venerdì 8 dicembre 2017

Da Ghiaccio Nove di Kurt Vonnegut



Durante il mio viaggio a Ilium e oltre - una spedizione di due settimane che comprese anche il Natale - lasciai gratuitamente il mio appartamento di New York a un povero poeta che si chiamava Sherman Krebbs. La mia seconda moglie mi aveva lasciato dicendo che io ero troppo pessimista perché un’ottimista potesse vivere con me.
            Krebbs aveva la barba, era un Gesù biondoplatino dagli occhi di cocker spaniel.
            Non era un mio amico intimo. L’avevo conosciuto a un cocktail party, dove si era presentato come il presidente nazionale dell’Associazione dei poeti e dei pittori favorevoli a una immediata guerra atomica. 
Chiedeva un rifugio, non necessariamente a prova di bomba, e per caso io ne avevo uno.
            Quando, ancora vibrante per gli inquietanti sottintesi spirituali dell’angelo marmoreo di Ilium mai reclamato, ritornai nel mio appartamento, lo trovai rovinato da una corruzione nichilista. Krebbs se ne era andato; ma prima di andarsene aveva fatto telefonate interurbane per trecento dollari, aveva bruciacchiato il mio divano in cinque punti, aveva fatto morire il mio gatto e il mio albero di avocado, e aveva strappato lo sportello del mio armadietto del pronto soccorso.
            Aveva scritto questa poesia, con ciò che risultò essere sterco, sul pavimento di linoleum giallo della mia cucina:
           
             Ho una cucina.  
             Ma non è una cucina completa.  
             Non sarò veramente felice
             fino a che non avrò
             una sbrigaroba
              
            C’era un altro messaggio, scritto con il rossetto da una mano femminile, sulla tappezzeria sopra il mio letto. Diceva: “No, no, no, disse Pollicino”.

            C’era un biglietto che pendeva dal collo del mio gatto morto. 

C’era scritto; “Miao”. 

****

Verso la coda dell’aereo c’era un bar, e io mi rifugiai là per bere qualcosa. Fu là che incontrai un altro compatriota americano, H. Lowe Crosby di Evanston, Illinois, e sua moglie Hazel.
           
            Erano persone massicce, sulla cinquantina. Parlavano con un forte accento dialettale. Crosby mi disse che possedeva una fabbrica di biciclette a Chicago, e che non riceveva altro che ingratitudine dai suoi dipendenti. Stava per trasferire la ditta nella riconoscente San Lorenzo.
            “Conosce bene San Lorenzo?” chiesi.
            “Questa sarà la prima volta che la vedo, ma mi piace tutto quello che ne ho sentito dire” rispose H. Lowe Crosby. “Hanno la disciplina. Hanno qualcosa su cui si può far conto, da un anno all’altro. Non hanno un governo che incoraggia chiunque a diventare un originale pidocchio di cui nessuno ha mai sentito parlare.”
            “Prego?”
            “Cribbio, a Chicago non facciamo più biciclette. E tutto relazioni umane, adesso.
            Le teste d’uovo non fanno che pensare nuove maniere per rendere tutti felici.
            Nessuno può essere licenziato, qualsiasi cosa succeda; e se per caso qualcuno fabbrica una bicicletta, i sindacati ci accusano di pratiche crudeli e inumane e il governo confisca la bicicletta in conto tasse arretrate e la regala a un cieco dell’Afganistan.”
            “E lei crede che a San Lorenzo le cose andranno meglio?”

            “Lo so maledettamente bene, che andranno meglio! La gente, laggiù, è abbastanza povera e abbastanza spaventata e abbastanza ignorante da avere un po’ di senso comune!” 

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