sabato 4 febbraio 2017

Da "I fratelli Karamazov" di Fedor Dostoevskij e da "l'uomo in rivolta" di Albert Camus




 I pensieri di Ivan Karamazov  ed  il suo Il Grande Inquisitore  

Sedevo qui poco fa e pensavo di me stesso: anche se non credessi nella vita, anche se avessi perso la fiducia nella donna che amo, se avessi perso la fiducia nell'ordine delle cose e mi fossi invece convinto che tutto è disordine, dannazione e, addirittura, diabolico caos, se fossi rimasto colpito da tutti gli orrori della delusione umana, tuttavia continuerei a desiderare di vivere e, dal momento che ho assaporato questo calice, non mi staccherò da esso fino a quando non avrò bevuto fino all'ultima goccia! Del resto, all'età di trent'anni potrei pure gettare questo calice, decidere di non bere fino all'ultima goccia e andare via... dove, non so. Ma fino ai trent'anni, questo lo so per certo, la mia giovinezza sconfiggerà tutto il resto: tutte le delusioni, tutta la repulsione per la vita. Mi sono domandato molte volte: esiste sulla terra una disperazione che possa sopraffare in me questa frenetica e, forse, sconveniente sete di vivere? E ho concluso che, a quanto pare, non esiste, cioè, torno a ripeterlo, almeno fino all'età di trent'anni; allora forse sarò io stesso a perdere la voglia, almeno così credo. Alcuni moralisti tisici e mocciosi - i poeti soprattutto - spesso definiscono gretta questa voglia di vivere. Questa sete di vivere è, in parte, una caratteristica dei Karamazov, questo lo so, e, nonostante tutto, essa esiste anche in te, sono sicuro, ma perché poi dovrebbe essere gretta? La forza centripeta sul nostro pianeta è ancora terribilmente forte, Alëša. Ho voglia di vivere e vivo, anche a dispetto della logica. Sebbene io possa non credere nell'ordine delle cose, tuttavia amo le foglioline vischiose che si dischiudono in primavera, amo il cielo azzurro, amo alcune persone che a volte si amano senza sapere esattamente il perché - ci crederesti? - amo alcune grandi imprese umane, sebbene da un pezzo abbia cessato di credere in esse, eppure per una vecchia abitudine le ammiro con tutto il cuore. Ecco, ti hanno portato la zuppa, mangiala, ti farà bene. È ottima, qui la sanno fare bene. Voglio girare l'Europa, Alëša, una volta partito di qui; eppure mi rendo conto di recarmi soltanto in un cimitero, nel più prezioso dei cimiteri, ecco cos'è! Valorosi sono i defunti ivi sepolti, ogni pietra sopra di essi parla di una vita così fervida in passato, di una fede così appassionata nelle proprie azioni, nella propria verità, nella propria lotta e nella propria scienza che io, lo so già, cadrò per terra e bacerò quelle pietre e piangerò su di esse - sebbene, in cuor mio, io sia convinto che quello, da molto tempo ormai, non è altro che un cimitero, niente di più. E non piangerò di disperazione, ma solo perché sarò felice di versare le mie lacrime. Mi inebrierò della mia stessa commozione. Io amo le vischiose foglioline primaverili, il cielo azzurro, ecco cosa ti dico! Qui non c'entrano l'intelligenza, la logica, questo è amare dal proprio intimo, dalle viscere, amare la forza della propria giovinezza... Ci hai capito niente di questo mio farneticare, eh, Alëša?», scoppiò a ridere Ivan all'improvviso.

*****


«Devo farti una confessione», esordì Ivan, «non ho mai potuto capire come si possa amare il prossimo. Secondo me, è impossibile amare proprio
quelli che ti stanno vicino, mentre si potrebbe amare chi ci sta lontano.
Una volta ho letto da qualche parte la storia di "Giovanni il  misericordioso", un santo: un viandante affamato e infreddolito andò da lui
e gli chiese di riscaldarlo e quello lo fece coricare nel letto insieme a lui, lo abbracciò e prese a soffiargli nella bocca, putrida e puzzolente a causa di una terribile malattia. Io sono convinto che egli lo facesse per una lacerazione piena di falsità, per il dovere di amare che gli era stato imposto, per una penitenza che si era inflitto. Perché si possa amare una persona, è necessario che essa si celi alla vista, perché non appena essa mostrerà il suo viso, l'amore verrà meno».
«Più di una volta, lo starec Zosima ha parlato di questo», osservò Alëša; «ha anche detto che spesso il viso di un uomo, per chi è inesperto in amore, diventa un ostacolo per l'amore. Tuttavia, c'è anche molto amore nell'umanità, amore quasi comparabile a quello di Cristo, questo l'ho visto
io stesso, Ivan...»
«Be', io non ne so niente di questo per ora e non posso capire, e, come me, una moltitudine innumerevole di uomini. La questione è se questo è dovuto alle cattive qualità degli uomini o se tale è la loro natura. Secondo me, l'amore di Cristo per gli uomini è una specie di miracolo impossibile sulla terra. Vero è che egli era Dio. Ma noi non siamo dèi. Supponiamo, per esempio, che io soffra profondamente: un'altra persona non potrà mai sapere fino a che punto io soffra, perché lui è un'altra persona e non è me, e, soprattutto, è raro che un uomo sia disposto a riconoscere in un altro un uomo che soffre (come se si trattasse di un'onorificenza). Perché non è disposto a farlo, tu che ne pensi? Perché, ad esempio, ho un cattivo odore, perché ho una faccia stupida, o perché una volta gli ho pestato un piede. E poi c'è sofferenza e sofferenza: una sofferenza degradante, umiliante come la fame, per esempio, il mio benefattore me la può ancora concedere, forse, ma quando la sofferenza è a uno stadio superiore, quando, per esempio, si soffre per un'idea, quella non me la accetterà, perché, diciamo, dandomi un'occhiata, ha visto che non ho affatto la faccia che, secondo la sua immaginazione, dovrebbe avere una persona che soffre per un'idea. E quindi egli mi priva immediatamente dei suoi favori, e non si può dire che lo faccia per cattiveria. I mendicanti, soprattutto quelli nobili, non dovrebbero mai mostrarsi, ma dovrebbero chiedere l'elemosina rimanendo nascosti dietro i giornali. Si può amare il prossimo in astratto, a volte anche da lontano, ma da vicino è quasi sempre impossibile. Se tutto fosse come a teatro, nei balletti, dove, quando appaiono mendicanti, essi indossano stracci di seta e pizzi lacerati e chiedono l'elemosina danzando leggiadramente, be', in tal caso, li si potrebbe ancora ammirare. Ammirare, ma non amare. Ma finiamola con questo argomento. Volevo soltanto esporti il mio punto di vista. Volevo parlare delle sofferenze dell'umanità in generale, ma è meglio se ci soffermiamo solo sulle sofferenze dei bambini. Questo riduce le mie argomentazioni ad un decimo della loro portata, ma è meglio parlare solo dei bambini, sebbene questo non vada a mio vantaggio. In primo luogo, i bambini si possono amare anche da vicino, anche se sono sporchi, brutti di viso (anche se a me pare che i bambini non siano mai brutti). Il secondo motivo per cui non voglio parlare degli adulti è che, oltre ad essere disgustosi e incapaci di meritarsi l'amore, per loro si tratta anche della giusta punizione: hanno mangiato la mela, conoscono il bene e il male, e sono divenuti "come Dio". E continuano a mangiarla anche adesso. I bambini invece non hanno mangiato niente e per ora non sono colpevoli  di nulla. Tu ami i bambini, Alëša? So che li ami e certo capirai per quale motivo voglio parlare solo di loro. E se anche loro soffrono terribilmente su questa terra, è ovviamente per colpa dei loro padri, sono puniti a causa dei loro padri che hanno mangiato la mela; ma questo ragionamento appartiene ad un altro mondo, ed è incomprensibile per il cuore umano qui sulla terra. Gli innocenti non devono soffrire per le colpe degli altri, soprattutto se sono innocenti come i bambini! Forse ti meraviglierò, Alëša, ma anch'io amo moltissimo i bambini. E nota bene che le persone crudeli, passionali, sensuali - la gente tipo i Karamazov, insomma - non di rado amano molto i bambini. I bambini, finché rimangono piccoli, diciamo fino all'età di sette anni, sono molto diversi dagli adulti: sembrano degli esseri a sé stanti, con una natura tutta propria.

****

La gente spesso parla di crudeltà "bestiale" dell'uomo, ma questo è terribilmente ingiusto e offensivo per le bestie: un animale non potrebbe mai essere crudele quanto un uomo, crudele in maniera così artistica e creativa. La tigre azzanna e dilania, ma sa fare solo quello. Non le verrebbe mai in mente di prendere le persone e farle restare inchiodate per le orecchie per un'intera nottata, nemmeno se fosse in grado di fare una cosa simile. 


****


«Io credo che se il diavolo non esiste e se, quindi, è stato l'uomo ad inventarlo, questi l'ha creato a sua immagine e somiglianza».
«Proprio come ha fatto con Dio, allora».
«È stupefacente il modo in cui riesci a rigirare le parole, come dice Polonio nell'Amleto», scoppiò a ridere Ivan. «Mi hai preso proprio in parola, ne sono contento. Il tuo deve essere un buon Dio, se l'uomo l'ha creato a sua immagine e somiglianza.

****
È proprio la mancanza di difesa di quelle creature che seduce il torturatore, la fiducia angelica dei bambini, che non sanno dove andare e a chi rivolgersi: è proprio questo che infiamma l'abominevole sangue dell'aguzzino. In ogni uomo, certo, si nasconde una bestia, la bestia dell'irascibilità, la bestia dell'eccitabilità dei sensi alle grida della vittima torturata, la bestia sfrenata libera da catene, la bestia delle malattie contratte nel vizio, la gotta, le infezioni del fegato, e così via.

****

La capisci questa assurdità, amico mio, fratello mio, pio e umile novizio di Dio, tu lo capisci a che scopo è stata creata questa assurdità, a che cosa serve? Senza di essa, dicono, l'uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra, giacché non avrebbe conosciuto il bene e il male. Ma a che serve conoscere questo maledetto bene e male, se il prezzo da pagare è così alto? Infatti, tutto un mondo di conoscenza non vale le lacrime di quella bambina al suo "buon Dio". Non sto parlando delle sofferenze degli adulti, che hanno mangiato la mela, che vadano al diavolo e che il diavolo se li pigli tutti quanti, ma di quelle dei bambini, dei bambini! Ti sto tormentando, Alëša, sembri fuori di te. La smetto, se vuoi».

****

«Ascoltami: ho preso il caso dei bambini perché tutto fosse più evidente. Di tutte le altre lacrime dell'umanità, delle quali è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino al centro, non dirò nemmeno una parola, ho ristretto di proposito l' ambito della mia discussione. Io sono una cimice e riconosco in tutta umiltà che non capisco per nulla perché il mondo sia fatto così. Vuol dire che gli uomini stessi hanno colpa di questo: è stato concesso loro il paradiso, ma essi hanno voluto la libertà e hanno rubato il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero diventati infelici, quindi non c'è tanto da impietosirsi per loro. La mia povera mente, terrestre ed euclidea, arriva solo a capire che la sofferenza c'è, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa deriva dall'altra direttamente, semplicemente, che tutto scorre e si livella - ma queste sono soltanto baggianate euclidee, io lo so, e non posso accettare di vivere in questo modo! Che conforto mi può dare il fatto che non ci sono colpevoli e che questo io lo so - io devo avere la giusta punizione, altrimenti distruggerò me stesso. E non già la giusta punizione nell'infinito di un tempo o di uno spazio remoti, ma qui sulla terra, in modo che io la possa vedere con i miei occhi. Ho creduto e voglio vedere con i miei occhi, e se per quel giorno sarò già morto, che mi resuscitino, giacché se tutto accadesse senza di me, sarebbe troppo ingiusto. Certo non ho sofferto unicamente per concimare con me stesso, con le mie malefatte e le mie sofferenze, l'armonia futura di qualcun altro. Io voglio vedere con i miei occhi il daino sdraiato accanto al leone e la vittima che si alza ad abbracciare il suo assassino. Voglio essere presente quando d'un tratto si scoprirà perché tutto è stato com'è stato. Tutte le religioni di questo mondo si basano su questa aspirazione, e io sono un credente. Ma ci sono i bambini: che cosa dovrò fare con loro? È questa la domanda alla quale non
so dare risposta. Per la centesima volta lo ripeto: c'è una miriade di questioni, ma ho preso soltanto l'esempio dei bambini, perché nel loro caso
quello che voglio dire risulta inoppugnabilmente chiaro. Ascolta: se tutti devono soffrire per comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano qui i bambini? Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l'armonia con le sofferenze. Perché anch'essi dovrebbero costituire il materiale per concimare l'armonia futura di qualcun altro? La solidarietà fra gli uomini nel peccato la capisco, capisco la solidarietà nella giusta punizione, ma con i bambini non ci può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devono condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri, allora io dico che una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco. Qualche spiritoso potrebbe dirmi che quel bambino sarebbe comunque cresciuto e avrebbe peccato, ma, come vedete, egli non è cresciuto, è stato dilaniato dai cani all'età di otto anni. Oh, Alëša, non sto bestemmiando! Io capisco quale sconvolgimento universale avverrà quando ogni cosa in cielo e sotto terra si fonderà in un unico inno di lode e ogni creatura viva, o che ha vissuto, griderà: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!" Quando la madre abbraccerà l'aguzzino che ha fatto dilaniare suo figlio dai cani e tutti e tre grideranno fra le lacrime: "Tu sei giusto, o Signore!": allora si sarà raggiunto il coronamento della conoscenza e tutto sarà chiaro. Ma l'intoppo è proprio qui: è proprio questo che non posso accettare. E fintanto che mi trovo sulla terra, mi affretto a prendere i miei provvedimenti. Vedi, Alëša, potrebbe accadere davvero che se vivessi fino
a quel giorno o se risorgessi per vederlo, guardando la madre che abbraccia l'aguzzino di suo figlio, anch'io potrei mettermi a gridare con gli
altri: "Tu sei giusto, o Signore!"; ma io non voglio gridare allora. Finché c'è tempo, voglio correre ai ripari e quindi rifiuto decisamente l'armonia superiore. Essa non vale le lacrime neanche di quella sola bambina torturata, che si batte il petto con il pugno piccino e prega in quel fetido stambugio, piangendo lacrime irriscattate al suo "buon Dio"! Non vale, perché quelle lacrime sono rimaste irriscattate. Ma esse devono essere riscattate, altrimenti non ci può essere armonia. Ma in che modo puoi riscattarle? È forse possibile? Forse con la promessa che saranno vendicate? Ma che cosa me ne importa della vendetta, a che mi serve l'inferno per i torturatori, che cosa può riparare l'inferno in questo caso, quando quei bambini sono già stati torturati? E quale armonia potrà esserci
se c'è l'inferno? Io voglio perdonare e voglio abbracciare, ma non voglio che si continui a soffrire. E se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all'acquisto della verità, allora io dichiaro in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto. Non voglio insomma che la madre abbracci l'aguzzino che ha fatto dilaniare il figlio dai cani! Non deve osare perdonarlo! Che perdoni a nome suo, se vuole, che perdoni l'aguzzino per l'incommensurabile sofferenza inflitta al suo cuore di madre; ma le sofferenze del suo piccino dilaniato ella non ha il diritto di perdonarle, ella non deve osare di perdonare quell'aguzzino per quelle sofferenze, neanche se il bambino stesso gliele avesse perdonate! E se le cose stanno così, se essi non oseranno perdonare, dove va a finire l'armonia? C'è forse un essere in tutto il mondo che potrebbe o avrebbe il diritto di perdonare? Non voglio l'armonia, è per amore dell'umanità che non la voglio. Preferisco rimanere con le sofferenze non vendicate. Preferisco rimanere con le mie sofferenze
non vendicate e nella mia indignazione insoddisfatta, anche se non dovessi
avere ragione. Hanno fissato un prezzo troppo alto per l'armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d'entrata. E se sono un uomo onesto, sono tenuto a farlo al più presto. E lo sto facendo. Non che non accetti Dio, Alëša, gli sto
solo restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto».
«Questa è ribellione», disse Alëša sommessamente e a capo chino.
«Ribellione? Non avrei voluto sentire una parola simile da te»,replicò Ivan con ardore. «È impossibile vivere nella ribellione, mentre io voglio vivere. Dimmelo tu, ti sfido, rispondimi: immagina che tocchi a te innalzare l'edificio del destino umano allo scopo finale di rendere gli uomini felici e di dare loro pace e tranquillità, ma immagina pure che per far questo sia necessario e inevitabile torturare almeno un piccolo esserino, ecco, proprio quella bambina che si batteva il petto con il pugno, immagina che l'edificio debba fondarsi sulle lacrime invendicate di quella bambina - accetteresti di essere l'architetto a queste condizioni? Su, dimmelo e non mentire!»




****

Lo sai, Alëša, non ridere, ma io ho composto un poema, circa un anno fa. Se tu potessi perdere insieme a me ancora una decina di minuti, te lo racconterei, puoi?»
«Tu hai scritto un poema?»
«No, non l'ho scritto», scoppiò a ridere Ivan, «e in vita mia non ho mai messo insieme nemmeno un paio di versi. Ma ho inventato un poema e l'ho tenuto a mente. Ero molto ispirato quando l'ho inventato. Tu sarai il mio primo lettore, anzi ascoltatore. Difatti, perché mai un autore dovrebbe lasciarsi sfuggire l'occasione di conquistare anche un solo ascoltatore?», disse Ivan sorridendo.
«Vuoi che te lo racconti oppure no?»
«Sono tutt'orecchi», rispose Alëša.
«Il mio poema s'intitola "Il Grande Inquisitore": è una cosa un po' assurda, ma voglio raccontartela».

«Ma persino questo mio racconto ha bisogno di una premessa, cioè una premessa letteraria, uff!», scoppiò a ridere Ivan. «Sapessi che grande autore che sono! Vedi, l'azione si svolge nel sedicesimo secolo e a quel tempo - tu del resto dovresti ricordarlo per averlo studiato a scuola - c'era l'abitudine, nelle opere di poesia, di portare sulla terra le potenze celesti. Per non parlare di Dante! In Francia, gli scrivani dei tribunali, come anche i monaci dei conventi, inscenavano vere e proprie rappresentazioni nelle quali si portavano sul palcoscenico la Madonna, gli angeli e i santi, Gesù Cristo e persino Dio. A quel tempo lo facevano con grande ingenuità. In Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, a Parigi, al tempo di Luigi XI fu organizzato uno spettacolo edificante e gratuito per il popolo nella sala del Municipio in onore della nascita del delfino francese, e lo spettacolo era intitolato: "Le bon jugement de la très sainte et gracieuse Vierge Marie", dove la Vergine Maria appariva di persona a pronunciare il suo bon jugement. Da noi, a Mosca, nell'età anteriore a Pietro, di tanto in tanto si mettevano in scena rappresentazioni dello stesso genere, soprattutto tratte dal Vecchio Testamento; ma, a quel tempo, oltre alle rappresentazioni teatrali, in tutto il mondo circolavano racconti e "versi" nei quali comparivano, all'occorrenza, santi, angeli e tutte le potenze celesti. Nei nostri monasteri si traducevano, si copiavano e, addirittura, si componevano opere di questo genere sin dai tempi della dominazione tatara. Esiste, per esempio, un poemetto scritto in un monastero (ovviamente tradotto dal greco): "Il pellegrinaggio della Madre di Dio attraverso le pene", che presenta una potenza di immagini e un'arditezza non inferiori a quelle dantesche. La Madonna visita l'inferno, ed è l'arcangelo Michele a guidarla "fra le pene". Ella vede i peccatori e i loro tormenti. Fra gli altri, vede una schiera di peccatori oltremodo interessante in un lago di fuoco: quelli fra loro che affondano nel lago e non riescono a riemergere, sono "già dimenticati da Dio" - espressione di eccezionale profondità e potenza. Ed ecco che la Vergine, sconvolta e piangente, cade in ginocchio dinanzi al trono di Dio e chiede la grazia per tutti i peccatori dell'inferno che ha visto, per tutti, senza distinzioni. La sua conversazione con Dio è di estremo interesse. Ella supplica, non desiste, e quando Dio le mostra le mani e i piedi del Figlio suo con le ferite dei chiodi della croce e domanda: "Come posso io perdonare ai suoi torturatori?", allora ella ordina a tutti i santi, a tutti i martiri, a tutti gli angeli e gli arcangeli di cadere in ginocchio insieme a lei e pregare perché sia concessa la grazia a tutti senza distinzioni. Alla fine impetra da Dio la sospensione delle pene dal Venerdì Santo al giorno della Santissima Trinità di ogni anno, e i peccatori dall'inferno ringraziano Dio e innalzano a lui inni di lode: "Giusto sei tu, o Signore, che così giudicasti". Ecco, anche il mio poemetto sarebbe stato di questo genere se fosse apparso a quel tempo. Nel mio poema egli appare sulla scena, anche se poi non dice nulla, fa la sua comparsa e va via.

Sono passati quindici secoli da quando egli ha promesso che sarebbe tornato nel suo regno, quindici secoli da quando il suo profeta aveva scritto: "Un altro poco e mi vedrete"; "In quanto poi a quel giorno e a quell'ora nessuno li sa, né gli angeli del cielo, né il Figlio, ma solo il Padre", come Egli stesso aveva predetto quando era sulla terra. Ma l'umanità lo aspetta con la stessa fede e la stessa commozione. Anzi, forse, con più fede di prima, giacché sono passati quindici secoli da quando sono cessati i pegni celesti per l'uomo:

Abbi fede nei suggerimenti del cuore
Perché i cieli non danno più pegni.

Non era rimasto altro che la fede nei suggerimenti del cuore! Vero è che a quel tempo si compivano molti miracoli. C'erano santi che compivano guarigioni miracolose; alcuni giusti, a quanto si dice nelle loro biografie, venivano visitati dalla Regina dei Cieli. Ma il diavolo non sonnecchiava e nell'umanità si affacciavano già dubbi sull'autenticità di quei miracoli. Proprio allora, al nord, in Germania si affermò una nuova terribile eresia. Un'enorme stella "ardente come fiaccola" (cioè come la Chiesa) "cadde sulle fonti delle acque ed esse divennero amare". Questi eretici cominciarono a negare i miracoli in modo blasfemo. Ma quelli che rimasero fedeli, credettero con maggior fervore. Le lacrime dell'umanità si innalzarono a lui come prima, lo aspettavano, lo amavano, speravano in lui, anelavano a soffrire e morire per lui, come prima... Erano ormai tanti secoli che l'umanità pregava con fede e fervore: "O Signore, manifestati a noi", tanti secoli che lo invocava, così egli infine, nella sua infinita misericordia, accondiscese a scendere dai suoi fedeli. Anche prima di quel giorno egli era sceso, aveva visitato alcuni giusti, martiri, santi ed eremiti, com'è scritto nelle loro "vite". Da noi, Tjutèev, con fede profonda nella verità delle proprie parole, dichiarò che

Con il fardello della croce
il Re Celeste nelle vesti di schiavo
ti attraversò tutta, Terra natia
distribuendo benedizioni.

Che sia stato sicuramente così, te lo assicuro. Ed ecco che egli sentì il desiderio di mostrarsi anche solo per un attimo al popolo, al popolo angariato, sofferente, macchiato dal peccato, ma un popolo che lo amava come un bambino. L'azione si svolge in Spagna, a Siviglia, nel periodo più
cupo dell'Inquisizione, quando ogni giorno bruciavano in quel paese roghi
in nome di Dio e...

Negli splendenti auto da fé
i perversi eretici venivano bruciati.

Oh, certo non si trattava della venuta nella quale egli ha promesso di manifestarsi alla fine dei secoli in tutta la sua gloria celeste, e che sarà "rapida come il lampo che brilla da oriente a occidente". No, egli ebbe il desiderio di visitare i suoi figli, sebbene per un solo istante, proprio laddove crepitavano i roghi degli eretici. Nella sua infinita misericordia, egli passa ancora una volta fra gli uomini assumendo quelle stesse spoglie umane sotto le quali era passato fra gli uomini per tre anni, quindici secoli prima. Egli scese proprio "sulle piazze roventi" della città meridionale, nella quale proprio il giorno prima, in uno "splendido auto da fé", alla presenza del re, della corte, dei cavalieri, dei cardinali e delle magnifiche dame di corte, dinanzi all'innumerevole popolazione di tutta Siviglia, il cardinale grande inquisitore aveva fatto bruciare quasi un centinaio di eretici ad majorem gloriam Dei. Egli compare senza trambusto, inosservato eppure tutti - e questo è molto strano - lo riconoscono. Potrebbe essere uno dei passi migliori del poema, voglio dire, cercare di capire come mai lo riconoscano tutti. Il popolo è irresistibilmente attratto da lui, lo circonda, s'ingrossa intorno a lui e lo segue. Egli passa attraverso la gente con un sorriso tranquillo di infinita compassione. Il sole dell'amore arde nel suo cuore, raggi di Luce, Sapienza e Potenza si irradiano dai suoi occhi e, riversandosi sugli uomini, suscitano nei loro cuori un moto di reciproco amore. Egli stende le mani sul popolo, lo benedice e il contatto con il suo corpo, persino solo con i suoi vestiti, emana un potere guaritore. Ecco che un vecchio, cieco dall'infanzia, grida dalla folla: "Signore, guariscimi e anche io ti vedrò", ed è come se una squama si staccasse dai suoi occhi e il vecchio Lo vede. Il popolo piange e bacia la terra da lui calpestata. I bambini gettano fiori al suo passaggio, cantano inni di lode: "Osanna!", "È lui, è proprio lui", ripetono tutti; "deve essere lui, non c'è nessuno uguale a lui". Egli si ferma sul sagrato della cattedrale di Siviglia nello stesso momento in cui stanno introducendo in chiesa, fra i pianti, una piccola bara infantile, bianca; è scoperta: vi giace una bambina di sette anni, figlia unica di un notabile cittadino. Il corpicino morto è tutto ricoperto di fiori. "Egli resusciterà la tua bimba", grida la folla alla madre in lacrime. Il prete, uscito incontro alla bara, guarda con aria perplessa e aggrotta la fronte. Ma ecco che si leva l'urlo della madre della bambina defunta. Ella si getta ai suoi piedi e dice: "Se sei davvero tu, resuscita la mia bimba!" grida protendendo le braccia verso di lui. La processione si ferma, poggiano la piccola bara sul sagrato, ai suoi piedi. Egli la guarda con compassione e le sue labbra sussurrano ancora una volta: "Talitha kumi" - "alzati fanciulla". La bambina si solleva nella bara, si siede e si guarda attorno sorridendo e con gli occhietti spalancati per la meraviglia. Fra le mani ha il mazzolino di rose bianche con cui giaceva nella bara. Fra il popolo prorompono grida, singhiozzi, confusione ed ecco che in quel preciso istante passa accanto alla cattedrale, per la piazza, il cardinale grande inquisitore in persona. È un vecchio di quasi novant'anni, alto e diritto, con il volto avvizzito e gli occhi incavati, dai quali però ancora risplende uno sprazzo di luce, come una scintilla. Egli non indossa i
sontuosi paramenti cardinalizi che aveva sfoggiato il giorno prima davanti al popolo, quando aveva appiccato il fuoco ai nemici della fede di Roma, no, in quel momento indossa soltanto la sua vecchia e rozza tonaca monacale. Lo seguono, a una certa distanza, i suoi tetri collaboratori, i suoi
servi, e la "santa" guardia. Egli si ferma dinanzi alla folla e osserva da lontano. Egli ha visto tutto, ha visto come poggiavano la bara dinanzi ai suoi piedi, come ha resuscitato la bambina; il suo viso si è incupito. Egli tiene aggrottate le folte ciglia bianche e nel suo sguardo brilla un bagliore sinistro. Fa cenno col dito e ordina alle guardie di prenderlo. Ed ecco che, tanto è il suo potere, a tal punto il popolo è ammaestrato, sottomesso e ubbidiente ai suoi ordini, che la folla si apre in un baleno dinanzi alle guardie e quelle, fra il silenzio di tomba calato all'improvviso, pongono le mani su di lui e lo portano via. La folla intera, al pari di un uomo solo, in un baleno inchina la testa fino al suolo davanti al vecchio inquisitore; questi, senza dire una parola, benedice la folla e le passa accanto. Le guardie conducono il prigioniero nell'angusta e cupa prigione a volta del vecchio palazzo del Santo Tribunale e lo chiudono a chiave. Passa il giorno, scende la buia, calda e "irrespirabile" notte sivigliana. L'aria "odora
di limoni e alloro". Nelle tenebre profonde si apre all'improvviso la porta di ferro della prigione, e il vecchio grande inquisitore in persona, con una lampada in mano, entra lentamente nella prigione. Egli è solo, la porta dietro di lui si richiude immediatamente. Egli si ferma accanto all'ingresso e scruta a lungo, un minuto o forse due, il viso di lui. Finalmente, si avvicina piano piano, poggia la lampada sul tavolo e gli dice:
"Sei tu? Sei proprio tu?" Ma, senza aspettare la risposta, aggiunge  subito: "Non rispondere, taci. E poi che cosa potresti dirmi? Lo so già quello che mi diresti. E poi non hai nemmeno il diritto di aggiungere nulla a ciò che da te è stato detto in precedenza. Perché sei venuto a disturbarci? Giacché tu sei venuto per disturbarci e lo sai bene. Non sai che cosa accadrà domani? Io non so chi tu sia e non voglio sapere se sei tu o soltanto una parvenza di lui, ma domani stesso ti condannerò e ti farò bruciare al rogo come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi ha baciato i tuoi piedi, domani a un mio piccolo cenno si precipiterà ad ammucchiare braci al tuo rogo, lo sai questo? Sì, forse lo sai", soggiunse assorto nei suoi pensieri ma senza staccare per un attimo lo sguardo dal suo prigioniero».
«Ivan, non capisco proprio, ma che cosa vuol dire?», disse Alëša dopo aver ascoltato tutto questo in silenzio. «È pura fantasia oppure una specie di errore da parte del vecchio, una sorta di inconcepibile qui pro quo
«Prendi per buona la seconda ipotesi», disse Ivan ridendo, «se sei già così viziato dal realismo contemporaneo da non poter ammettere nulla di fantastico - vuoi che sia un qui pro quo? E allora vada per il qui pro quo. È
vero», soggiunse ridendo ancora, «il vecchio aveva novant'anni e gli poteva essere andato di volta il cervello con quella sua idea. Poteva anche essere rimasto colpito dalle sembianze del prigioniero. Oppure, infine, poteva trattarsi di delirio, dell'allucinazione di un vecchio novantenne in punto di morte, esaltato per giunta dall'auto da fé di un centinaio di eretici arsi il giorno prima. Ma non fa lo stesso per noi che sia un qui pro quo o pura fantasia? Quello che conta qui è che il vecchio sente il bisogno di esprimersi ad alta voce, che finalmente dopo novant'anni egli si esprime e dica ad alta voce quello su cui ha taciuto per tutti quei novant'anni».
«E anche il prigioniero tace? Lo guarda e non gli dice una parola?»
«Ma questo è addirittura inevitabile», scoppiò a ridere nuovamente Ivan. «Il vecchio stesso ha detto che egli non ha nemmeno il diritto di aggiungere altro a quello che è stato già detto. Se vuoi, è proprio questa la caratteristica fondamentale del cattolicesimo romano, o per lo meno, a me sembra che esso dica: "Tu hai trasmesso tutto nelle mani del papa, dunque tutto si trova ancora nelle mani del papa, quindi adesso non stare a ritornare, non disturbarci, per il momento, almeno". Con questi intenti non
solo parlano, ma scrivono anche, i gesuiti per lo meno. L'ho letto io stesso nelle opere dei loro teologi. "Hai tu il diritto di rivelarci anche uno solo dei
misteri di quel mondo dal quale provieni?" gli domanda il mio vecchio e risponde al posto suo: "No, non ne hai il diritto perché nulla deve essere aggiunto a quello che in precedenza è stato detto, perché in nessun modo venga sottratta agli uomini quella libertà alla quale tanto tenevi quando eri
su questa terra. Tutto quello che di nuovo dichiarerai, minerà la libertà di fede degli uomini, giacché apparirà come un miracolo, mentre la loro libertà di fede ti era più cara di tutto già millecinquecento anni fa. Non dicevi spesso: 'Voglio rendervi liberi?' Adesso hai visto come sono i tuoi uomini 'liberi'", soggiunse il vecchio con un sogghigno pensoso. "Sì, questa faccenda ci è costata cara", prosegue guardandolo con severità, "ma noi abbiamo portato a termine questa faccenda nel tuo nome. Per quindici secoli siamo stati tormentati da questa libertà, ma adesso è finita per sempre. Non ci credi che è finita per sempre? Mi guardi con dolcezza e non mi degni neanche della tua indignazione? Ma sappi che adesso, anche oggi, quella gente è convinta più che mai di essere completamente libera, e
intanto essi stessi ci hanno portato la loro libertà e l'hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Ma questo l'abbiamo fatto noi: era questo che volevi, era questa la tua libertà?"»
«Ancora una volta non mi è chiaro», lo interruppe Alëša, «ma sta ironizzando, lo prende forse in giro?»
«Nient'affatto. Rivendica come merito suo e dei suoi il fatto di aver finalmente sconfitto la libertà e di averlo fatto per rendere gli uomini liberi. "Giacché solo adesso (e qui chiaramente sta parlando dell'Inquisizione) è diventato possibile pensare per la prima volta alla felicità degli uomini. L'uomo è stato creato ribelle; ma i ribelli possono mai essere felici? Tu eri stato avvisato", gli dice, "non ti sono mancati ammonimenti e avvertimenti, ma tu non hai dato ascolto a quegli avvertimenti, tu hai respinto l'unico modo nel quale l'uomo poteva essere reso felice, ma per fortuna, quando sei andato via, hai passato ogni cosa nelle nostre mani. Tu hai fatto una promessa, tu l'hai confermata con la tua parola, tu hai conferito a noi il diritto di fare e disfare e ora, naturalmente, non puoi neanche pensare di toglierci questo diritto. Perché sei venuto a disturbarci?"»
«E cosa vuol dire: "non ti sono mancati ammonimenti e avvertimenti"?», domandò Alëša.
«Questo costituisce il punto fondamentale di ciò che il vecchio vuole esprimere. "Lo spirito terribile e acuto, lo spirito dell'autodistruzione e della non-esistenza", prosegue il vecchio, "il sublime spirito ha parlato con te nel deserto e nelle Scritture ci viene tramandato che egli ti avrebbe 'tentato'. È vero questo? E ci può essere niente di più vero di quello che ti annunciò in quelle tre domande, quello che tu rifiutasti e che nelle Scritture porta il nome di 'tentazioni'? Eppure, se sulla terra c'è mai stato un autentico possente miracolo, quello ebbe luogo proprio quel giorno, il giorno delle tre tentazioni. Il fatto stesso che quelle tre domande siano state formulate costituisce il vero miracolo. Se fosse possibile immaginare, solo per il gusto di fare un'ipotesi e a mo' di esempio, che quelle tre domande del terribile spirito fossero svanite senza lasciare traccia nelle Scritture e che quindi bisognasse rimpiazzarle, inventarle e crearle ex novo, per reinserirle nelle Scritture, e se a questo scopo si riunissero tutti i saggi della terra - governanti, sommi sacerdoti, scienziati, poeti - e ad essi si affidasse il seguente compito: pensate, inventate tre domande che, non solo siano consone alla portata dell'evento, ma soprattutto esprimano, in tre
parole, in sole tre frasi umane, tutta la futura storia del mondo e dell'umanità - pensi che tutta la saggezza del mondo messa insieme potrebbe escogitare qualcosa di simile, in potenza e profondità, a quelle tre domande che ti vennero realmente poste quel giorno nel deserto dallo spirito potente e acuto? Bastano quelle tre domande, basta il miracolo che quelle domande siano state formulate per capire che abbiamo a che fare non certo con la labile mente umana, ma con l'eterno, l'assoluto. Poiché in quelle tre domande tutta la storia successiva dell'umanità viene come predetta e fusa in un unico insieme; in esse sono rivelate le tre forme nelle quali convergeranno tutte le insolubili contraddizioni storiche della natura umana su tutta la terra. A quel tempo ciò non poteva essere molto evidente, giacché il futuro era ignoto, ma ora che sono passati quindici secoli, noi vediamo che in quelle tre domande era stato tutto a tal punto indovinato e predetto, e a tal punto realizzato che ad esse non si può aggiungere né sottrarre nulla.
Giudica da te chi ha ragione: tu oppure colui che ti poneva le domande? Ricorda la prima domanda: anche se non proprio alla lettera il suo senso era questo: 'Tu vuoi andare nel mondo e ci vai a mani vuote, con una certa promessa di libertà che essi, nella loro semplicità e innata sregolatezza, non possono nemmeno concepire, una libertà che temono e paventano, giacché non c'è mai stato nulla di più insopportabile, per l'uomo e per la società umana, della libertà! Ma le vedi quelle pietre in questo spoglio deserto arroventato? Trasformale in pani e l'umanità correrà dietro di te come un gregge, riconoscente e sottomesso, sebbene eternamente in ansia che tu possa ritirare la mano e negarle il pane.' Ma tu non volesti privare l'uomo della sua libertà e rifiutasti la proposta pensando: che libertà può essere quella comprata con il pane? Replicasti che l'uomo non vive di solo pane. Ma lo sai che per amore di quel pane terreno lo spirito della terra si solleverà contro di te, combatterà contro di te e ti sconfiggerà e tutti lo seguiranno gridando: 'Chi può stare alla pari con questa bestia, essa ci ha dato il fuoco tolto dal cielo!' Non lo sai che le ere passeranno e l'umanità proclamerà, per bocca dei suoi saggi e scienziati, che il delitto non esiste e che dunque non esiste il peccato, ma esistono soltanto gli affamati? 'Da' da mangiare agli uomini e poi chiedi loro la virtù!': ecco che cosa scriveranno sul vessillo che innalzeranno contro di te e con il quale la tua Chiesa sarà distrutta. Al posto della tua Chiesa sarà innalzato un nuovo edificio, sarà nuovamente innalzata la terribile torre di Babele e, sebbene anche questa costruzione non sarà portata a termine, come la precedente, tu comunque avresti potuto evitare questa nuova torre e accorciare le sofferenze degli uomini di mille anni, giacché sarà da noi che essi verranno dopo essersi tormentati mille anni intorno alla loro torre! Ci cercheranno di nuovo quando saremo nascosti, sotto terra, nelle catacombe (giacché verremo nuovamente perseguitati e torturati), ci troveranno e ci invocheranno: 'Sfamateci, giacché coloro che ci hanno promesso il fuoco del cielo, non ce l'hanno dato.' E allora noi finiremo di costruire la loro torre, giacché solo colui che li sfamerà porterà a termine la costruzione, e saremo solo noi a sfamarli, nel tuo nome, e mentiremo quando diremo che è nel tuo nome. Oh, senza di noi, non riusciranno mai, mai a sfamarsi! Non c'è scienza che possa dare loro il pane finché essi rimarranno liberi; ma andrà a finire che essi porteranno la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno: 'Fateci pure vostri schiavi, ma sfamateci.' Finalmente capiranno da soli che la libertà e il pane terreno a sufficienza per tutti sono inconcepibili insieme, giacché mai, dico mai, essi saranno in grado di fare parti uguali! Si convinceranno pure che non potranno mai essere liberi giacché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli. Tu hai promesso loro il pane celeste ma, te lo ripeto ancora una volta, potrà esso mai stare alla pari con il pane terreno agli occhi della debole, razza umana, eternamente viziosa e eternamente ignobile? E se pure, in nome del pane celeste, ti seguiranno a migliaia e decine di migliaia, che ne sarà dei milioni e delle decine di migliaia di milioni di esseri che non avranno la forza di trascurare il pane terreno per quello celeste? Oppure ti sono care soltanto le decine di migliaia di grandi e forti, mentre i rimanenti milioni di deboli, innumerevoli come i granelli della sabbia del mare, ma che pure ti amano, devono servire solo da materiale per quelli grandi e forti? No, a noi sono cari anche i deboli. Essi sono viziosi e ribelli, ma alla fine anche loro diverranno ubbidienti. Essi si meraviglieranno di noi e ci guarderanno come dèi per il fatto che noi, assumendo la loro guida, abbiamo accettato di portare il fardello della loro libertà e di governarli - ecco fino che punto sarà diventato orribile per loro essere liberi! Ma noi diremo di essere i tuoi servi e di governare nel Tuo nome. Noi li inganneremo ancora una volta, giacché non permetteremo più che tu venga da noi. E questo inganno sarà anche la nostra sofferenza, giacché noi saremo costretti a mentire. Ecco il significato di quella prima domanda nel deserto ed ecco ciò a cui tu rinunciasti in nome di quella libertà che ponesti al di sopra di ogni cosa. E invece in quella domanda si racchiudeva il grande segreto di questo mondo. Scegliendo 'i pani', tu avresti dato una risposta all'ansia comune e eterna dell'umanità, sia di ciascun singolo individuo sia dell'intera compagine umana, l'ansia che si riassume nella domanda: 'chi venerare?'. La preoccupazione più assillante e tormentosa per l'uomo, fintanto che rimane libero, è quella di trovare al più presto qualcuno da venerare. Ma l'uomo vuole venerare qualcosa di inconfutabile, tanto inconfutabile che tutti gli uomini acconsentano immediatamente a venerarlo insieme. Giacché la preoccupazione di questi poveri esseri consiste non solo nel trovare qualcosa che uno o l'altro possano venerare, ma trovare quel qualcosa in cui tutti credano e che tutti venerino; la condizione essenziale è che si sia assolutamente tutti insieme. Ecco, questa esigenza di comunione nella venerazione è il principale tormento di ogni uomo, preso singolarmente, come dell'intera umanità, dall'inizio dei secoli. Per questa comune venerazione essi si sono trucidati fra loro a colpi di spada. Essi hanno creato dèi e si sono sfidati l'un l'altro: 'Gettate via i vostri dèi e venite a venerare i nostri, altrimenti sarà la morte per voi e per i vostri dèi!' E così sarà fino alla fine del mondo, persino quando anche gli dèi saranno scomparsi dalla faccia della terra: allora cadranno in ginocchio davanti agli idoli. Tu lo sapevi, non potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, eppure rifiutasti l'unico infallibile vessillo che ti veniva offerto per costringere l'umanità a venerarti incondizionatamente - il vessillo del pane terreno - e lo rifiutasti in nome della libertà e del pane celeste. Guarda che cos'altro hai fatto tu. E tutto sempre in nome della libertà! Ti dico che per l'uomo non c'è assillo più tormentoso di quello di trovare qualcuno al quale trasmettere al più presto quel dono della libertà con il quale il disgraziato essere viene al mondo. Ma solo colui che acquieta la coscienza degli uomini può dominare la loro libertà. Con il pane ti veniva dato un vessillo inconfutabile: dagli il pane e l'uomo si inchina, giacché non v'è nulla di più inconfutabile del pane, ma se qualcun altro al di fuori di te s'impadronisce della sua coscienza - oh, allora egli sarà persino capace di gettare via il tuo pane e di seguire colui che seduce la sua coscienza. In questo avevi ragione. Giacché il segreto dell'esistenza umana non è vivere per vivere, ma avere qualcosa per cui vivere. Se l'uomo non ha ben fermo dinanzi a sé il fine per cui vive, egli non accetterà di continuare a vivere e distruggerà se stesso piuttosto che rimanere sulla terra, anche se avesse pani in abbondanza intorno a sé. Questo è vero. Ma che cosa è accaduto? Invece di assumere il dominio della libertà degli uomini, tu hai reso quella libertà ancora più grande! Oppure hai dimenticato che all'uomo la pace, e persino la morte, sono più care della libertà di scelta nella conoscenza del bene e del male? Nulla è più seducente per l'uomo della libertà di coscienza, ma, nel contempo, non c'è nulla che per lui sia più tormentoso. Ed ecco che, invece di solidi principi per acquietare la coscienza degli uomini una volta per tutte, tu hai scelto tutto ciò che di più insolito, vago ed enigmatico possa esistere, hai preso tutto ciò che è superiore alle forze dell'uomo e hai finito con l'agire come se non amassi affatto gli uomini, proprio tu che eri venuto a donare la tua vita per loro! Invece di assumere il dominio della libertà umana, tu l'hai accresciuta e hai sovraccaricato con i suoi tormenti il regno spirituale dell'uomo, per sempre. Tu hai desiderato il libero amore da parte dell'uomo, hai desiderato che egli venisse spontaneamente a te, attirato e catturato da te. Invece di attenersi alla rigida antica legge, l'uomo, da allora in poi ha dovuto decidere da solo, con il cuore libero, quale fosse il bene e il male, avendo unicamente la tua immagine come guida davanti a sé; ma ignoravi forse che alla fine egli avrebbe rigettato e messo in discussione persino la tua immagine e la tua verità, se fosse stato schiacciato da un fardello così spaventoso come il libero arbitrio? Ignoravi che gli uomini alla fine avrebbero gridato che non in te è la verità, giacché non avrebbero potuto essere abbandonati in uno stato di confusione e tormento peggiore di quello che tu hai causato, lasciando sulle loro spalle tanti affanni e tanti problemi senza risposta? Così facendo tu stesso hai posto le basi per la distruzione del regno tuo e non puoi biasimare nessuno più di te stesso. E invece che cosa ti veniva offerto? Ci sono tre poteri, solo tre poteri sulla terra che possono sconfiggere e soggiogare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli e renderli felici; essi sono: il miracolo, il mistero e l'autorità. Tu rifiutasti il primo, il secondo e il terzo e ne desti l'esempio per primo. Quando il terribile e saggissimo spirito ti pose sul pinnacolo del tempio e ti disse: 'Se vuoi sapere se sei Figlio di Dio, gettati di sotto, poiché di lui sta scritto che gli angeli lo afferreranno e lo sosterranno affinché egli non cada e non urti, allora saprai se sei Figlio di Dio, e darai prova di quanto è grande la tua fede nel padre tuo', tu, ascoltata la proposta, la rifiutasti, non cedesti e non ti gettasti di sotto. Oh certo, agisti con magnifico orgoglio, come un vero Dio, ma gli uomini, la debole schiatta ribelle, sono forse essi dèi? Oh, tu in quel momento comprendesti che se avessi fatto un passo, se solo avessi accennato il gesto di buttarti di sotto, in quello stesso momento avresti tentato Dio e avresti perso tutta la tua fede in lui, e ti saresti schiantato in pezzi su quella stessa terra che eri venuto a salvare e l'acuto spirito che ti aveva tentato se ne sarebbe rallegrato. Ma torno a ripetere: sono molti quelli come te? E potresti davvero immaginare, anche solo per un attimo, che pure gli uomini sarebbero in grado di affrontare una simile tentazione? La natura umana è forse fatta in modo da rifiutare il miracolo e, nei terribili momenti della vita, nei momenti delle più decisive e tormentose crisi spirituali, rimanere solo con il libero verdetto del proprio cuore? Oh, tu sapevi che il tuo gesto sarebbe stato conservato nelle Scritture, sapevi che sarebbe stato tramandato a tempi remoti e ai confini estremi della terra e tu hai sperato che, seguendo il tuo esempio, l'uomo sarebbe rimasto con Dio, e non avrebbe avuto bisogno del miracolo. Quello che non sapevi è che nel momento in cui l'uomo avesse rifiutato il miracolo, immediatamente avrebbe rifiutato anche Dio, giacché l'uomo cerca non tanto Dio, quanto i miracoli. E dal momento che l'uomo non è in grado di rimanere privo di miracoli, egli si sarebbe creato da sé miracoli nuovi, con le proprie forze questa volta, e si sarebbe inginocchiato dinanzi al miracolo del ciarlatano, alla magia della fattucchiera, pur rimanendo cento volte ribelle, eretico e miscredente. Tu non scendesti dalla croce quando ti gridavano per ingiuria e per beffa: 'Scendi dalla croce e allora crederemo che sei tu.' Tu non scendesti allora, perché ancora una volta non volesti rendere schiavo l'uomo con il miracolo e anelavi alla fede libera, svincolata dal miracolo. Bramavi l'amore spontaneo e non gli entusiasmi servili dello schiavo dinanzi al potente che lo ha atterrito una volta per tutte. Ma anche in quel caso hai sopravvalutato gli uomini, giacché, infatti, essi sono schiavi per quanto creati ribelli. Guardati intorno e giudica da te come sono passati questi quindici secoli, da' un'occhiata ai tuoi uomini: chi si è innalzato sino al tuo livello? L'uomo ha una natura più debole e più vile di quello che tu credevi, te lo giuro! È forse egli in grado di fare quello che hai fatto tu, eh?
Dando prova di cotanta stima per lui, tu hai agito come se non ne avessi più compassione, perché hai preteso troppo, e questo proprio tu, che hai amato gli uomini più di te stesso! Se avessi avuto meno stima dell'uomo, avresti anche preteso di meno, e in questo saresti stato più vicino all'amore, giacché il fardello sarebbe stato più leggero. L'uomo è debole e vile. Che importa che ora, dappertutto, gli uomini si ribellino contro il nostro potere e siano fieri di ribellarsi? È una fierezza da ragazzino, da scolaretto. Sono come i ragazzini che fanno chiasso in classe e cacciano via il maestro. Ma anche questo entusiasmo da ragazzini avrà fine e costerà loro caro. Essi abbatteranno templi e inzupperanno la terra di sangue. Ma alla fine capiranno, gli stupidi ragazzini, che anche se sono ribelli, sono dei ribelli deboli, che non reggono il peso della loro stessa ribellione. Grondanti delle
loro stupide lacrime, riconosceranno infine che chi li ha creati ribelli aveva senza dubbio voluto prendersi gioco di loro. Ammetteranno questo nella disperazione e le loro parole saranno blasfeme e questo li renderà ancora più infelici, giacché la natura umana non tollera la bestemmia e finisce col vendicarla a proprie spese. Così, oggi, l'inquietudine, la confusione e l'infelicità sono il fardello degli uomini dopo che tu hai tanto patito per la loro libertà! Il tuo grande profeta dice, in visione e per immagini, di aver visto tutti i partecipanti alla prima resurrezione, dodicimila eletti per ciascuna tribù. Ma sebbene fossero tanti, essi devono essere stati senza dubbio una specie di dèi, e non uomini. Essi hanno portato la tua croce, hanno sopportato decine di anni di deserto sterile e brullo, cibandosi di locuste e radici, e tu puoi davvero additare con orgoglio questi tuoi figli della libertà, del libero amore, del sacrificio spontaneo e sublime in nome tuo. Ma ricorda che erano solo qualche migliaio e per di più dèi, e tutti gli altri? Che colpa hanno tutti gli altri, uomini deboli, se non hanno potuto sopportare quello che hanno sopportato i forti? Che colpa ha l'anima debole se non ha avuto la forza di accogliere doni così tremendi? Può essere vero che tu sia venuto solo dagli eletti e per gli eletti? Ma se è così, questo è un mistero e noi non possiamo capirlo. E se di mistero si tratta, allora anche noi abbiamo diritto a professare il mistero e a insegnare loro che non è il libero arbitrio dei loro cuori a contare, non è l'amore, ma il mistero al quale devono sottomettersi ciecamente, quasi a dispetto della loro stessa coscienza. E così abbiamo fatto. Noi abbiamo rettificato la tua opera e l'abbiamo fondata sul miracolo, il mistero e l'autorità. E gli uomini
si sono rallegrati di essere guidati nuovamente come un gregge, si sono rallegrati che qualcuno avesse finalmente tolto dal loro cuore un dono così terribile che aveva causato loro tanto tormento. Abbiamo fatto bene ad insegnare questo e a comportarci in questo modo? Rispondi. Non abbiamo forse amato l'umanità, riconoscendo con tanta umiltà la sua debolezza, alleggerendo con tanto amore il suo fardello e permettendo alla sua debole natura persino di peccare, ma sempre con il nostro consenso? Perché sei venuto a disturbarci adesso? E che hai da guardarmi con quei tuoi occhi miti e penetranti, senza dire una parola? Adirati, io non voglio il tuo amore
perché sono io il primo a non amare te. A che servirebbe nascondere a te la
verità? O forse non so con chi sto parlando? Quello che ho da dirti lo conosci già alla perfezione, lo leggo dai tuoi occhi. Sta forse a me nasconderti il nostro segreto? O forse vuoi proprio sentirlo dalle mie labbra: noi non siamo con te, noi siamo con lui, ecco il nostro segreto. È da
molto tempo che non siamo più con te, ma con lui, da otto secoli. Esattamente otto secoli fa, abbiamo accettato da lui quello che tu rifiutasti con indignazione, quell'ultimo dono che egli ti offriva mostrandoti tutti i regni della terra: da lui abbiamo accettato Roma e la spada di Cesare e ci siamo proclamati sovrani della terra, gli unici sovrani della terra, anche se da allora non siamo ancora riusciti a portare a termine la nostra opera. Ma di chi è la colpa? Oh, per ora la nostra opera è soltanto agli inizi, ma ha pur
sempre avuto inizio. Dovremo aspettare a lungo perché sia completata, e la terra ha ancora molte sofferenze da patire, ma noi raggiungeremo la nostra meta e diverremo Cesari e allora provvederemo alla felicità universale degli uomini. Ma avresti potuto prendere tu allora la spada di Cesare.
Perché rifiutasti anche quell'ultimo dono? Accettando quel terzo consiglio dello spirito potente, avresti esaudito ogni desiderio dell'uomo sulla terra: avere qualcuno da venerare, qualcuno a cui affidare la propria coscienza, e
un modo per unire tutti in un inconfutabile, comune e armonioso formicaio, giacché l'esigenza di un'unione universale è il terzo e ultimo tormento dell'uomo. L'umanità nel suo complesso ha sempre mirato a organizzarsi in uno stato che fosse necessariamente universale. Ci sono stati molti grandi popoli con una grande storia alle spalle, ma più questi popoli erano evoluti, tanto più erano infelici, giacché avvertivano con maggiore consapevolezza degli altri l'esigenza di unione universale degli uomini. I grandi conquistatori, i Tamerlani e i Gengis Khan, hanno imperversato come uragani sulla terra nel tentativo di conquistare l'universo, ma anche loro hanno espresso, seppure inconsapevolmente, quella stessa imperiosa esigenza dell'umanità di un'unione comune e universale. Se tu avessi accettato il mondo e la porpora di Cesare, avresti fondato il regno universale e avresti dato la pace universale. Giacché a chi tocca dominare gli uomini, se non a coloro che ne dominano la coscienza e nelle cui mani si trovano i loro pani? Noi abbiamo appunto accettato la spada di Cesare e accettandola, naturalmente, abbiamo rinnegato te per seguire lui. Oh, ci aspettano ancora secoli di eccessi del libero pensiero, di scienza e antropofagia, poiché avendo essi cominciato ad innalzare la loro torre di Babele senza di noi, essi finiranno con l'antropofagia. Ma verrà il tempo in cui la bestia striscerà da noi e ci leccherà i piedi e li spruzzerà con le lacrime di sangue dei suoi occhi. E noi saliremo in groppa alla bestia e innalzeremo il calice con la scritta: 'Mistero!' Allora, solo allora, avrà inizio per gli uomini il regno della pace e della felicità. Tu vai fiero dei tuoi eletti, ma tu hai solo quelli, mentre noi daremo la pace a tutti. E inoltre: quanti di quegli eletti, di quei forti che avrebbero potuto divenire eletti, si saranno finalmente stancati di aspettare te? E quanti di loro hanno portato, o stanno portando, le forze del loro spirito e il fervore del loro cuore in un altro campo, finendo per innalzare il loro vessillo di libertà contro di te? Ma tu stesso hai innalzato quel vessillo. Da noi, invece, tutti saranno felici e non si ribelleranno né si trucideranno più, come fanno con la tua libertà, per tutta la terra. Oh, noi li convinceremo che diventeranno liberi solo quando avranno rinunciato alla loro libertà per noi e si saranno assoggettati a noi. Mentiremo o diremo il vero? Si convinceranno da sé che diciamo il vero, giacché ricorderanno gli orrori di schiavitù e confusione ai quali ha condotto la tua libertà. La libertà, il libero pensiero e la scienza li condurrà in labirinti così intricati e li porrà faccia a faccia con tali miracoli e misteri insolubili che alcuni di loro, indomiti e violenti, si suicideranno; altri, indomiti ma fiacchi, si uccideranno l'uno con l'altro, e i rimanenti, deboli e infelici, strisceranno ai nostri piedi e inneggieranno a noi: 'Sì, avevate ragione, solo voi siete depositari del suo mistero, e noi torniamo a voi, salvateci da noi stessi'. Quando riceveranno da noi i pani, essi vedranno chiaramente che noi prendiamo i loro stessi pani, i pani fatti dalle loro mani per distribuirli a loro, senza operare alcun miracolo, essi vedranno che non abbiamo trasformato le pietre in pani, ma in verità saranno più contenti di ricevere il pane dalle nostre mani che del pane in se
stesso! Giacché ricorderanno sin troppo bene che in passato, senza di noi, i
pani che producevano si trasformavano in pietre nelle loro mani, mentre, dopo essersi rivolti a noi, quelle stesse pietre si sono trasformate in pani nelle loro mani. Apprezzeranno molto, moltissimo cosa significa assoggettarsi per sempre! Fino a che gli uomini non avranno capito questo, saranno infelici. Chi più di tutti ha contribuito a questa incomprensione? Rispondi. Chi ha disperso il gregge e lo ha sparpagliato per sentieri sconosciuti? Ma il gregge si riunirà nuovamente e si sottometterà ancora una volta e questa volta per sempre. Allora noi daremo agli uomini la tranquilla, umile felicità degli esseri deboli, quali essi sono per natura. Oh, noi li indurremo finalmente a non essere orgogliosi, giacché tu li innalzasti
e quindi insegnasti loro ad essere orgogliosi; invece noi dimostreremo che sono deboli, che sono soltanto dei poveri bambini, ma che la loro felicità infantile è la più dolce di tutte. Essi diverranno timidi, ci seguiranno con gli occhi e si stringeranno intorno a noi, come pulcini alla chioccia. Essi si stupiranno di noi, avranno timore di noi e saranno fieri perché noi siamo così forti e intelligenti da ammansire un gregge così turbolento, di migliaia di milioni. Essi tremeranno impotenti dinanzi alla nostra ira, le loro menti diverranno pavide, i loro occhi facili al pianto, come quelli delle donne e dei bambini, ma ad un nostro segno saranno ugualmente pronti a passare all'allegria e al riso, alla gioia spensierata e alle allegre canzoncine infantili. Sì, noi li costringeremo a lavorare, ma nelle ore di riposo noi organizzeremo la loro vita come un gioco di bimbi, con canzoncine, cori, danze innocenti. Oh, noi permetteremo persino che essi commettano peccato - sono creature così deboli e fragili - ed essi ci ameranno come bambini per il fatto che noi permetteremo loro di peccare. Noi diremo loro che qualsiasi peccato sarà espiato a patto che venga compiuto con il nostro permesso; e noi permetteremo loro di peccare perché li amiamo e ci accolleremo la punizione per questi loro peccati. Ci accolleremo la punizione e loro ci adoreranno come i benefattori che hanno assunto su di sé il peso dei loro peccati davanti a Dio. E non avranno nessun segreto per
noi. Noi permetteremo - o vieteremo - loro di vivere con mogli e amanti, di avere o non avere figli - tutto secondo la loro docilità - e loro ubbidiranno con gioia e allegria. Anche i segreti più tormentosi della loro coscienza, tutto, tutto essi ci riferiranno e noi troveremo una soluzione per tutto e loro confideranno nella nostra soluzione con gioia, poiché essa libererà loro dal grande assillo e dalle tremende pene che adesso patiscono per giungere a una decisione libera, personale. E tutti saranno felici, milioni di esseri, tranne le centinaia di migliaia che li governano. Giacché noi, soltanto noi, che conserveremo il segreto, soltanto noi saremo infelici. Ci saranno mille milioni di bambini felici e centomila martiri che hanno preso su di sé la maledetta conoscenza del bene e del male. Essi moriranno tranquilli, si spegneranno tranquilli nel tuo nome, e oltre la tomba non troveranno null'altro che la morte. E noi custodiremo il segreto e, per il loro stesso bene, li trarremo in inganno con la promessa della ricompensa eterna e celeste. Giacché se anche ci fosse qualcosa nell'aldilà, non sarebbe certo riservato a persone come loro. Dicono e profetizzano che tornerai ancora vittorioso, tornerai con i tuoi eletti, con i tuoi forti e orgogliosi, ma noi diremo che essi hanno salvato solo se stessi, mentre noi abbiamo salvato tutti. Dicono che sarà svergognata la meretrice che sta in groppa alla bestia
e che tiene in mano il mistero, che i deboli insorgeranno di nuovo, lacereranno la sua porpora e denuderanno il suo ripugnante corpo. Allora io mi alzerò e ti indicherò le migliaia di milioni di bambini felici che non conoscono il peccato. E noi, che ci saremo accollati il loro peccato per la loro felicità, ci leveremo dinanzi a te dicendo: 'Condannaci, se puoi e se osi'. Sappi che non ti temo. Sappi che anche io sono stato nel deserto, anche io mi sono cibato di locuste e radici, anche io ho benedetto la libertà con la quale tu avevi benedetto gli uomini, anche io ho tentato di entrare nel novero dei tuoi eletti, nel novero dei potenti e dei forti che anelano a 'colmare il numero'. Ma ho aperto gli occhi e non ho voluto servire la follia. Sono tornato sui miei passi e mi sono unito alle fila di coloro che hanno rettificato l'opera tua. Mi sono allontanato dagli orgogliosi e sono tornato fra gli umili per la felicità di questi umili. Quello che ti dico, si avvererà e il nostro regno sarà edificato. Te lo ripeto: domani vedrai il docile gregge che a un mio piccolo cenno si lancerà ad ammucchiare carboni ardenti al rogo sul quale ti farò bruciare per essere venuto a disturbarci. Perché se mai c'è stato qualcuno che meritasse più di tutti il nostro rogo, quello sei tu. Domani ti farò bruciare. Dixi"».





Ivan tacque. Durante il racconto si era infervorato e aveva parlato con trasporto. Ma quando ebbe terminato, inaspettatamente, sorrise. Alëša aveva ascoltato in silenzio, ma verso la fine, in preda a forte agitazione, aveva più volte accennato a interrompere il fratello; poi, evidentemente, si
era trattenuto, ma adesso sbottò come di scatto.
«Ma questa... questa è un'assurdità!», gridò arrossendo. «Il tuo poema è un inno di lode a Gesù, non una denigrazione... come volevi che fosse. E chi ti crede, quando parli della libertà? È forse questo, questo il modo di intenderla? Non è questa la concezione che ne ha la Chiesa ortodossa... Quella è Roma e neppure l'intera Roma, è la parte peggiore del cattolicesimo, gli inquisitori, i gesuiti!... E poi non può esistere un personaggio così fantastico come il tuo inquisitore. Quali sarebbero i peccati degli uomini che ha preso su di sé? Chi sono questi depositari del mistero che si sarebbero accollati una specie di maledizione per la felicità degli uomini? Dove si sono mai visti? Conosciamo i gesuiti, di loro si dicono tante cose cattive, ma sono davvero come li descrivi tu?
Nient'affatto, non sono affatto così... Sono soltanto l'esercito romano che combatte per fondare su questa terra il futuro regno universale, con il papa
romano in testa in qualità di imperatore... ecco il loro ideale, ma senza tanti misteri o nobili afflizioni da parte loro... È pura e semplice ambizione di potere, di vili vantaggi terreni, di asservimento... qualcosa di simile a una futura servitù della gleba, con loro che fanno da proprietari terrieri... ecco quello che vogliono, niente di più. Essi non credono neanche in Dio,
forse. Il tuo inquisitore sofferente è pura fantasia...»
«Aspetta, aspetta», disse Ivan ridendo. «Come te la prendi! Fantasia, dici? Ammettiamo che sia così! Sì, è fantasia. Ma permettimi di domandarti: pensi davvero che tutto questo movimento cattolico degli ultimi secoli si riduca esclusivamente ad ambizione di potere per il conseguimento dei vantaggi più vili? È stato forse padre Paisij a insegnarti questo?»
«No, no, al contrario, padre Paisij una volta ha detto qualcosa di simile a quello che hai detto tu... ma certo non proprio esattamente quello, anzi tutt'altra cosa», si corresse in fretta Alëša.
«Un'informazione preziosa, malgrado il tuo "tutt'altra cosa". Ti domando: perché mai i tuoi gesuiti e inquisitori si sarebbero uniti esclusivamente per il conseguimento di sordidi vantaggi materiali? Perché  mai tra di loro non potrebbe esistere un martire oppresso da una nobile afflizione e amante dell'umanità? Vedi, supponi soltanto che esista una persona così fra tutti coloro che non desiderano altro che il conseguimento di vili vantaggi materiali, che esista una sola persona come il mio vecchio inquisitore, uno che abbia mangiato le radici nel deserto e si sia accanito nella mortificazione della carne per rendere se stesso libero e perfetto, una persona che abbia, però, nel contempo, amato l'umanità per tutta la vita e che di colpo abbia aperto gli occhi e abbia visto che non è poi una grande beatitudine morale raggiungere la perfezione della volontà, se allo stesso tempo ci si convince che milioni di altre creature di Dio sono state create solo per beffa, che essi non avranno mai la forza di stare all'altezza della propria libertà, che da poveri ribelli, quali essi sono, non potranno mai nascere giganti in grado di portare a termine la torre, e che non è stato per simili oche che il supremo idealista ha sognato la sua armonia. Accortosi di tutto questo, egli è tornato sui suoi passi e si è unito... alla gente di cervello. Non poteva forse accadere una cosa del genere?»
«A chi si sarebbe unito? Di quale gente di cervello parli?», gridò Alëša quasi adirato. «Nessuno di loro ha un simile cervello, né simili misteri o segreti di alcun genere... Forse sono soltanto atei, ecco il loro gran segreto. Il tuo inquisitore non crede in Dio, ecco in che consiste tutto il suo segreto!»
«E se fosse proprio così? Finalmente ci sei arrivato. Ed è proprio così, proprio in questo consiste tutto il suo segreto, ma non è forse anche questa una sofferenza, se non altro per un uomo come lui, che ha sacrificato la vita intera nella grande impresa del deserto e non è mai riuscito a guarire dall'amore per l'umanità? Al tramonto della sua vita, egli perviene al convincimento che soltanto i consigli del grande e tremendo spirito potrebbero garantire, in qualche modo, un ordine tollerabile per i deboli ribelli, per quelle "creature incompiute, sperimentali, create per beffa". E quindi, convintosi di questo, egli capisce che deve seguire l'indicazione dello spirito acuto, del tremendo spirito della morte e della distruzione, e quindi accettare la menzogna e l'inganno e condurre gli uomini, consapevolmente questa volta, verso la morte e la distruzione, ingannandoli però per tutto il percorso, affinché non si accorgano dove vengono condotti e, almeno durante il percorso, questi poveri ciechi si illudano di essere felici. E nota bene che l'inganno viene perpetrato nel nome di colui, nel cui ideale il vecchio ha creduto con tanta passione per tutta la vita! Non è forse questa infelicità? E se soltanto uno di questi uomini si trovasse a capo dell'esercito "che ambisce al potere per il mero conseguimento di vili vantaggi", non sarebbe sufficiente anche uno solo come lui per provocare una tragedia? Non solo: basterebbe che un solo uomo del genere si trovasse in una posizione di comando, perché diventasse evidente infine l'autentica idea guida dell'intera organizzazione romana con tutti i suoi eserciti e i suoi gesuiti, l'idea superiore di questa organizzazione. Non te lo nascondo: io credo fermamente che non sia mancato mai un uomo del genere tra coloro che guidavano il movimento. Chi lo sa, forse anche tra i papi di Roma ci sono state persone così. Chi lo sa, forse quel maledetto vecchio, che amava l'umanità in un modo così tenace e peculiare, esiste anche adesso sotto le spoglie di un'intera schiera di simili vegliardi solitari, e non è certo un caso, ma esiste un accordo, una società segreta, istituita ormai da tempo per custodire il segreto, per tenerlo nascosto agli uomini, deboli e disgraziati, allo scopo di renderli felici. Non
c'è dubbio che sia così e così deve essere. Mi verrebbe da pensare che anche la massoneria abbia alla base qualcosa di simile a quel mistero e che questo possa essere il motivo per cui i cattolici odiano tanto i massoni, perché in loro vedono degli avversari che minacciano l'unità della loro idea, quando invece dovrebbe esserci un unico gregge e un unico pastore...
Ma difendendo così la mia idea, faccio la figura dell'autore che non tollera la tua critica. Basta così».
«Forse anche tu sei un massone!», sfuggì ad Alëša. «Tu non credi in Dio», soggiunse, ma adesso era profondamente triste, gli era sembrato addirittura che il fratello lo guardasse con ironia. «Come va a finire il tuo poema?», gli domandò poi all'improvviso con lo sguardo basso, «o è finito così?»
«Vorrei dargli questa conclusione: quando l'inquisitore termina di parlare, aspetta per un po' di tempo che il prigioniero gli risponda. Gli pesa il silenzio di lui. Egli si è accorto di come il carcerato lo abbia ascoltato con attenzione, tranquillamente, guardandolo dritto negli occhi e,  evidentemente, senza alcuna intenzione di replicare. Il vecchio avrebbe voluto che quello gli dicesse qualcosa, per quanto amara e tremenda potesse essere. Egli invece si avvicina lentamente al vecchio e lo bacia piano sulle esangui labbra di novantenne. Ecco, è questa tutta la sua risposta. Il vecchio sussulta. Un leggero fremito gli contrae gli angoli della bocca, egli va alla porta, la apre e gli dice: "Va' via e non tornare più... non tornare più... mai, mai più!" E lo lascia andare "nelle scure piazze della città". Il prigioniero scompare».
«E il vecchio?»
«Il bacio gli brucia nel cuore, ma il vecchio rimane fedele alla sua idea».
«E tu insieme a lui, vero?», esclamò Alëša con accento addolorato.
Ivan scoppiò a ridere.
«Ma questa è proprio un'assurdità, Alëša, è solo un poema balordo di un balordo studente che non ha mai messo insieme due versi. Perché prendi tutto così sul serio? Non penserai mica che adesso io vada direttamente dai gesuiti per unirmi alla schiera di coloro che rettificano l'opera sua? Dio mio, non è cosa per me! Te l'ho già detto: voglio tirare a campare sino ai trent'anni e poi... giù il calice per terra!»
«E le foglioline vischiose, le care tombe, il cielo azzurro e la donna amata! Come farai a vivere? Con quale forza potrai amarli?», esclamò Alëša addolorato. «È forse possibile amare e vivere con un simile inferno nel cuore e nella mente? No, tu stai andando proprio in quella direzione per unirti a loro... e se non lo farai, ti ucciderai, ma non riuscirai a sopportare!»
«Esiste una forza che sopporterà tutto!», disse Ivan, ormai con un freddo sogghigno.
«Quale?»
«La forza... dei Karamazov, la forza dell'abiezione dei Karamazov!»
«Affondare nella depravazione, soffocare l'anima nella corruzione, è questo che vuoi dire, vero?»
«Forse è anche questo... ma forse fino ai trent'anni riuscirò ad evitarlo, e poi...»
«Come farai a evitarlo? Con che cosa l'eviterai? Non è possibile, con le tue idee».
«Alla maniera dei Karamazov, ancora una volta».
«Vuoi dire che "tutto è permesso"? Tutto è permesso, non è vero, non è vero?»
Ivan si accigliò e impallidì in modo strano.
«Ah, hai afferrato quelle paroline di ieri che tanto hanno offeso Miusov... e che il fratello Dmitrij ha colto al volo e perifrasato così ingenuamente?», disse sorridendo con una smorfia. «Sì, se vuoi: "tutto è permesso", dal momento che quelle parole sono state già pronunciate. Non le rinnego. E anche la versione di Miten'ka non è male».
Alëša lo guardava in silenzio.
«Io, fratello, partendo pensavo di non avere altri che te al mondo», prese a dire Ivan con improvviso sentimento, «mentre adesso vedo che neppure nel tuo cuore c'è posto per me, mio caro eremita. Non rinnego la formula "tutto è permesso", e tu, rinnegherai me per questo?»
Alëša si alzò, si avvicinò al fratello e lo baciò piano sulle labbra in silenzio.
«Plagio letterario!», gridò Ivan passando all'improvviso ad una sorta di esaltazione. «L'hai rubato dal mio poema! Grazie, comunque. Alzati, Alëša, andiamo, è ora di andare per tutti e due».
Uscirono, ma si fermarono sul terrazzino d'ingresso della trattoria.

«Ecco che ti dico, Alëša», disse Ivan con voce ferma, «se avrò abbastanza energia per le foglioline vischiose, allora le amerò ricordando te. Mi basta che tu sia da qualche parte e la voglia di vivere non mi passerà. Sei contento adesso? Se vuoi, prendila per una dichiarazione d'amore. Ma adesso, tu per la tua strada e io per la mia, e basta così – hai capito? - basta così. Cioè, se domani non partissi (ma credo che partirò sicuramente) e ci capitasse di incontrarci di nuovo, non fare più parola con me di questi argomenti. Te ne prego caldamente, e anche in merito al fratello Dmitrij, te ne prego in particolar modo, non dire più una parola», aggiunse in tono irritato. «L'argomento è esaurito, tutto è stato già detto, non è forse così? E da parte mia anche io ti farò una promessa: all'età di trent'anni, quando mi verrà voglia di "gettare il calice giù per terra", verrò ancora una volta a parlare con te, dovunque io sia... fosse anche dall'America, ricordatelo. Verrò apposta per questo. Sarà anche molto interessante darti un'occhiatina per vedere come sarai diventato. Come vedi, è una promessa solenne. E davvero ci stiamo dicendo addio per sette, dieci anni, chi lo sa. Va' pure adesso dal tuo Pater Seraphicus, visto che sta per morire; se dovesse morire senza di te, per favore, non serbarmi rancore per averti trattenuto. Arrivederci, dammi ancora un bacio, ecco, così e adesso va'...»




Da  "L'uomo in rivolta" di Albert Camus 

"Il rifiuto della salvezza"

"Con Dostojevskij, invece, descrizione della rivolta farà un passo avanti. Ivan Karamazov prende le parti degli uomini e pone l'accento sulla loro innocenza. Afferma che la condanna a morte che grava su loro è ingiusta. Nel suo primo movimento almeno, invece di difendere la causa del male, difende quella della giustizia mettendola al di sopra della divinità. Non nega dunque assolutamente l'esistenza di Dio. La confuta in nome di un valore morale. Era ambizione dei ribelli romantici parlare con Dio da pari a pari. Il male risponde allora al male, la  superbia alla crudeltà. L'ideale di Vigny pr esempio consiste nel rispondere al silenzio con il silenzio. Senza dubbio si tratta con questo di innalzarsi al livello di Dio , il che è già una bestemmia. Ma non si pensa a contestare alla divinità il suo potere nè il suo posto: Questa bestemmia è riverente poichè ogni bestemmia, in fondo, è partecipazione al divino.
Con Ivan invece il tono muta. Dio è a sua  volta giudicato e dall'alto. Se il male è necessario alla creazione divina allora questa creazione è inaccettabile. Ivan non si rimetterà più alla volontà di questo   Dio misterioso, ma ad un principio più alto che è la giustizia.  Con questo, dà inizio all’attacco contro il cristianesimo. I ribelli romantici la rompevano con Dio stesso, in quanto principio d’odio. Ivan rifiuta esplicitamente il mistero e di conseguenza Dio in quanto principio d’amore. Solo l’amore può farci ratificare l’ingiustizia fatta a Marta, agli operai della decima ora, e più in là ancora, farci ammettere la morte ingiustificabile dei bambini. “Se il patimento dei bimbi,” dice Ivan, “serve a compiere la somma dei dolori necessari al conseguimento della verità, affermo fin d’ora che questa verità non vale un tale prezzo.” Ivan rifiuta l’interdipendenza profonda che il cristianesimo ha introdotto tra sofferenza e verità. Il grido più profondo d’Ivan, quello che apre i più sconcertanti abissi sotto i passi dell’uomo in rivolta, è il suo anche se. “La mia indignazione perdurerebbe anche se avessi torto.” Il che significa che anche se Dio esistesse, anche se il mistero celasse una verità, anche se lo starets Zosima avesse ragione, Ivan non accetterebbe che questa verità fosse pagata con il male, la sofferenza e la morte inflitti all’innocente. Ivan incarna il rifiuto di salvezza. La fede conduce alla vita immortale. Ma la fede implica l’esistenza del mistero e del male, la rassegnazione all’ingiustizia. Colui al quale la sofferenza dei bimbi impedisce d’accedere alla fede non riceverà dunque la vita immortale. A queste condizioni, anche se la vita immortale esistesse, Ivan la rifiuterebbe. Egli respinge questo mercato. Non accetterebbe la grazia se non incondizionata, e per questo pone egli stesso le proprie condizioni. La rivolta vuole tutto, o non vuole nulla. “Tutta la scienza del mondo non vale le lacrime dei bambini.” Ivan non dice che non vi sia alcuna verità. Dice che se verità c’è, non può essere altro che inaccettabile. Perché? Perché è ingiusta. È aperta qui per la prima volta la lotta della giustizia contro la verità; essa non avrà più tregua. A Ivan, solitario, dunque moralista, basterà una specie di donchisciottismo metafisico. Ma pochi lustri ancora, e una immensa cospirazione politica mirerà a fare, della giustizia, verità. Per di più, Ivan incarna il rifiuto di salvarsi da solo. Si fa solidale con i dannati e, per essi, rifiuta il cielo. Se credesse, infatti, potrebbe essere salvo, ma altri sarebbero dannati. Il patimento continuerebbe. Non c’è salvezza possibile per chi patisce di compassione vera. Ivan continuerà a mettere Dio nel torto rifiutando doppiamente la fede come si rifiutano ingiustizia e privilegio. Un passo più in là, e dal Tutto o Niente, passiamo al Tutti o nessuno. Questa determinazione estrema, e e l’atteggiamento che essa presuppone, sarebbero bastati ai romantici. Ma Ivan sebbene ceda anche al dandysmo, vive realmente i suoi problemi, dilaniato fra il sì e il no.
Da quel momento in poi, procede di conseguenza in conseguenza. Se rifiuta l’immortalità, che gli rimane? La vita in quanto ha di elementare. Soppresso il senso della vita, rimane ancora la vita. “Vivo,” dice Ivan, “a dispetto della logica.” E ancora: “Se non avessi più fede nella vita, e dubitassi di una donna amata, dell’ordine universale, persuaso al contrario che tutto non sia che un caos infernale e maledetto - anche allora, vorrei ugualmente vivere.” Ivan vivrà dunque, e amerà pure, “senza sapere perché”. Ma vivere è anche agire. In nome di che? Se non c’è immortalità, non c’è premio né castigo, né bene né male. “Credo non vi sia virtù senza immortalità.” E anche: “So soltanto che la sofferenza esiste, che non vi sono colpevoli, che tutto è concatenato, che tutto passa e si equilibra.” Ma se non c’è virtù, non c’è più legge: “Tutto è lecito”. Con questo “tutto è lecito” ha veramente inizio la storia del nichilismo contemporaneo. La rivolta romantica non andava così in là. Si limitava a dire, insomma, che non tutto era lecito, ma che essa si permetteva, per insolenza, quanto era vietato. Con i Karamazov, invece, la logica dell’indignazione farà che la rivolta si ponga in contrasto con se stessa, e la getterà in una contraddizione disperata. La differenza essenziale sta in questo, che i romantici si permettono qualche indulgenza, mentre Ivan si forzerà a fare il male per coerenza. Non si permetterà di essere buono. Il nichilismo non è soltanto disperazione e negazione, ma soprattutto volontà di disperare e di negare. Lo stesso uomo che prendeva così aspramente le parti dell’innocenza, che tremava davanti alla sofferenza di un bimbo, che voleva vedere “con i propri occhi” la cerbiatta dormire accanto al leone, la vittima abbracciare l’uccisore, dal momento in cui rifiuta la coerenza divina e tenta di trovare una propria regola, riconosce la legittimità dell’omicidio. Ivan si rivolta contro un Dio omicida; ma dall’istante in cui applica alla propria rivolta il raziocinio, ne trae la legge dell’omicidio. Se tutto è permesso, può uccidere suo padre, o almeno tollerare che sia ucciso. Una lunga riflessione sulla nostra situazione di condannati a morte conduce soltanto alla giustificazione del delitto. Ivan, al tempo stesso, odia la pena di morte (raccontando un’esecuzione, dice ferocemente: “La sua testa cadde, in nome della grazia divina”) e ammette, di massima, il delitto. Tutte le indulgenze per l’omicida, nessuna per il giustiziere. Questa contraddizione, nella quale Sade viveva a proprio agio, esaspera invece Ivan Karamazov. Egli finge infatti di ragionare come se l’immortalità non esistesse, mentre s’è limitato a dire che la rifiuterebbe anche se esistesse. Per protestare contro il male e la morte, sceglie dunque, deliberatamente, di dire che la virtù non esiste più in quanto non esiste l’immortalità, e lascia uccidere suo padre. Accetta scientemente il proprio dilemma: essere virtuoso e illogico, oppure logico e criminale. La sua ombra, il diavolo, ha ragione quando gli sussurra: “Vuoi compiere un’azione virtuosa eppure non credi alla virtù, ecco quello che ti irrita e ti tormenta.” La domanda che si pone infine Ivan, quella che costituisce il vero progresso che Dostojevskij fa compiere allo spirito di rivolta, è la sola che qui c’interessi: si può vivere e permanere nella rivolta? Ivan lascia indovinare la sua risposta: non si può vivere nella rivolta se non portandola al limite. Che cos’è l’estremo della rivolta metafisica? La rivoluzione metafisica. Il signore del mondo, contestata la sua legittimità, dev’essere rovesciato. L’uomo deve occupare il suo posto. “Poiché Dio e l’immortalità non esistono, è lecito all’uomo nuovo divenire Dio.” Ma che cosa significa essere Dio? Riconoscere appunto che tutto è lecito; rifiutare ogni altra legge che non sia la propria. Senza che occorra sviluppare i ragionamenti intermedi, si discerne così che divenire Dio è accettare il delitto (idea favorita degli intellettuali di Dostojevskij). Il problema personale di Ivan consiste dunque nel sapere se sarà fedele alla propria logica e se, partito da una protesta indignata davanti alla sofferenza innocente, accetterà l’uccisione del padre con l’indifferenza di un uomo-dio. La sua soluzione è nota: Ivan lascerà uccidere il padre. Troppo profondo perché gli basti il sembrare, troppo sensibile per agire, si accontenterà di lasciar fare. Ma impazzirà. L’uomo che non capiva come si potesse amare il proprio prossimo non comprende neppure come si possa ucciderlo. Costretto tra una virtù ingiustificabile e un delitto inaccettabile, divorato dalla pietà e incapace d’amore, solitario privo di un soccorrevole cinismo, la contraddizione ucciderà quell’intelligenza sovrana. “Ho uno spirito terrestre,” diceva. “A che scopo voler capire quello che non è di questo mondo?” Ma non viveva se non per quello che non è di questo mondo, e quest’orgoglio d’assoluto lo sottraeva appunto alla terra di cui nulla amava. Il suo naufragio non toglie, del resto, che, posto il problema,dovesse venirne la conseguenza: la rivolta è ormai in cammino verso l’azione. Questo movimento è già indicato da Dostojevskij, con intensità profetica, nella leggenda del Grande Inquisitore. Ivan, insomma, non scinde la creazione dal suo creatore. “Non respingo Dio,” dice, “respingo la creazione.” In altre parole, respinge Dio padre, inseparabile da ciò che ha creato Il suo progetto d’usurpazione rimane dunque puramente morale. Non vuole riformare nulla nella creazione. Ma la creazione essendo qual è, ne desume il diritto di affrancarsi moralmente, e gli altri uomini con lui. Al contrario, dal momento in cui lo spirito di rivolta, accettando il “tutto è lecito” e il “tutti o nessuno”, tenderà a rifare la creazione per assicurare la regalità e la divinità degli uomini, dal momento in cui la rivoluzione metafisica si estenderà dall’etica alla politica, avrà inizio una nuova impresa di portata incalcolabile, nata anch’essa, dobbiamo notare, dal medesimo nichilismo. Dostojevskij, profeta della nuova religione, l’aveva prevista e annunciata: “Se Alioscia avesse concluso che né Dio né l’immortalità esistevano, sarebbe subito divenuto ateo e socialista. Poiché il socialismo non è soltanto la questione operaia, è soprattutto la questione dell’ateismo, della sua incarnazione contemporanea, la questione della torre di Babele, che si erige senza Dio, non per raggiungere i cieli dalla terra, ma per abbassare i cieli fino alla terra.
Dopo questo, Alioscia può effettivamente trattare Ivan, con intenerimento, da “vero sbarbatello”. Si sforzava soltanto al dominio di sé e non vi riusciva. Altri verranno, più seri, che, muovendo dalla stessa negazione disperata, esigeranno il dominio del mondo. Sono i Grandi Inquisitori che imprigionano Cristo e vengono a dirgli che il suo non è il metodo adatto, che la felicità universale non si può ottenere mediante la libertà immediata di scegliere tra il bene e il male, ma con il dominio e l’unificazione del mondo. Bisogna regnare innanzi tutto, e conquistare. Il regno dei cieli verrà effettivamente sulla terra, ma ci regneranno gli uomini, dapprima alcuni che saranno i Cesari, quelli che hanno capito per primi, e tutti gli altri in seguito, col tempo. L’unità della creazione si farà, con qualunque mezzo, poiché tutto è lecito. Il Grande Inquisitore è vecchio e stanco, perché la sua scienza è amara. Sa che gli uomini sono più pigri che vili, e preferiscono la pace e la morte alla libertà di discernere il bene e il male. Ha pietà, una pietà fredda, di quel prigioniero silenzioso che la storia smentisce senza posa. Lo incalza a parlare, a riconoscere i suoi torti e a legittimare, in certo senso, l’impresa degli Inquisitori e dei Cesari. Ma il prigioniero tace. La loro impresa continuerà dunque senza di lui: lo si ucciderà. La legittimità verrà alla fine dei tempi quando il regno degli uomini sarà assicurato. “La faccenda è soltanto all’inizio, e ben lungi dall’essere finita, e la terra avrà molto ancora da soffrire, ma raggiungeremo il nostro scopo, saremo Cesare, e penseremo allora alla felicità universale.” Il prigioniero, dopo di allora, è stato giustiziato; soli regnano i Grandi Inquisitori che ascoltano “lo spirito profondo, lo spirito di distruzione e di morte”. I Grandi Inquisitori rifiutano fieramente il pane del cielo e la libertà ed offrono il pane della terra senza libertà. “Scendi dalla croce e crederemo in te,” già gridavano i loro poliziotti sul Golgota. Ma egli non è sceso e anzi, nell’istante più martoriato dell’agonia, s’è lagnato con Dio di essere stato abbandonato. Non ci sono più prove dunque, ma la fede e il mistero, che gli insorti respingono, e i Grandi Inquisitori beffeggiano. Tutto è lecito e in quell’attimo sconvolto si sono preparati i secoli del delitto. Da Paolo a Stalin, i papi che hanno scelto Cesare hanno spianato la via ai Cesari che non scelgono che se stessi. L’unità del mondo che non s’è fatta con Dio tenterà ormai di farsi contro Dio. Ma non siamo ancora a questo. Per il momento, Ivan ci offre soltanto il volto disfatto dell’uomo in rivolta ridotto all’abisso, incapace d’azione, dilaniato tra l’idea della propria innocenza e la volontà d’assassino. Odia la pena di morte perché essa è l’immagine della condizione umana, e ad un tempo incede verso il delitto. Per aver parteggiato per gli uomini, sua parte è la solitudine. La rivolta della ragione, con lui, termina in pazzia".  
 

Nessun commento:

Posta un commento