la rondine

della primavera di oggi sia in tutto e per tutto unaltra rispetto a

quella della prima primavera, e se davvero tra luna e laltra si

sia reiterato milioni di volte il miracolo della creazione dal nulla,

solo perchè essa potesse essere spinta altrettante volte nelle mani

dellannientamento assoluto.

 

 

Ogni s p e c i e di esseri viventi non viene in

alcun modo coinvolta dal cambiamento continuo degli individui

che la costituiscono. L i d e a , però, o la specie, è ciò in cui propriamente

si radica e si manifesta la volonta di vivere; è anche per

questo che la volontà è interessata solamente alla continuazione

della specie. Per esempio, i singoli leoni che nascono e muoiono

sono come le goccioline della cascata, mentre la leonitas, l i d e a ,

o la forma, del leone e come larcobaleno che sta immobile su di

loro. E per questo che P l a t o n e ha attribuito solamente alle

i d e e , vale a dire alle species, ai generi, un essere autentico, e agli

individui solo un incessante nascere e perire. Dalla coscienza più

profonda della propria natura imperitura derivano propriamente

anche la sicurezza e la serenità con le quali ogni animale e lo stesso

individuo umano se ne vanno a spasso spensieratamente in mezzo

a una infinità di eventi causali che a ogni istante li  possono annientare,

e per giunta muovendo diritti verso la morte, mentre dai

loro occhi traspare la tranquillità della specie, alla quale quella distruzione

non arreca danno e che non se ne cura. Una tranquillità

che non potrebbe essere conferita nemmeno alluomo dai dogmi,

insicuri e mutevoli come sono. Tuttavia, come si è detto, la vista

di qualsiasi animale ci insegna che la morte non è dostacolo al manifestarsi

del nocciolo della vita, al manifestarsi della volontà. Che

mistero imperscrutabile cè in effetti in ogni animale!

Kant , con il suo procedimento soggettivo, mise in luce la grande,

anche se negativa, verità secondo la quale il tempo non può essere

una prerogativa che competa alla cosa in sè, poichè esso è già

presente come forma nella nostra capacità di comprendere. Ora,

la morte è la fine temporale del fenomeno temporale; solo che,

non appena togliamo di mezzo il tempo, non si dà più alcuna fine

e questa parola ha perduto ogni significato. Per parte mia, intendo

ora sforzarmi di dimostrare, mantenendomi sulla via oggettiva

che sto seguendo in questa sede, laspetto positivo della questione,

vale a dire che la cosa in sè non viene toccata dal tempo nè da

ciò il nascere e il perire che solo il tempo rende possibile, e che

i fenomeni sottoposti al tempo non potrebbero nemmeno avere

quellesistenza incessantemente fuggevole che si trova sempre nelle

vicinanze del  Niente se non fosse presente in essi un nocciolo di

eternità. Certo, l e t e r n i t à  è un concetto a fondamento del quale

non vi è alcuna intuizione; è ha anche, per questo, un contenuto

puramente negativo, vale a dire che significa unesistenza senza

tempo. Tuttavia il tempo è una mera immagine delleternità era immagine

del nostro essere in sè. Questultimo deve trovarsi nelleternità,

proprio perchè il tempo e solo la forma del nostro conoscere; ma

e solamente in virtù di essa che noi conosciamo la nostra essenza

e quella di tutte le cose come un che di transitorio, finito e destinato

allannientamento.

……………………

Per la

conoscenza individuale, viceversa, vale a dire nel tempo, l i d e a

si presenta sotto la forma della s p e c i e , la quale non è che lidea

che, immettendosi nel tempo, si è dispiegata. Per questo la specie è dunque loggettivazione più immediata della cosa in sè, vale

a dire della volontà di vivere. Lessenza più profonda di ogni animale,

e anche delluomo, sta conseguentemente nella s p e c i e ; ed

è ancora in essa e non, propriamente, nellindividuo, che si radica

quella volontà di vivere che si agita così vigorosamente. Viceversa

la coscienza immediata si trova solamente nellindividuo: ecco

perchè simmagina di essere diverso dalla specie e, di conseguenza,

teme la morte.

La volontà di vivere si manifesta rispetto allindividuo

come fame e paura della morte, rispetto alla specie come

impulso sessuale e come cura appassionata della prole. In conformità

a ciò vediamo che la natura, in quanto e libera dallillusione

cui è assoggettato lindividuo, è tanto attenta alla conservazione

della specie quanto indifferente alla morte degli individui: questi

sono per lei sempre e solo i mezzi, quella lo scopo.

…………………….

 

Se adesso diamo ancora uno sguardo alla scala degli esseri, dai

polipi alluomo, e ai gradi di coscienza che li accompagnano, allora

vediamo che questa meravigliosa piramide viene si tenuta in una

condizione di incessante oscillazione dalla continua morte degli

individui, è tuttavia, per mezzo del legame della generazione, permane

nella specie attraversando linfinita del tempo. Ora, mentre,

come si e spiegato sopra, l o g g e t t i v o , la specie, si manifesta

come indistruttibile, il s o g g e t t i v o , che sussiste solo nellautocoscienza

di questi esseri, sembra avere una durata brevissima e

venire incessantemente distrutto precisamente per riemergere altrettante

volte, in modo incomprensibile, dal niente. Bisogna però

avere davvero la vista molto corta per lasciarsi ingannare da questa

apparenza e non comprendere che, sebbene la forma della durata

temporale competa solo alloggettivo, il  soggettivo vale a dire

la v o l o n t à , la quale vive e si manifesta nel tutto, e con essa il

soggetto del c o n o s c e r e , nel quale essa si mostra devessere

non meno indistruttibile di quello; infatti la durata delloggettivo,

ossia dellesteriore, può essere solo la manifestazione fenomenica

dellindistruttibilità del soggettivo, dellinteriore, dal momento

che loggettivo non può possedere nulla che non abbia ricevuto in

prestito dal soggettivo; non ci può essere pero essenzialmente e

originariamente un che di oggettivo, un fenomeno, e poi secondariamente

e accidentalmente un che di soggettivo, una cosa in sè,

unautocoscienza.

………………..

In fondo pero noi siamo

una cosa sola con il mondo assai più di quanto comunemente

pensiamo: la sua essenza profonda è la nostra volontà; la sua manifestazione

fenomenica è la nostra rappresentazione. Se fossimo

in grado di avere una chiara coscienza di questa unità vedremmo

scomparire la differenza tra il persistere del mondo esterno dopo

che siamo scomparsi e il nostro persistere dopo la morte: luno e

laltro ci si presenterebbero come una sola e medesima cosa, anzi,

non potremmo che ridere dellillusione che potessero essere separati.

La comprensione dellindistruttibilità del nostro essere coincide

infatti con quella dellidentità tra macrocosmo e microcosmo

 

………………………

sorge allora in noi il sentimento che il mondo non è meno in noi di quanto noi siamo in esso, e che la fonte di ogni

realtà si trova nel profondo di noi stessi. Il risultato è propriamente

questo: il tempo nel quale io non sarò giungerà oggettivamente;

soggettivamente, invece, non potrà mai arrivare.

 

***

Una persona ragionevole,

infatti, può pensarsi imperituro solo in quanto si pensi come privo

dinizio, eterno, in senso proprio come sottratto al tempo. Chi

viceversa ritenga di essere scaturito dal nulla deve anche pensare

che farà ritorno nel nulla, giacchè che sia trascorsa uneternità prima

che egli cominciasse a essere e che poi però ne debba iniziare

una seconda nel corso della quale egli non cesserà mai di essere è

unidea mostruosa.

………………….

Chi però

ritiene che la nascita sia linizio assoluto delluomo deve anche considerare

la morte come la fine assoluta. Luna e laltra infatti sono

ciò che sono nello stesso senso: ciascuno, conseguentemente, può ritenersi immortale solo in quanto si ritiene anche ingenerato, è nello stesso senso. Quel che  è la nascita nella sua essenza

e nel suo significato, lo è anche la morte: esse sono la stessa linea

tracciata in due direzioni diverse. Se la nascita è effettivamente

uno scaturire dal nulla, allora anche la morte sarà effettivamente

un annientamento. In verità, tuttavia, è solo grazie alleternità della nostra essenza autentica che riusciamo a pensare alla

nostra immortalità; questultima, perciò, non è nulla di temporale.

Lipotesi che luomo sia creato dal nulla conduce di necessità a

quella che la morte sia la sua fine assoluta. LAntico Testamento e

qui dunque perfettamente consequenziale, giacchè non ce dottrina

dellimmortalità che sia compatibile con lidea di una nascita

dal nulla.

………………….

Bramanesimo e buddismo,

viceversa, insieme alla sopravvivenza dopo la morte ammettono

in modo del tutto coerente anche unesistenza precedente la nascita,

per espiare le colpe della quale esiste questa vita.

……………………

Chi concepisce la propria esistenza come un che di meramente

accidentale dovrà certamente temere di perderla con la morte.

Chi viceversa si rende conto, anche solo in generale, che tale esistenza

dipende da una sorta di necessità originaria non crederà

che questultima, che ha prodotto qualcosa di così meraviglioso,

sia limitata a un così breve lasso di tempo, e riterrà invece che essa

agisca in ogni tempo. Riconosceremo pero la nostra esistenza come

qualcosa di necessario se rifletteremo sul fatto che, nonostante sino

a questo momento, in cui esistiamo, sia già trascorso un tempo

infinito e si sia perciò verificata anche uninfinità di mutamenti,

noi ciononostante senza dubbio esistiamo: lintera successione di

tutti gli stati possibili si è dunque già esaurita, senza che ciò abbia

potuto sopprimere la nostra esistenza. S e potessimo mai diventare niente, allora saremmo già niente.

Linfinità del tempo già trascorso, con lesaurimento della possibilità

dei suoi eventi, garantisce che ciò che esiste, esiste necessariamente. Ciascuno deve perciò concepire sè stesso

come un essere necessario, vale a dire come un essere dalla cui vera

ed esaustiva definizione, se la possedessimo, potremmo ricavare

lesistenza. In questo ragionamento risiede in effetti la sola prova

immanente vale a dire la sola prova che si mantenga nellambito

dei dati empirici delleternità del nostro essere autentico.

………..

Dal fatto che adesso esistiamo segue,

ove si rifletta con attenzione, che dobbiamo esistere sempre.

Siamo infatti proprio noi lessere che il tempo ha accolto in

se per colmare il suo vuoto: esso riempie appunto perciò  t u t t o

il tempo, riempie presente, passato e futuro allo stesso modo, ed

è perciò tanto impossibile che fuoriusciamo dallesistenza quanto

lo sarebbe cadere al di fuori dello spazio.

Se consideriamo attentamente

la questione, è impensabile che ciò che esiste una volta

con tutta la forza della realtà effettiva possa mai diventare niente

e poi non esistere più per un tempo infinito. Sono sorte da qui

la dottrina cristiana della resurrezione di tutte le cose, la dottrina

indù della perpetua creazione del mondo da parte di Brahma, come

anche gli analoghi dogmi dei filosofi greci.

 Il grande mistero

del nostro essere e non-essere, per svelare il quale sono stati escogitati

questi dogmi e tutti quelli affini, dipende in ultima analisi

dal fatto che il medesimo, che oggettivamente costituisce una serie

temporale infinita, soggettivamente è un punto, unattualità

indivisibile sempre presente: ma chi se ne rende conto? A esporlo

nel modo più chiaro e stato Ka n t , con la sua immortale dottrina

del carattere ideale del tempo e della realtà esclusiva della cosa

in sè. Da essa risulta infatti che lessenza autentica delle cose,

delluomo, del mondo si trova permanentemente e durevolmente

nel Nunc stans, stabile e immobile; e che il mutamento dei fenomeni

e degli eventi è una mera conseguenza del nostro modo di

cogliere quellessenza per mezzo del tempo, che è una forma della

nostra intuizione.

 Per questo, invece di dire agli uomini: Siete

comparsi con la nascita, ma siete immortali, si dovrebbe dire loro:

Voi non siete niente, e insegnar loro a comprendere questa

affermazione nel senso della massima, attribuita a Ermete Trismegisto,

che dice: tò g£r Ôn ¢eˆ œstai (Cio che è, infatti, sarà sempre). Se però, così facendo, non ci si riesce,

e il cuore angustiato intona il suo antico lamento: Io vedo tutti gli

esseri scaturire alla nascita  dal niente e ritornare nel niente dopo

un breve lasso di tempo; anche la mia esistenza, che ora è nel presente, sarà presto in un passato remoto e io sarò diventato niente!

allora la risposta giusta e: Non esisti? Non hai in te stesso, ora

e realmente in te stesso, quel prezioso presente al quale tutti voi,

figli del tempo, aspirate cosi avidamente? E comprendi come ci sei

arrivato? E conosci le vie che ti hanno condotto ad esso, tanto da

riuscire a vedere che esse ti verranno sbarrate dalla morte? Unesistenza

del tuo io dopo la distruzione del tuo corpo è una possibilità

che trovi inconcepibile: ma è forse più inconcepibile della tua esistenza

presente e del modo in cui sei giunto ad essa? Perchè dovresti

dubitare che le vie misteriose che si sono aperte consentendoti

di giungere a questo presente non rimarranno aperte per te anche

in ogni futuro presente?

Sebbene dunque considerazioni di questo genere siano certamente

adatte a risvegliare la persuasione che in noi cè qualcosa

che la morte non può distruggere, ciò può tuttavia accadere solo a

condizione che ci si sappia elevare a un punto di vista per il quale

la nascita non sia linizio della nostra esistenza. Di qui segue però

che vi è sì qualcosa che non può essere distrutto dalla morte, ma

che esso non è propriamente lindividuo, il quale per giunta è nato

attraverso la procreazione e, portando in sè le caratteristiche

del padre e della madre, si presenta come un mero differenziarsi

della specie e, in quanto tale, può avere unesistenza solo finita.

Come, conformemente a ciò, lindividuo non ha alcun ricordo della

propria esistenza antecedente la nascita, cosi, dopo la morte,

non potrà averne nessuno della propria esistenza presente. E pero

nella c o s c i e n z a che ciascuno colloca il proprio io: esso gli appare

perciò legato allindividualità, con la quale soccombe anche

tutto ciò che lo caratterizza come tale e che lo distingue dagli altri.

La sua sopravvivenza priva dellindividualità diventa indistinguibile

dal continuare a sussistere degli altri esseri, ed egli vede il proprio

io sprofondare. Ora, chi tuttavia collega la propria esistenza

allidentità della c o s c i e n z a e pretende perciò che essa sopravviva

allinfinito dopo la morte, dovrebbe riflettere intorno alla circostanza

che in ogni caso essa potrebbe essere ottenuta solo al

prezzo di un passato altrettanto infinito prima della nascita.

………………….

In effetti, però, è nella

parola io che si cela lequivoco più grande, come riconoscerà

senzaltro chi abbia presente il contenuto del nostro secondo libro

e la separazione proposta in quella sede tra la parte volente e la

parte conoscente del nostro essere. A seconda di come intendo

questa parola, posso dire: La morte è la mia fine completa, oppure

anche: Io sono una parte infinitamente piccola del mondo;

questa manifestazione fenomenica che costituisce la mia individualità

è una parte altrettanto piccola del mio vero essere. Lio

pero è il punto oscuro nella coscienza, cosi come il punto preciso

in cui il nervo ottico sinserisce nella retina è cieco, come il cervello

è di per sè del tutto privo di sensibilità, come il corpo del sole

è oscuro, e come locchio vede tutto, tranne solo se stesso. La nostra

facoltà conoscitiva è diretta tutta verso l e s t e r n o , coerentemente

al fatto che essa è il prodotto di una funzione cerebrale

sorta unicamente allo scopo dellautoconservazione, ossia per la

ricerca del nutrimento e per la cattura della preda. Ciascuno perciò

conosce se stesso solo come questo individuo determinato, così

come si rappresenta nellintuizione esterna. Se invece potesse

avere coscienza di ciò che egli è oltre e al di fuori di questo, lascerebbe

volentieri andare la propria individualità, riderebbe della

tenacia con la quale è attaccato ad essa, e direbbe: Che mimporta

della perdita di questa individualità, dato che io porto dentro

di me la possibilità di innumerevoli individualità? Comprenderebbe

che, sebbene non ci sia ad attenderlo una sopravvivenza della

sua individualità, nondimeno è proprio come se lavesse ugualmente,

poichè ha dentro di sè qualcosa che la compensa alla perfezione.

Anzi, se già la rigida immutabilità

e lessenziale limitatezza di ogni individualità avessero, come tali,

una durata infinita, dovrebbero da ultimo produrre, in ragione

della loro monotonia, una nausea tale che, pur di liberarcene, saremmo disposti volentieri a diventare nulla. Pretendere limmortalità

dellindividualita significa propriamente voler perpetuare

allinfinito un errore. Questo perchè in fondo ogni individualità e

appunto solo un errore particolare, un passo falso, qualcosa che

sarebbe meglio non ci fosse; anzi, qualcosa allontanarci dalla quale

è il vero e proprio scopo della vita. Ciò trova conferma anche

nel fatto che la maggior parte, anzi, propriamente, tutti gli uomini

sono fatti in modo tale che, in qualsiasi mondo li si volesse trasferire,

non riuscirebbero comunque a essere felici. Questo perchè

nella misura in cui un mondo di tal fatta escludesse da sè il bisogno

e le disgrazie, essi diverrebbero preda della noia e, nella misura

in cui fossero al riparo da questultima, cadrebbero nel bisogno,

nella pena e nella sofferenza. Per garantire alluomo una condizione

di felicita non sarebbe dunque in alcun modo sufficiente

che lo si trasferisse in un mondo migliore, ma sarebbe necessario

che in lui si verificasse anche una trasformazione radicale; vale

a dire che luomo non dovrebbe essere più ciò che è e dovrebbe

diventare invece ciò che non è. A questo scopo, tuttavia, egli dovrebbe

anzitutto smettere di essere ciò che è: questa esigenza viene

soddisfatta provvisoriamente dalla morte, della quale, da questo

punto di vista, si può già avvertire la necessità morale. Essere trasferiti

in un altro mondo e trasformare tutto il proprio essere sono,

in fondo, una sola e medesima cosa.

………………….

Ora pero, dopo che la morte ha posto

fine una buona volta alla coscienza individuale, ci sarebbe anche

solo da augurarsi che essa venisse riaccesa per poter continuare

allinfinito? Il suo contenuto è per la maggior parte, anzi, il più

delle volte per intero, nullaltro che un flusso di pensieri meschini, terreni, miseri e di infinite preoccupazioni: lasciate una buona volta

che si acquietino!

 Avevano perciò buon senso gli antichi, quando

incidevano sulle loro pietre tombali: Securitati perpetuae, o

bonae quieti(Alleterna sicurezza, o alla buona quiete)

…………………

La risposta più esauriente alla domanda relativa alla permanenza

dellindividuo dopo la morte si trova nella grande dottrina kantiana della idealità del tempo, la quale proprio a questo

proposito si dimostra particolarmente feconda e ricca di conseguenze,

in quanto sostituisce una prospettiva puramente teoretica, ma

ben dimostrata, a dogmi che, per una via o per laltra, conducono

allassurdo, ed elimina con un colpo solo la più inquietante fra

tutte le domande metafisiche. Incominciare, finire e durare sono

concetti che prendono a prestito il loro significato solo ed esclusivamente

dal tempo, e di conseguenza valgono solo ove si presupponga

questultimo. Solo che il tempo non ha unesistenza assoluta,

non è la modalità dellessere in sè delle | cose, ma semplicemente

la forma della nostra c o n o s c e n z a che abbiamo dellesistenza

e dellessenza di noi stessi e di tutte le cose, conoscenza che proprio

per questo e molto imperfetta ed e confinata entro lambito

dei meri fenomeni. E dunque solo in riferimento a questi ultimi

che trovano applicazione i concetti del cessare e del durare, non in

riferimento a ciò che in essi si rappresenta, allessenza in sè delle

cose, applicati alla quale quei concetti non hanno perciò più alcun

vero  senso. Questo lo prova anche il fatto che  è impossibile dare

una risposta alla domanda che proviene da quei concetti di tempo,

e a ogni affermazione con la quale si cerchi, in un senso o nellaltro,

i darne una possono essere mosse obiezioni convincenti.

………

Lessere

in sè non viene dunque infastidito dalla fine temporale di un

fenomeno temporale e conserva sempre quellesistenza alla quale

i concetti di inizio, fine e durata non sono applicabili. Tale essere

in sè, pero, per quel che siamo in grado di seguirlo è, in ogni essere

che si manifesta fenomenicamente, la volontà stessa; e questo

vale anche per luomo. La coscienza consiste invece nel conoscere;

ma il conoscere, come è stato dimostrato a sufficienza, in quanto

attività del cervello e quindi in quanto funzione dellorganismo,

riguarda il mero fenomeno e perciò finisce con esso: solamente la

volontà della quale il corpo è lopera o, piuttosto, limmagine

non può essere distrutta.

..

Tutti i filosofi hanno commesso lerrore

di collocare nell i n t e l l e t t o ciò che vi è nelluomo di metafisico,

ciò che non può essere distrutto, che è eterno: esso si trova

esclusivamente nella v o l o n t à , la quale è completamente diversa

dallintelletto ed è la sola realtà originaria. Lintelletto è un

fenomeno secondario e condizionato dal cervello, ragion per cui incomincia

e finisce con esso. Solamente la volontà e il condizionante,

il nocciolo del fenomeno nella sua interezza, ed è, di conseguenza,

libera dalle forme di questultimo, alle quali appartiene il tempo, e

dunque non può essere distrutta. Con la morte, di conseguenza, va

effettivamente perduta la coscienza, ma non ciò che ha prodotto e

mantenuto la coscienza: la vita si spegne, ma con essa non si spegne

il principio della vita che in essa si manifesta.E dunque per questo

che ciascuno di noi sente con sicurezza che dentro di sè cè qualcosa

di assolutamente imperituro e indistruttibile.

……..

non si è mai riuscito a chiarire che cosa sia questa realtà imperitura.

Non si tratta della coscienza, e tanto meno del corpo, dal quale

la coscienza manifestamente dipende. Si tratta piuttosto di ciò da

cui il corpo, insieme alla coscienza, dipende. Questo però è proprio

ciò che, quando fa il suo ingresso nella coscienza, si presenta come

volontà . Al di là di questa, che è la manifestazione fenomenica

più immediata della volontà, è fuori discussione che non possiamo

andare, giacchè non possiamo andare al di là della coscienza: perciò

la domanda che chiede che cosa mai possa essere quel qualcosa

quando non fa il suo ingresso nella coscienza, vale a dire che

cosa questo qualcosa possa essere assolutamente è in sè stesso, e

una domanda che rimane senza risposta.

Nel fenomeno e attraverso le sue forme, tempo e spazio, che costituiscono

il principium individuationis, le cose stanno così: lindividuo

umano trapassa, il genere umano, viceversa, permane e vive

stabilmente. Solo che nellessere in sè delle cose, che è libero da

queste forme, viene a cadere completamente anche la differenza

tra lindividuo e la specie, e luno e laltra sono immediatamente

una sola cosa. La volontà di vivere è presente tutta intera nellindividuo

come nella specie, e perciò la continuazione della specie

e semplicemente limmagine dellindistruttibilità dellindividuo

La generazuione. Questo processo infatti, che è tanto misterioso

quanto quello della morte Ora, pero, dal lato della

volontà, noi sappiamo, grazie allautocoscienza, che il prodursi

di questorganismo è lopera di un atto che e lesatto opposto di

ogni riflessione, lopera di un impulso impetuoso, cieco, lopera di

unesuberante sensazione voluttuosa. Questa contrapposizione e

puntualmente affine allinterminabile contrasto, che è stato dimostrato

sopra, tra lassoluta facilità con la quale la natura produce

le sue opere, accompagnata dalla corrispondente sconfinata noncuranza

con la quale abbandona queste ultime allannientamento

da un lato, e dallaltro la costruzione incalcolabilmente ingegnosa

e ben ponderata di queste stesse opere, a giudicare dalla quale

esse dovrebbero essere state infinitamente difficili a farsi, si che

la natura dovrebbe vigilare sulla loro conservazione con ogni cura

possibile e immaginabile, mentre noi abbiamo sotto gli occhi il

contrario.

Ora, dopo che, grazie a questa considerazione certamente

molto inusuale, abbiamo condotto luna di fronte allaltra,

nel modo più brusco, le due parti eterogenee del mondo e le abbiamo,

per dir così, strette in u n s o l o pugno, dobbiamo adesso

tenerle  ben strette per convincerci che le leggi del fenomeno,

o del mondo come rappresentazione, non hanno alcun valore nel

mondo della volontà, nel mondo della cosa in sè. Ci renderemo

allora meglio conto che, mentre dal lato della rappresentazione,

vale a dire nel mondo fenomenico, ci si presenta ora un originarsi dal nulla, ora un annientamento completo di ciò che si è prodotto,

dallaltro lato, ossia in sè, ci sta dinanzi un essere al quale non

ha proprio alcun senso lapplicazione dei concetti di originarsi e

perire. Proprio adesso, infatti, ritornando al punto radicale in cui,

mediante lautocoscienza, il fenomeno e lessere in sè coincidono,

abbiamo quasi toccato con mano che i due sono del tutto incommensurabili,

e che lintero modo di essere delluno, insieme a tutte

le leggi fondamentali di questo essere, nellaltro significa nulla

è meno di nulla. Io credo che questultima considerazione sarà

compresa correttamente solo da pochi, e che riuscirà sgradevole e

persino indecente a tutti coloro i quali non la comprendono; non

per questo, tuttavia, tralascerò qualcosa che possa servire a spiegare

i miei pensieri fondamentali.

.

La volontà, che costituisce il nostro essere in sè, ha una natura semplice:

vuole solamente, e non conosce niente. Il soggetto del conoscere

è invece un fenomeno secondario, prodotto dalloggettivazione

della volontà: e il punto di unificazione della sensibilità del sistema

nervoso, il fuoco potremmo dire nel quale convergono  i raggi

dellattività di tutte le parti del cervello. Deve dunque perire insieme

a questultimo. Nellautocoscienza esso, in quanto è lunico

principio conoscente, si trova di fronte alla volontà come suo spettatore

e, sebbene sia sbocciato da essa, la riconosce tuttavia come

qualcosa di diverso da sè, come una realtà estranea, e dunque solo

empiricamente, nel tempo, frammentariamente, nel susseguirsi

dei suoi impulsi e dei suoi atti, e viene a conoscenza delle sue decisioni

solo a posteriori, e spesso in modo molto indiretto. Si spiega così perchè il nostro proprio essere sia per noi, vale a dire per

il nostro intelletto, un enigma, e perchè lindividuo veda sè stesso

come una creatura nuova e come perituro, sebbene il suo essere in

se sia sottratto al tempo, e dunque eterno. Ora, come la volontà

non c o n o s c e , così, per converso, lintelletto, o il soggetto della

conoscenza, può solo c o n o s c e r e , ma non può in alcun modo

volere.

…………………..

Lintelletto, come il mondo intuitivo che esiste solamente in esso,

è mero fenomeno; ma la finitezza delluno e dellaltro non intacca

ciò di cui essi sono il fenomeno. Lintelletto e funzione del sistema

nervoso cerebrale; ma questultimo, come il resto del corpo, e

loggettiva della volontà. Lintelletto dipende perciò dalla vita

corporea dellorganismo; questultimo dipende pero a sua volta dalla

volontà. Il corpo organico può dunque in un certo senso essere

considerato come lintermediario tra la volontà e lintelletto, sebbene

esso sia propriamente solo la volontà stessa che si rappresenta

spazialmente nellintuizione dellintelletto. Morte e nascita sono

il continuo | rinnovamento della coscienza della volontà, la quale

in sè è senza fine e senza principio e che è la sola che costituisce,

per così dire, la sostanza dellesistenza (un rinnovamento di questo

genere porta pero con sè ogni volta una nuova possibilità di negazione

della volontà di vivere). La coscienza è la vita del soggetto

del conoscere, o del cervello, e la morte la sua fine. Per questo la coscienza è finita, sempre nuova, e incomincia ogni volta daccapo.

La volontà solamente permane; daltra parte è solo ad essa che

il permanere sta a cuore, poichè essa è la volontà di vivere. Al soggetto

conoscente di per sè non sta a cuore nulla. E tuttavia luna e

laltro sono congiunti nellio.

In ogni essere animale la volontà ha

acquisito un intelletto, il quale è la luce con cui essa persegue i propri

scopi.

………………..

Se perciò la

realtà autentica non stesse nella volontà e se quella che si estende

al di là della morte non fosse lesistenza morale , allora, dato

che lintelletto, e il suo mondo con esso, si spegne, lessenza delle

cose in generale non sarebbe altro che una successione infinita

di sogni brevi e foschi, privi di connessione reciproca: la permanenza

della natura priva di conoscenza, infatti, sussiste solamente

nella rappresentazione temporale di quella conoscente. Il tutto

verrebbe allora a coincidere con uno spirito del mondo che per lo

più sogna sogni assai foschi e opprimenti, senza fine e senza scopo.

Ora, quando un individuo sperimenta la paura della morte, si

verifica propriamente uno strano, anzi, ridicolo spettacolo in cui il signore dei mondi, che con il suo essere riempie il tutto, e grazie

al quale solamente tutto ciò che è ha la propria esistenza, si perde

danimo e teme di perire, di sprofondare nellabisso del Nulla

eterno; laddove, in verità, il tutto è pieno di lui e non si dà alcun

luogo nel quale egli non sia, alcun essere nel quale egli non viva,

dato che non è lesistenza a sostenerlo, ma è invece lui a sostenere

lesistenza. Eppure  è lui che si perde danimo nellindividuo tormentato

dallangoscia della morte, e ciò perchè subisce linganno

prodotto dal principium individuationis, che gli fa credere che la

sua esistenza sia limitata a quella dellessere che ora sta morendo:

questo inganno fa parte del sogno straziante del quale è divenuto

preda in quanto volontà di vivere. Ma a colui che sta morendo

si potrebbe dire: Tu stai cessando di essere qualcosa che avresti

fatto meglio a non diventare maiSino a quando non si verifica alcuna negazione di quella volontà,

quel che di noi la morte lascia indietro è il germe e il nocciolo di

unesistenza del tutto diversa, nella quale si ritrova un nuovo individuo,

così fresco e originario che si mette stupito a meditare su

sè stesso. Di qui la propensione a entusiasmarsi e a sognare che è

tipica dei giovani nobili nel tempo in cui questa coscienza fresca si

è sviluppata compiutamente. Quel che il sonno è per lindividuo, la

morte lo è per la volontà come cosa in sè. Per questultima sarebbe

insopportabile continuare allinfinito, senza vero profitto, con le

stesse azioni e le stesse sofferenze, se le rimanesse il ricordo e lindividualità.

Essa se ne sbarazza è questo il Lete e, rigenerata

dal sonno della morte e dotata di un altro intelletto, si ripresenta

come un nuovo essere: A nuove rive invita un giorno nuovo (Zu neuen Ufern lockt ein neuer Tag - Goethe, Faust, I,) .

In quanto volontà di vivere che afferma sè stessa, luomo ha la

radice della propria esistenza nella specie. Per questo la morte è

dunque la perdita di unindividualità e lacquisizione di unaltra,

e conseguentemente è una trasformazione dellindividualità sotto

la | guida esclusiva della propria volontà. Solamente in essa, infatti,

si trova la forza eterna che è stata in grado di produrre la sua

esistenza con il suo io, ma che, in considerazione della natura di

questultimo, non è in grado di mantenervelo. Giacche la morte e

il dementi (smentita) che lessenza (essentia) di ciascuno riceve nel suo pretendere allesistenza (existentia), il prodursi di una contraddizione

che si trova in ogni esistenza individuale:

Giacchè nulla

ce che nasca e non meriti

di finire disfatto (Denn alles, was entsteht, | ist wert, das nichts entstunde Goethe, Faust,) .

Tuttavia questa stessa forza, ossia la volontà, ha a disposizione

un numero infinito proprio di queste esistenze, ciascuna con

il proprio io, le quali pero diverranno a loro volta altrettanto vane

e transitorie. Ora, dato che ciascun io ha la propria coscienza

separata, quellinfinità di coscienze, in riferimento ad esso, non

è diversa da una sola di esse.

 Da questo punto di vista non mi

sembra casuale che aevum , a„èn, significhi insieme sia la durata

di una vita individuale sia un tempo infinito: di qui si può dunque

intuire, sia pure indistintamente, che in sè e in ultima analisi

si tratta della stessa cosa; ragion per cui, propriamente, non cè

alcuna differenza che io esista solo per la durata della mia vita, o

che esista per un tempo infinito.

…………….

Non cè dubbio però che non possiamo raggiungere una rappresentazione

compiuta di tutto quel che sè detto prescindendo del

tutto dai concetti di tempo; eppure quando ci si occupa della cosa

in sè, essi dovrebbero essere esclusi. Solo che uno dei limiti insuperabili

del nostro intelletto consiste nellimpossibilità di spogliarsi

del tutto di questa, che è la prima e la più immediata forma di

tutte le sue rappresentazioni, per poter operare poi senza di essa.

Perciò noi ci imbattiamo qui certamente in una sorta di metempsicosi,

pur con la notevole differenza che essa non riguarda la yuc»

nella sua interezza, ossia lessere c o n o s c e n t e , bensì solamente

la v o l o n t à; scompaiono in questo modo così tante assurdità che

accompagnano la dottrina della metempsicosi, e abbiamo inoltre coscienza

del fatto che la forma del tempo interviene qui solo in quanto

inevitabile adeguamento alla limitatezza del nostro intelletto.

…………

La morte è il grande ammonimento che la volontà di vivere, e più

esattamente legoismo che ad essa è essenziale, ricevono dal corso

della natura, e la si può concepire come una punizione per la nostra

esistenza. Essa è lo scioglimento

doloroso del nodo che la generazione

aveva stretto con la voluttà e

la distruzione violenta, che irrompe dallesterno, dellerrore fondamentale

del nostro essere: la grande disillusione. Siamo, in fondo,

qualcosa che non dovrebbe esistere: per questo cessiamo di essere.

Legoismo consiste propriamente nel fatto che luomo circoscrive

ogni realtà alla sua propria persona, in quanto simmagina di esistere

solamente in essa e non nelle altre. La morte gli impartisce la lezione

migliore, in quanto sopprime questa sua persona, così che lessenza

delluomo, che e la sua volontà, dora in avanti vive solo in altri in dividui, mentre il suo intelletto, che apparteneva solo al fenomeno,

vale a dire al mondo come rappresentazione, ed era la mera forma

del mondo esterno, continua a esistere ancora appunto nellessere

rappresentativo, vale a dire nellessere o g g e t t i v o delle cose i n

q u a n t o  t a l i ; quindi, parimenti, solo nellesistenza di quello che

è oggi il mondo esterno. Tutto il suo io vive dunque dora in avanti

solo in ciò che egli ha sinora considerato come non-io, giacchè viene

a mancare la differenza tra esterno  e interno.

………….

Segue da quanto sopra che il grado secondo il quale la morte può

essere considerata come lannientamento delluomo e proporzionale

allentità di questa differenza. Se noi però prendiamo le mosse dal

fatto che la differenza tra fuori-di-me e in-me, in quanto è una differenza

spaziale, ha un fondamento solo nel fenomeno e non nella

cosa in sè, e che dunque non è in alcun modo reale, allora nella privazione

della nostra individualità personale vedremo solo la perdita

di un fenomeno, ossia una perdita soltanto apparente. Per quanta

realtà quella differenza possa anche avere nella coscienza empirica,

ciononostante, da un punto di vista metafisico, gli asserti che

dicono Io perisco, ma il mondo perdura, e Il mondo perisce,

ma io perduro non sono, nella sostanza, autenticamente diversi.

Oltre a tutto questo, però, la morte e la grande occasione di

non essere più io: beato colui che ne approfitta! Durante la vita

la volontà delluomo e priva di liberta: sulla base del suo carattere

immutabile, il suo agire si sviluppa secondo necessità seguendo

la concatenazione dei motivi. Ora, però, ciascuno conserva nella

propria memoria davvero molte cose che ha fatto e delle quali e

insoddisfatto. Supponiamo che egli continui a vivere per sempre:

in questo caso, in forza dellimmodificabilità del carattere, si troverebbe

anche a continuare ad agire sempre nello stesso modo.

Egli, di conseguenza, deve cessare di essere ciò che è, per poter

rinascere rinnovato e diverso dal germe del suo essere. La morte

scioglie perciò quei legami, e la volontà torna a essere libera; e

infatti nellesse, non nelloperari che si trova la libertà: Findi tur nodus cordis, dissolvuntur omnes dubitationes, ejusque opera

evanescunt (Si spezza il nodo del cuore, si sciolgono tutti i dubbi, si dissolvono tutte le azioni Mundaka Upaniad, 2, 2, 8, in Upaniad  è un detto assai famoso dei Veda, che tutti i Vedanti ripetono frequentemente.

Quello del morire è listante in cui ci

si libera dallunilateralità di unindividualità  che non costituisce

il nucleo più profondo del nostro essere, ma che deve piuttosto essere

considerata come una sorta di aberrazione di esso: la libertà

vera, originaria, fà nuovamente la sua comparsa in questo istante,

il quale, nel senso chiarito, può essere considerato come una restitutio

in integrum. Sembrano derivare da questo la pace e la tranquillità

che si riscontrano sul volto della maggior parte dei defunti.

Tranquilla e serena è, di regola, la morte di ogni brava persona;

ma morire di buon grado, aver piacere di morire, morire con gioia

è privilegio del rassegnato, di colui che rinuncia e dice no alla

volontà di vivere. Solo costui, infatti, vuole morire d a v v e r o , e

non in modo meramente a p p a r e n t e , e, di conseguenza, non ha

bisogno e non chiede che la sua persona continui a vivere. Rinuncia

di buon grado allesistenza come la conosciamo noi: quel che

gli tocca in sorte in luogo di essa ai nostri occhi è  n u l l a , poichè

n u l l a  è  la nostra esistenza rispetto allaltra condizione. La fede

buddista la chiama Ni r v a n a , vale a dire estinzione.