La
devotio
“La devotio – è noto – era un antico istituto
romano nel quale un magistratus dotato di imperium militiae (consul, dux, praetor) – talvolta un privato
cittadino (civis designatus) scelto tra i legionari dell’exercitus sul campo di battaglia – dopo
essersi votato alle divinità infere e alla Terra, osservando minuziosamente un
rito codificato dalla “teologia pontificale” (LIV. VIII 9, 6-8), si lanciava tra le schiere nemiche, per trovarvi la
morte, al fine di garantire la vittoria alla propria parte e di salvare
l’integrità della res publica.
La tradizione attribuisce questo gesto a tre componenti della gens Decia: Publius Decius Mus al
Veseris (340 a.C.)[1], suo figlio a Sentinum
(295 a.C.[2]),
e suo nipote ad Ausculum (279 a.C.[3])
….Un voto, dunque, o un sacrificio? Né l’uno, né l’altro, invero, ma qualcosa
di assimilabile, nella forma, ad entrambi. Da un punto di vista tecnico,
infatti, il rituale deciano, più che al votum,
assomiglia alla preghiera ordinaria seguita dal sacrificio e pare fondarsi sul pactum stabilito fra l’uomo e la
divinità, volto a ristabilire e a mantenere la pax deorum: in particolare, la devotio sembra distinguersi dal votum in senso stretto poiché,
mentre in questo l’obbligo umano era condizionato all’esaudimento della
preghiera da parte della divinità, nel rito della devotio il sacrificio precedeva e
sollecitava l’intervento celeste. Nell’atto deciano si può registrare una forma
di “religione civica”: culto, anzitutto, adorazione in atto, servizio reso agli
dèi per riceverne in cambio (do ut des) la protezione della comunità.
Una religione votata al “sacrificio”, quindi, ma un
“sacrificio” per il “bene comune”….”
Da “Devotio” Aspetti storico-religiosi di un
rito militare romano di Leonardo Sacco
Tito Livio Libro VIII nn. 9-10
9 I consoli romani offrirono sacrifici
prima di guidare le loro truppe all'assalto. A quanto si racconta, l'aruspice
avrebbe fatto notare a Decio che il fegato era inciso nella parte famigliare,
ma che la vittima era ugualmente gradita agli dèi e che Manlio aveva ottenuto
auspici quanto mai favorevoli. «Allora sta bene», disse Decio «il collega ha
ricevuto dei segni favorevoli». Nella formazione già descritta, i Romani
avanzarono sul campo di battaglia. Manlio guidava l'ala destra, Decio la
sinistra. All'inizio le forze e l'ardore dei combattenti erano uguali da
entrambe le parti. Ma dopo qualche tempo gli hastati romani, non riuscendo a
reggere la pressione dei Latini, dovettero riparare tra i principes. In questo
momento di smarrimento, il console Decio chiamò Marco Valerio a gran voce e gli
gridò: «Abbiamo bisogno dell'aiuto degli dèi, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del
popolo romano, dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita
in sacrificio per salvare le legioni». Il
pontefice gli ordinò di indossare la toga pretesta, di coprirsi il capo e,
toccandosi il mento con una mano fatta uscire da sotto la toga, di pronunciare
le seguenti parole, ritto, con i piedi su un giavellotto: «Giano, Giove,
padre Marte, Quirino, Bellona, Lari, dèi Novensili, dèi Indigeti, dèi nelle cui
mani ci troviamo noi e i nostri nemici, dèi Mani, io vi invoco, vi imploro e vi
chiedo umilmente la grazia: concedete benigni ai Romani la vittoria e la forza
necessaria e gettate paura, terrore e morte tra i nemici del popolo romano e
dei Quiriti. Come ho dichiarato con le mie parole, così io agli dèi Mani e alla
Terra, per la repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l'esercito, per le
legioni e per le truppe ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, offro in voto
le legioni e le truppe ausiliarie del nemico insieme con me stesso»
Rivolta questa invocazione, ordinò ai
littori di recarsi da Tito Manlio e di annunciare quanto prima al suo collega
che egli si era offerto in sacrificio per il bene dell'esercito. Cintasi poi la toga con il cinto
gabino, saltò a cavallo con le armi in pugno e si gettò in mezzo ai nemici, apparendo a entrambi gli eserciti con
un aspetto ben più maestoso di quello umano, come fosse stato inviato dal cielo
per placare ogni ira degli dèi e allontanare dai compagni la disfatta rovinosa,
respingendola sui nemici. Fu per questo che il suo assalto seminò panico e
terrore nelle prime file dei Latini, arrivando poi a contagiare l'intero
esercito. Era evidentissimo che, dovunque si dirigesse in sella al suo cavallo,
lì i nemici si ritraevano spaventati come fossero stati colpiti da una meteora
letale. Ma quando poi cadde sommerso da una pioggia di frecce, da quel momento
non ci furono più dubbi sullo sbandamento delle coorti latine che si diedero
ovunque alla fuga, lasciando dietro di sé il deserto. Nello stesso istante i
Romani - liberati dal peso della superstizione -, come se solo allora fosse
stato dato il segnale, si lanciarono all'assalto, riaccendendo la mischia. ……
10. Mi sembra opportuno
aggiungere che il console, il dittatore o il pretore che offra in sacrificio le
legioni nemiche non deve necessariamente immolare se stesso, ma può scegliere
di offrire un cittadino incluso in una legione romana regolarmente arruolata e
scelto a suo piacimento. Se l'uomo che viene offerto muore, è segno che le cose
riusciranno per il meglio. Se invece non muore, allora una sua immagine viene
sotterrata a sette o più piedi di profondità nella terra, e viene offerta in
sacrificio una vittima espiatoria. E al magistrato romano non sarà consentito
di salire sopra il punto in cui l'immagine è stata sotterrata. Se poi vuole
offrire se stesso in voto, come fece Decio, e non muore, non può offrire
sacrifici di natura né pubblica né privata senza macchiarsi di una colpa, sia
che ricorra a una vittima, sia che si serva di un'altra offerta di suo
piacimento. Colui che si offre in voto ha il diritto di dedicare le proprie
armi a Vulcano o a qualunque altra divinità desideri. È considerata una
violazione sacrilega che il nemico si impossessi del giavellotto sul quale è
stato in piedi il console nell'atto di pronunciare la sua invocazione. Nel caso
in cui la cosa si verifichi, bisogna placare l'ira di Marte offrendo in
sacrificio una pecora, un maiale e un toro.
[1]
Nel corso della Battaglia del Vesuvio
avvenuta nel 340 a.c. tra Romani e Latini nel corso della guerra Latina 340-338 a.c.
[2]
Nel corso della Battaglia del Sentino, detta anche delle nazioni, nel 295 a.c.,
durante la Terza Guerra Sannitica che oppose Roma a un'alleanza avversa di
popolazioni, composta da Etruschi, Sanniti, Galli Senoni ed Umbri. I Romani
avevano come alleati i Piceni. Chiamata "Battaglia delle Nazioni
dell'antichità" perché tutte le popolazioni (nazioni) del centro Italia
furono coinvolte nello scontro, che decise le sorti di tutto quel territorio. In
questo caso i consoli che comandavano i
romani erano Quinto Fabio e Decio Mure (figlio dell’omonimo Decio Mure morto Nella battaglia del Vesuvio)
[3]
Nel corso della Battaglia di Ascoli Stariano nella guerra Romano Tarantina
contro Pirro. Anche in questo caso nell’esercito romano trovò la morte Publio
Decio Mure figlio e nipote dei due omonimi Mure morti rispettivamente nella Battaglia del Vesuvio ed in quella del
Sentino.