da Essere senza destino
"In fin dei conti devi sapere per che cosa ti odiano", ha detto. Ha confessato che all'inizio non aveva assolutamente capito la questione ed era rimasta molto turbata nel vedersi disprezzata, "semplicemente perché sono ebrea": era stato lì che aveva provato per la prima volta che - è così che ha detto - qualcosa la separa dagli altri uomini e che appartiene a un luogo diverso. Dopo aveva cominciato a riflettere e aveva cercato di venirne a capo anche con l'aiuto di libri e discorsi, e aveva compreso che proprio per questo veniva odiata. perché è dell'avviso che " noi ebrei siamo diversi dagli altri", che questa diversità è l'essenziale e per questo gli ebrei vengono odiati dagli altri uomini. Ha anche aggiunto quanto sia singolare per lei vivere " nella coscienza di questa diversità", che a volte le fa provare una specie di orgoglio mentre altre volte prova, semmai, un senso di vergogna. Poi ha voluto sapere da noi cosa ne pensiamo della nostra diversità, se ne siamo orgogliosi o piuttosto ce ne vergogniamo. Sua sorella e Annamaria non sapevano bene. Anch'io, finora, non ho avuto motivo di provare questo genere di sentimenti. E in generale non trovo che si possa semplicemente determinare da soli questa diversità: dopotutto la stella gialla c'è proprio per questo, per quanto ne so io.
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E' stato in quel momento che non abbiamo potuto fare a meno di accorgerci, e questa volta seriamente, dell'odore. Sarebbe difficile descriverlo con precisione: dolciastro, appiccicoso, c'era dentro anche quella certa sostanza chimica che ormai conoscevamo, ma era talmente forte che già temevo che il pane descritto mi tornasse su in gola. Non ci è stato difficile constatare che la colpa era di un camino, sulla sinistra, in direzione della strada maestra ma molto più lontano. Era il camino di una fabbrica, lo vedemmo subito, ed è quanto la gente era venuta a sapere dal nostro sovrintendente. Più esattamente era di una fabbrica di pellami, e anche questo lo intuirono subito in molti. In effetti, mi tornò in mente che quando andavo con mio padre ad assistere di domenica alle partite di calcio a Ujpest, il tram passava davanti a una fabbrica di pelli e ogni volta dovevo tapparmi il naso. Del resto girava voce che a noi, per fortuna, non sarebbe toccato lavorare in quella fabbrica: se tutto andava bene, se non si fosse diffuso tra noi il tifo, la dissenteria o qualche altra epidemia, ben presto ci avrebbero fatto partire per un luogo più accogliente, così ci tranquillizzarono. Per questo non portavamo ancora il numero sui vestiti e nemmeno sulla pelle come il comandante del nostro blocco o Blockalteste, come ormai già lo chiamavamo. Tra l'altro, di questo fantomatico numero molti avevano avuto modo di convincersi coi propri occhi: veniva scritto sul polso, girava voce, con dell'inchiostro verde e poi veniva impresso in modo indelebile, veniva tatuato con la punta di un ago particolare, così dicevano. Più o meno allo stesso tempo mi è giunto all'orecchio il racconto dei volontari che erano andati a prendere la minestra. Anche loro avevano visto i numeri, in cucina, e anche in quel caso si trattava di detenuti di vecchia data, ed erano numeri impressi nella pelle. Ma sulle labbra di tutti correva la risposta data da un detenuto, quando uno dei nostri gli aveva domandato che cosa fosse quel numero, e tutti ne analizzavano il significato e la ripetevano continuamente. "Die Himmlische Telefonnummer" ovvero il numero di telefono del cielo.
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Perché io non lo avrei mai creduto, invece è un dato di fatto: non esiste luogo dove una condotta di vita ordinata, in un certo senso esemplare, direi addirittura virtuosa sia tanto importante quanto in prigionia. E sufficiente guardarsi intorno nella zona del Block I, dove alloggiano i vecchi del campo. Sul petto il triangolo giallo rivela l'essenziale, la "L" in esso contenuta aggiunge la circostanza che sono arrivati dalla lontana Lettonia, per essere precisi da Riga, come ho poi scoperto. Tra di loro incontri quegli strani esseri che all'inizio mi avevano persino un po' spaventato. A distanza sembrano tutti dei vegliardi, e con la testa incassata, il naso sporgente, la divisa che penzola sporca dalle spalle rattrappite, anche nei giorni più torridi dell'estate ricordano delle cornacchie infreddolite in inverno. Con ognuno dei loro passi rigidi, stentati, sembrano chiedere: ma vale ancora la pena di fare tutta questa fatica? Questi punti interrogativi viventi, per il loro aspetto esteriore, anzi, in un certo senso anche per il loro ingombro non potrei definirli diversamente, nel campo di concentramento vengono chiamati musulmani, come sono venuto a sapere. Bandi Citrom mi ha subito messo in guardia da loro: "Basta guardarli che ti passa la voglia di vivere", ha detto e in questo aveva ragione anche se col tempo sono poi giunto alla consapevolezza che: non basta, occorre ben altro ancora.
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. Per esempio, l'espressione "spoglie mortali", spesso sentita prima, secondo le mie conoscenze di un tempo poteva essere riferita esclusivamente a un morto. Io, invece, vivevo ancora, non vi era alcun dubbio, era un vivere stentato in un certo senso ridotto al minimo, eppure qualcosa ancora ardeva dentro di me, la fiamma della vita, come si usa dire, dall'altra parte c'era il mio corpo, sapevo tutto di lui solo che in un certo senso io non mi trovavo più lì dentro. Riuscivo senz'altro a rendermi conto che questa cosa, insieme ad altre cose simili accanto e sopra di essa, giaceva qui sulla paglia fredda e bagnata di umori sospetti, sopra il cassone traballante di un camion, che la fasciatura di carta si era disfatta, smembrata e strappata da un pezzo, che la mia camicia e i calzoni da detenuto che mi avevano infilato per il trasferimento si incollavano alle ferite aperte, ma tutto questo non mi toccava più, veramente, non mi interessava, non mi influenzava più, posso dire addirittura che da molto tempo non mi sentivo più così leggero, così in pace, come trasognato, diciamo pure: così bene. Dopo tanto tempo mi ero finalmente liberato del tormento che era quell'irritazione continua. I corpi schiacciati contro di me non mi davano più fastidio, semmai ero contento di averli accanto, che fossero tanto familiari e tanto simili al mio, e adesso per la prima volta fui colto da un sentimento insolito, anomalo, vagamente impacciato, per non dire goffo, forse poteva essere affetto, credo. E lo stesso percepivo da parte loro. Tuttavia non cercarono di darmi delle speranze, come all'inizio. Forse quello che di tanto in tanto comunicavano, a prescindere dai gemiti sommessi, dal respiro affannato a denti stretti e dai silenziosi lamenti, proprio per questo (ma naturalmente anche a causa delle altre difficoltà), ispirava quiete e d'altra parte familiarità: qui una parola di conforto, là un'affermazione tranquillizzante. Ma pareva che chi era ancora in grado non lesinava nemmeno con le azioni e anche a me mani sconosciute porsero un barattolo chissà da quale distanza e con caritatevole compassione, quando annunciai di dover urinare. Quando infine, all'improvviso, non so come, né quando, né per via di quali mani, sentii sotto la schiena non più le assi del vagone ferroviario bensì lo strato sottile di ghiaccio delle pozzanghere di una strada lastricata, non mi importava ormai più di essere arrivato felicemente a Buchenwald, del resto avevo dimenticato da un pezzo che era quello il luogo dove avevo tanto desiderato tornare.
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..... "Non dobbiamo forse immaginare il campo di concentramento come un inferno?" mi ha chiesto e io, disegnando con il tacco un paio di cerchi nella polvere, gli ho detto che ce lo si poteva immaginare come si voleva; quanto a me, io potevo solo immaginarmi il campo di concentramento, perché entro certi limiti lo conoscevo, mentre l'inferno no. "E se dovessi immaginarlo?" ha insistito e dopo qualche altro cerchio ho detto: "Allora lo immaginerei come un luogo dove non ci si può annoiare", mentre in un campo di concentramento, ho aggiunto, era possibile, lo era persino ad Auschwitz, a certe condizioni, è ovvio. A quel punto è rimasto zitto per un istante e poi ha domandato, anche se mi è parso controvoglia: "Sì, e come te lo spieghi?". E allora, dopo averci riflettuto, ho detto: "Con il tempo". "Cosa significa, con il tempo?" "Significa che il tempo aiuta." "Aiuta...? In cosa?" "In tutto," e ho cercato di spiegargli come è, arrivare in una stazione non proprio lussuosa ma nel complesso accettabile, pulita e graziosa, dove solo lentamente, col succedersi del tempo, tappa dopo tappa ti si chiarisce tutto quanto. Quando hai superato la prima tappa, quando sai di averla passata, già ti si presenta la prossima. Quando poi sei arrivato a conoscere tutto, allora hai anche compreso tutto. E mentre comprendi tutto, non rimani certo inattivo: già sistemi le cose nuove, vivi, agisci, ti muovi, adempi le continue richieste di ogni tappa successiva. Se però non ci fosse questa successione nel tempo e tutte queste conoscenze si riversassero su di noi in una volta sola, forse la nostra testa non riuscirebbe a sopportarle e nemmeno il nostro cuore, così cercavo di spiegargli. Allora ha tirato fuori dalla tasca un pacchetto sgualcito, ha offerto anche a me una delle sue sigarette spiegazzate, che io ho rifiutato, e dopo due tiri profondi, piegato in avanti con i gomiti puntati sulle ginocchia, senza guardarmi, ha detto con voce un po' afona: "Capisco". D'altra parte, ho proseguito, c'era il difetto, si potrebbe dire lo svantaggio, che il tempo, in qualche modo, bisognava trascorrerlo. Per esempio avevo visto dei prigionieri, gli ho detto, che erano nel campo di concentramento già da quattro, sei o dodici anni, anzi, più esattamente: c'erano ancora. Ora, queste persone, per quattro, sei o dodici anni, ovvero in quest'ultimo caso dodici per trecentosessantacinque giorni, ovvero dodici per trecentosessantacinque per ventiquattro ore, e ancora avanti, dodici per trecentosessantacinque per ventiquattro per... e all'indietro, in secondi, minuti, ore, giorni: ebbene, avevano dovuto in qualche modo superare tutto questo dalla A alla Z. D'altra parte ancora, ho aggiunto, proprio questo poteva essere stato d'aiuto, perché se tutto questo tempo, dodici per trecentosessantacinque per ventiquattro per sessanta per sessanta, si fosse improvvisamente riversato su di loro in un colpo solo, non avrebbero resistito, al modo come invece hanno resistito, non lo avrebbero retto né fisicamente né psichicamente. E siccome lui taceva, ho aggiunto: "Bisogna immaginarselo più o meno così".
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...... perché il problema è proprio questo: io ci sono e so bene che, pur di poter vivere, il prezzo che pago è di accettare qualunque punto di vista. E mentre lascio vagare il mio sguardo sulla piazza che riposa tranquilla nella luce del tramonto, sulla strada provata dal temporale eppure piena di mille promesse, già avverto crescere e lievitare in me questa disponibilità: proseguirò la mia vita che non è proseguibile. Mia madre mi sta aspettando e probabilmente sarà molto felice di rivedermi, la poveretta. Ricordo che un tempo aveva in mente che io diventassi un giorno un ingegnere, un medico o qualcosa del genere. Probabilmente succederà proprio come lei desidera; non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d'ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell'intervallo tra i tormenti c'era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli "orrori": sebbene per me, forse, proprio questa sia l'esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlare loro, la prossima volta che me lo chiederanno. Sempre che me lo chiedano. E se io, a mia volta, non l'avrò dimenticata.
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