Jonathan Franzen
Da "Le Correzioni"
Alfred
Per un momento Chip pensò che suo
padre fosse diventato un simpatico vecchio sconosciuto; ma sapeva che Alfred,
sotto sotto, era un uomo che urlava e puniva. L’ultima volta che era andato a
trovare i suoi genitori a Saint Jude, quattro anni prima, aveva portato con sé
la sua ragazza, Ruthie, una giovane marxista ossigenata che veniva
dall’Inghilterra del Nord e che, dopo aver inflitto innumerevoli offese alla
sensibilità di Enid (si era accesa una sigaretta in casa, era scoppiata a
ridere davanti alle vedute ad acquarello di Buckingham Palace che Enid amava
tanto, si era seduta a tavola senza reggiseno, e non aveva assaggiato neppure
un boccone dell’«insalata» di castagne d’acqua, piselli e cubetti di formaggio
con maionese densa che Enid preparava nelle occasioni speciali), aveva
punzecchiato ed esasperato Alfred fino a fargli dichiarare che «i neri»
sarebbero stati la rovina del paese, che erano incapaci di convivere con i
bianchi, pretendevano che il governo si prendesse cura di loro, non sapevano
cosa significasse lavorare duro, non avevano un briciolo di “disciplina”, che
sarebbe andata a finire con un massacro nelle strade, “un massacro nelle
strade”, e che se ne fregava di quello che Ruthie pensava di lui, era ospite
nella “sua” casa e nel “suo” paese, e non aveva il diritto di criticare ciò che
non capiva; e allora Chip, che le aveva preannunciato che i suoi genitori erano
le persone più reazionarie d’America, aveva sorriso come a dire, “Hai visto?
Proprio come ti avevo detto”. Quando lo piantò, tre settimane dopo, Ruthie
dichiarò che Chip assomigliava a suo padre molto più di quanto s’immaginasse.
***
Era vero che secondo Alfred l’unico
problema della pena di morte era quello di non essere usata abbastanza spesso;
era vero anche che gli uomini per cui invocava la camera a gas o la sedia
elettrica, a cena, quando Chip era bambino, erano di solito i neri dei
quartieri poveri nella parte settentrionale di Saint Jude. (- Oh, Al, – gli
diceva Enid, perché la cena era «il pasto di famiglia», e lei non capiva perché
dovessero trascorrerlo parlando di camere a gas e massacri nelle strade). E una
domenica mattina, dopo che era stato alla finestra a contare gli scoiattoli,
valutando i danni che avevano provocato alle querce e alle zoysie proprio come
i bianchi dei quartieri periferici tenevano il conto di quante case erano
finite in mano ai «neri», Alfred aveva compiuto un esperimento di genocidio.
Esasperato dal fatto che gli scoiattoli del suo non-grande giardino non fossero
abbastanza disciplinati da smettere di riprodursi o quantomeno da pulire quello
che sporcavano, scese nel seminterrato e tornò su con una trappola per topi
alla cui vista Enid scosse la testa ed emise un sommesso mormorio di diniego. –
Sono diciannove! – disse Alfred. – Diciannove! – Gli appelli al sentimento non
potevano competere con la disciplina di un dato così esatto e scientifico. Come
esca usò un pezzo dello stesso pane integrale che Chip aveva mangiato, tostato,
a colazione. Poi tutti e cinque i Lambert andarono in chiesa, e tra il Gloria
Patri e la dossologia un giovane scoiattolo maschio, dedito al comportamento ad
alto rischio tipico dei disperati, cercò di prendere il pane e la trappola gli
schiacciò il cranio. Al rientro la famiglia trovò un nugolo di afidi verdi che
banchettavano con sangue e materia cerebrale e con il pane integrale masticato
fuoruscito dalle mandibole fracassate del giovane scoiattolo. La bocca e il
mento di Alfred si contrassero nell’espressione di ripugnanza che assumeva
sempre durante particolari esercizi di disciplina, come sculacciare un bambino
o mangiare rutabaga. (Era del tutto ignaro di lasciar trasparire tale
avversione per la disciplina). Andò in garage a prendere una pala e ficcò la
trappola e il cadavere dello scoiattolo in un sacchetto di carta mezzo pieno
dell’erba sanguinella che Enid aveva strappato il giorno prima. Chip seguiva la
scena a una ventina di passi dal padre, e così lo vide entrare nel seminterrato
dal garage con le gambe che gli cedevano un po’ di lato, urtare la lavatrice,
superare di corsa il tavolo da ping-pong (lo aveva sempre spaventato vedere suo
padre correre, gli sembrava troppo vecchio, troppo disciplinato) e scomparire
nel bagno; e da allora gli scoiattoli furono liberi di fare tutto quello che
volevano.
***
Alfred, dal telefono, osservava
l’orologio sopra il lavandino. Era quell’ora maligna intorno alle cinque,
quando l’ammalato di influenza si sveglia dopo i sogni febbrili del tardo
pomeriggio. Quelle cinque passate da poco che erano una beffa delle cinque. Sul
quadrante degli orologi il conforto dell’ordine – due lancette che indicavano
con precisione due numeri interi – giungeva soltanto una volta ogni ora. Tutti
gli altri momenti che non quadravano erano potenziali portatori dei tormenti
dell’influenza.
E soffrire così senza alcuna ragione.
Sapere che non c’era nessun ordine morale nell’influenza, nessuna giustizia nei
succhi dolorosi prodotti dal cervello. Il mondo non era altro che una
materializzazione della Volontà cieca ed eterna.
(Schopenhauer: “Una parte
considerevole del tormento dell’esistenza è il fatto che siamo continuamente
incalzati dal Tempo, che non ci lascia mai prendere fiato e ci corre sempre
dietro come un sorvegliante con la frusta”).
***
La vita come Enid la conosceva ebbe
fine quando si infilò attraverso la porta semiaperta. La quotidianità cedette
il posto a un rigido susseguirsi di ore. Enid trovò Alfred nudo, con la schiena
appoggiata alla porta, sopra uno strato di lenzuola distese sulle pagine del
giornale di Saint Jude. Aveva disfatto il letto, e sul materasso spoglio erano
disposte in bell’ordine le mutande, una giacca sportiva e una cravatta. Il
resto delle coperte era accatastato sull’altro letto. Alfred continuò a
chiamarla anche dopo che Enid ebbe acceso la luce e occupato il suo campo
visivo. Il primo obiettivo di Enid era quello di calmarlo e mettergli il
pigiama, ma ci mise parecchio, perché Alfred era terribilmente agitato e non
finiva le frasi, non riusciva nemmeno a concordare verbi e sostantivi. Era
convinto che fosse mattina e che dovesse lavarsi e vestirsi, e che il pavimento
davanti alla porta fosse una vasca da bagno, la maniglia un rubinetto e che
niente funzionasse. Eppure insisteva a fare tutto a modo suo, finché, fra
spinte e strattoni, colpì Enid a una spalla. Lui si infuriò e lei pianse e lo
coprì d’insulti. Le mani impazzite di Alfred riuscivano a sbottonare la giacca
del pigiama alla stessa velocità con cui lei gliela abbottonava. Enid non
l’aveva mai sentito pronunciare le parole «s*****o» o «m***a», e la scioltezza
con cui ora le usava faceva luce su anni di precedente uso silenzioso nella sua
testa. Mentre Enid cercava di rifargli il letto, lui buttava all’aria il suo.
Lei lo implorò di stare fermo. Lui gridò che era tardi ed era molto confuso.
Nemmeno adesso Enid poteva fare a meno di amarlo. Forse specialmente adesso.
Forse aveva sempre saputo, per cinquant’anni, che c’era quel bambino dentro di
lui. Forse tutto l’amore che aveva dato a Chipper e Gary, in cambio del quale
alla fine aveva ricevuto così poco, era stato soltanto un allenamento per il
più esigente dei suoi figli. Per più di un’ora lo consolò e lo rimproverò e
maledisse in silenzio le medicine che lo scombussolavano, e finalmente Alfred
si addormentò, mentre la sveglia da viaggio di Enid segnava le 5:10, e alle
7:30 accese il rasoio elettrico.
