Da "I fratelli Karamazov" di Fedor Dostoevskij e da "l'uomo in rivolta" di Albert Camus
I pensieri di Ivan Karamazov ed il suo Il
Grande Inquisitore
Sedevo qui poco
fa e pensavo di me stesso: anche se non credessi nella vita, anche se avessi
perso la fiducia nella donna che amo, se avessi perso la fiducia nell'ordine
delle cose e mi fossi invece convinto che tutto è disordine, dannazione e,
addirittura, diabolico caos, se fossi rimasto colpito da tutti gli orrori della
delusione umana, tuttavia continuerei a desiderare di vivere e, dal momento che
ho assaporato questo calice, non mi staccherò da esso fino a quando non avrò bevuto
fino all'ultima goccia! Del resto, all'età di trent'anni potrei pure gettare
questo calice, decidere di non bere fino all'ultima goccia e andare via...
dove, non so. Ma fino ai trent'anni, questo lo so per certo, la mia giovinezza
sconfiggerà tutto il resto: tutte le delusioni, tutta la repulsione per la
vita. Mi sono domandato molte volte: esiste sulla terra una disperazione che
possa sopraffare in me questa frenetica e, forse, sconveniente sete di vivere?
E ho concluso che, a quanto pare, non esiste, cioè, torno a ripeterlo, almeno
fino all'età di trent'anni; allora forse sarò io stesso a perdere la voglia,
almeno così credo. Alcuni moralisti tisici e mocciosi - i poeti soprattutto -
spesso definiscono gretta questa voglia di vivere. Questa sete di vivere è, in
parte, una caratteristica dei Karamazov, questo lo so, e, nonostante tutto,
essa esiste anche in te, sono sicuro, ma perché poi dovrebbe essere gretta? La
forza centripeta sul nostro pianeta è ancora terribilmente forte, Alëša. Ho
voglia di vivere e vivo, anche a dispetto della logica. Sebbene io possa non
credere nell'ordine delle cose, tuttavia amo le foglioline vischiose che si
dischiudono in primavera, amo il cielo azzurro, amo alcune persone che a volte
si amano senza sapere esattamente il perché - ci crederesti? - amo alcune
grandi imprese umane, sebbene da un pezzo abbia cessato di credere in esse,
eppure per una vecchia abitudine le ammiro con tutto il cuore. Ecco, ti hanno
portato la zuppa, mangiala, ti farà bene. È ottima, qui la sanno fare bene.
Voglio girare l'Europa, Alëša, una volta partito di qui; eppure mi rendo conto
di recarmi soltanto in un cimitero, nel più prezioso dei cimiteri, ecco cos'è! Valorosi
sono i defunti ivi sepolti, ogni pietra sopra di essi parla di una vita così
fervida in passato, di una fede così appassionata nelle proprie azioni, nella
propria verità, nella propria lotta e nella propria scienza che io, lo so già,
cadrò per terra e bacerò quelle pietre e piangerò su di esse - sebbene, in cuor
mio, io sia convinto che quello, da molto tempo ormai, non è altro che un
cimitero, niente di più. E non piangerò di disperazione, ma solo perché sarò
felice di versare le mie lacrime. Mi inebrierò della mia stessa commozione. Io
amo le vischiose foglioline primaverili, il cielo azzurro, ecco cosa ti dico!
Qui non c'entrano l'intelligenza, la logica, questo è amare dal proprio intimo,
dalle viscere, amare la forza della propria giovinezza... Ci hai capito niente
di questo mio farneticare, eh, Alëša?», scoppiò a ridere Ivan all'improvviso.
*****
«Devo farti una
confessione», esordì Ivan, «non ho mai potuto capire come si possa amare il
prossimo. Secondo me, è impossibile amare proprio
quelli che ti
stanno vicino, mentre si potrebbe amare chi ci sta lontano.
Una volta ho
letto da qualche parte la storia di "Giovanni il misericordioso", un santo: un viandante
affamato e infreddolito andò da lui
e gli chiese di
riscaldarlo e quello lo fece coricare nel letto insieme a lui, lo abbracciò e
prese a soffiargli nella bocca, putrida e puzzolente a causa di una terribile
malattia. Io sono convinto che egli lo facesse per una lacerazione piena di
falsità, per il dovere di amare che gli era stato imposto, per una penitenza
che si era inflitto. Perché si possa amare una persona, è necessario che essa
si celi alla vista, perché non appena essa mostrerà il suo viso, l'amore verrà
meno».
«Più di una
volta, lo starec Zosima ha parlato di questo», osservò Alëša; «ha anche
detto che spesso il viso di un uomo, per chi è inesperto in amore, diventa un
ostacolo per l'amore. Tuttavia, c'è anche molto amore nell'umanità, amore quasi
comparabile a quello di Cristo, questo l'ho visto
io stesso,
Ivan...»
«Be', io non ne
so niente di questo per ora e non posso capire, e, come me, una moltitudine
innumerevole di uomini. La questione è se questo è dovuto alle cattive qualità
degli uomini o se tale è la loro natura. Secondo me, l'amore di Cristo per gli
uomini è una specie di miracolo impossibile sulla terra. Vero è che egli era
Dio. Ma noi non siamo dèi. Supponiamo, per esempio, che io soffra
profondamente: un'altra persona non potrà mai sapere fino a che punto io
soffra, perché lui è un'altra persona e non è me, e, soprattutto, è raro che un
uomo sia disposto a riconoscere in un altro un uomo che soffre (come se si
trattasse di un'onorificenza). Perché non è disposto a farlo, tu che ne pensi?
Perché, ad esempio, ho un cattivo odore, perché ho una faccia stupida, o perché
una volta gli ho pestato un piede. E poi c'è sofferenza e sofferenza: una sofferenza
degradante, umiliante come la fame, per esempio, il mio benefattore me la può
ancora concedere, forse, ma quando la sofferenza è a uno stadio superiore,
quando, per esempio, si soffre per un'idea, quella non me la accetterà, perché,
diciamo, dandomi un'occhiata, ha visto che non ho affatto la faccia che,
secondo la sua immaginazione, dovrebbe avere una persona che soffre per
un'idea. E quindi egli mi priva immediatamente dei suoi favori, e non si può
dire che lo faccia per cattiveria. I mendicanti, soprattutto quelli nobili, non
dovrebbero mai mostrarsi, ma dovrebbero chiedere l'elemosina rimanendo nascosti
dietro i giornali. Si può amare il prossimo in astratto, a volte anche da
lontano, ma da vicino è quasi sempre impossibile. Se tutto fosse come a teatro,
nei balletti, dove, quando appaiono mendicanti, essi indossano stracci di seta
e pizzi lacerati e chiedono l'elemosina danzando leggiadramente, be', in tal
caso, li si potrebbe ancora ammirare. Ammirare, ma non amare. Ma finiamola con questo
argomento. Volevo soltanto esporti il mio punto di vista. Volevo parlare delle
sofferenze dell'umanità in generale, ma è meglio se ci soffermiamo solo sulle
sofferenze dei bambini. Questo riduce le mie argomentazioni ad un decimo della
loro portata, ma è meglio parlare solo dei bambini, sebbene questo non vada a
mio vantaggio. In primo luogo, i bambini si possono amare anche da vicino,
anche se sono sporchi, brutti di viso (anche se a me pare che i bambini non
siano mai brutti). Il secondo motivo per cui non voglio parlare degli adulti è
che, oltre ad essere disgustosi e incapaci di meritarsi l'amore, per loro si
tratta anche della giusta punizione: hanno mangiato la mela, conoscono il bene
e il male, e sono divenuti "come Dio". E continuano a mangiarla anche
adesso. I bambini invece non hanno mangiato niente e per ora non sono colpevoli
di nulla. Tu ami i bambini, Alëša? So
che li ami e certo capirai per quale motivo voglio parlare solo di loro. E se
anche loro soffrono terribilmente su questa terra, è ovviamente per colpa dei
loro padri, sono puniti a causa dei loro padri che hanno mangiato la mela; ma
questo ragionamento appartiene ad un altro mondo, ed è incomprensibile per il
cuore umano qui sulla terra. Gli innocenti non devono soffrire per le colpe
degli altri, soprattutto se sono innocenti come i bambini! Forse ti
meraviglierò, Alëša, ma anch'io amo moltissimo i bambini. E nota bene che le
persone crudeli, passionali, sensuali - la gente tipo i Karamazov, insomma -
non di rado amano molto i bambini. I bambini, finché rimangono piccoli, diciamo
fino all'età di sette anni, sono molto diversi dagli adulti: sembrano degli
esseri a sé stanti, con una natura tutta propria.
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La gente spesso parla di crudeltà "bestiale" dell'uomo, ma questo è terribilmente ingiusto e offensivo per le bestie: un animale non potrebbe mai essere crudele quanto un uomo, crudele in maniera così artistica e creativa. La tigre azzanna e dilania, ma sa fare solo quello. Non le verrebbe mai in mente di prendere le persone e farle restare inchiodate per le orecchie per un'intera nottata, nemmeno se fosse in grado di fare una cosa simile.
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«Io credo che se
il diavolo non esiste e se, quindi, è stato l'uomo ad inventarlo, questi l'ha
creato a sua immagine e somiglianza».
«Proprio come ha
fatto con Dio, allora».
«È stupefacente
il modo in cui riesci a rigirare le parole, come dice Polonio nell'Amleto»,
scoppiò a ridere Ivan. «Mi hai preso proprio in parola, ne sono contento. Il
tuo deve essere un buon Dio, se l'uomo l'ha creato a sua immagine e
somiglianza.
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È proprio la
mancanza di difesa di quelle creature che seduce il torturatore, la fiducia
angelica dei bambini, che non sanno dove andare e a chi rivolgersi: è proprio
questo che infiamma l'abominevole sangue dell'aguzzino. In ogni uomo, certo, si
nasconde una bestia, la bestia dell'irascibilità, la bestia dell'eccitabilità
dei sensi alle grida della vittima torturata, la bestia sfrenata libera da
catene, la bestia delle malattie contratte nel vizio, la gotta, le infezioni
del fegato, e così via.
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La capisci
questa assurdità, amico mio, fratello mio, pio e umile novizio di Dio, tu lo
capisci a che scopo è stata creata questa assurdità, a che cosa serve? Senza di
essa, dicono, l'uomo non avrebbe potuto esistere sulla terra, giacché non
avrebbe conosciuto il bene e il male. Ma a che serve conoscere questo maledetto
bene e male, se il prezzo da pagare è così alto? Infatti, tutto un mondo di
conoscenza non vale le lacrime di quella bambina al suo "buon Dio".
Non sto parlando delle sofferenze degli adulti, che hanno mangiato la mela, che
vadano al diavolo e che il diavolo se li pigli tutti quanti, ma di quelle dei
bambini, dei bambini! Ti sto tormentando, Alëša, sembri fuori di te. La smetto,
se vuoi».
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«Ascoltami: ho
preso il caso dei bambini perché tutto fosse più evidente. Di tutte le altre
lacrime dell'umanità, delle quali è imbevuta la terra intera, dalla crosta fino
al centro, non dirò nemmeno una parola, ho ristretto di proposito l' ambito
della mia discussione. Io sono una cimice e riconosco in tutta umiltà che non
capisco per nulla perché il mondo sia fatto così. Vuol dire che gli uomini
stessi hanno colpa di questo: è stato concesso loro il paradiso, ma essi hanno
voluto la libertà e hanno rubato il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero
diventati infelici, quindi non c'è tanto da impietosirsi per loro. La mia
povera mente, terrestre ed euclidea, arriva solo a capire che la sofferenza
c'è, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa deriva dall'altra direttamente,
semplicemente, che tutto scorre e si livella - ma queste sono soltanto
baggianate euclidee, io lo so, e non posso accettare di vivere in questo modo!
Che conforto mi può dare il fatto che non ci sono colpevoli e che questo io lo
so - io devo avere la giusta punizione, altrimenti distruggerò me stesso. E non
già la giusta punizione nell'infinito di un tempo o di uno spazio remoti, ma
qui sulla terra, in modo che io la possa vedere con i miei occhi. Ho creduto e
voglio vedere con i miei occhi, e se per quel giorno sarò già morto, che mi
resuscitino, giacché se tutto accadesse senza di me, sarebbe troppo ingiusto.
Certo non ho sofferto unicamente per concimare con me stesso, con le mie
malefatte e le mie sofferenze, l'armonia futura di qualcun altro. Io voglio
vedere con i miei occhi il daino sdraiato accanto al leone e la vittima che si
alza ad abbracciare il suo assassino. Voglio essere presente quando d'un tratto
si scoprirà perché tutto è stato com'è stato. Tutte le religioni di questo
mondo si basano su questa aspirazione, e io sono un credente. Ma ci sono i bambini:
che cosa dovrò fare con loro? È questa la domanda alla quale non
so dare
risposta. Per la centesima volta lo ripeto: c'è una miriade di questioni, ma ho
preso soltanto l'esempio dei bambini, perché nel loro caso
quello che voglio
dire risulta inoppugnabilmente chiaro. Ascolta: se tutti devono soffrire per
comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano qui i bambini?
Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile il motivo per cui
dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure a loro comprare l'armonia
con le sofferenze. Perché anch'essi dovrebbero costituire il materiale per
concimare l'armonia futura di qualcun altro? La solidarietà fra gli uomini nel
peccato la capisco, capisco la solidarietà nella giusta punizione, ma con i
bambini non ci può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devono
condividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loro padri,
allora io dico che una tale verità non è di questo mondo e io non la capisco.
Qualche spiritoso potrebbe dirmi che quel bambino sarebbe comunque cresciuto e avrebbe
peccato, ma, come vedete, egli non è cresciuto, è stato dilaniato dai cani
all'età di otto anni. Oh, Alëša, non sto bestemmiando! Io capisco quale
sconvolgimento universale avverrà quando ogni cosa in cielo e sotto terra si
fonderà in un unico inno di lode e ogni creatura viva, o che ha vissuto,
griderà: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono state rivelate!"
Quando la madre abbraccerà l'aguzzino che ha fatto dilaniare suo figlio dai
cani e tutti e tre grideranno fra le lacrime: "Tu sei giusto, o Signore!":
allora si sarà raggiunto il coronamento della conoscenza e tutto sarà chiaro.
Ma l'intoppo è proprio qui: è proprio questo che non posso accettare. E
fintanto che mi trovo sulla terra, mi affretto a prendere i miei provvedimenti.
Vedi, Alëša, potrebbe accadere davvero che se vivessi fino
a quel giorno o
se risorgessi per vederlo, guardando la madre che abbraccia l'aguzzino di suo
figlio, anch'io potrei mettermi a gridare con gli
altri: "Tu
sei giusto, o Signore!"; ma io non voglio gridare allora. Finché c'è
tempo, voglio correre ai ripari e quindi rifiuto decisamente l'armonia superiore.
Essa non vale le lacrime neanche di quella sola bambina torturata, che si batte
il petto con il pugno piccino e prega in quel fetido stambugio, piangendo
lacrime irriscattate al suo "buon Dio"! Non vale, perché quelle
lacrime sono rimaste irriscattate. Ma esse devono essere riscattate, altrimenti
non ci può essere armonia. Ma in che modo puoi riscattarle? È forse possibile?
Forse con la promessa che saranno vendicate? Ma che cosa me ne importa della
vendetta, a che mi serve l'inferno per i torturatori, che cosa può riparare
l'inferno in questo caso, quando quei bambini sono già stati torturati? E quale
armonia potrà esserci
se c'è
l'inferno? Io voglio perdonare e voglio abbracciare, ma non voglio che si
continui a soffrire. E se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la
somma delle sofferenze necessaria all'acquisto della verità, allora io dichiaro
in anticipo che la verità tutta non vale un prezzo così alto. Non voglio
insomma che la madre abbracci l'aguzzino che ha fatto dilaniare il figlio dai
cani! Non deve osare perdonarlo! Che perdoni a nome suo, se vuole, che perdoni
l'aguzzino per l'incommensurabile sofferenza inflitta al suo cuore di madre; ma
le sofferenze del suo piccino dilaniato ella non ha il diritto di perdonarle,
ella non deve osare di perdonare quell'aguzzino per quelle sofferenze, neanche
se il bambino stesso gliele avesse perdonate! E se le cose stanno così, se essi
non oseranno perdonare, dove va a finire l'armonia? C'è forse un essere in
tutto il mondo che potrebbe o avrebbe il diritto di perdonare? Non voglio l'armonia,
è per amore dell'umanità che non la voglio. Preferisco rimanere con le
sofferenze non vendicate. Preferisco rimanere con le mie sofferenze
non vendicate e
nella mia indignazione insoddisfatta, anche se non dovessi
avere ragione. Hanno fissato
un prezzo troppo alto per l'armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto
per accedervi. Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d'entrata. E se
sono un uomo onesto, sono tenuto a farlo al più presto. E lo sto facendo. Non che
non accetti Dio, Alëša, gli sto
solo
restituendo, con la massima deferenza, il suo biglietto».
«Questa è
ribellione», disse Alëša sommessamente e a capo chino.
«Ribellione? Non
avrei voluto sentire una parola simile da te»,replicò Ivan con ardore. «È impossibile
vivere nella ribellione, mentre io voglio vivere. Dimmelo tu, ti sfido,
rispondimi: immagina che tocchi a te innalzare l'edificio del destino umano
allo scopo finale di rendere gli uomini felici e di dare loro pace e
tranquillità, ma immagina pure che per far questo sia necessario e inevitabile
torturare almeno un piccolo esserino, ecco, proprio quella bambina che si
batteva il petto con il pugno, immagina che l'edificio debba fondarsi sulle
lacrime invendicate di quella bambina - accetteresti di essere l'architetto a
queste condizioni? Su, dimmelo e non mentire!»
****
Lo sai, Alëša,
non ridere, ma io ho composto un poema, circa un anno fa. Se tu potessi perdere
insieme a me ancora una decina di minuti, te lo racconterei, puoi?»
«Tu hai scritto
un poema?»
«No, non l'ho
scritto», scoppiò a ridere Ivan, «e in vita mia non ho mai messo insieme
nemmeno un paio di versi. Ma ho inventato un poema e l'ho tenuto a mente. Ero
molto ispirato quando l'ho inventato. Tu sarai il mio primo lettore, anzi
ascoltatore. Difatti, perché mai un autore dovrebbe lasciarsi sfuggire
l'occasione di conquistare anche un solo ascoltatore?», disse Ivan sorridendo.
«Vuoi che te lo
racconti oppure no?»
«Sono
tutt'orecchi», rispose Alëša.
«Il mio poema
s'intitola "Il Grande Inquisitore": è una cosa un po' assurda, ma
voglio raccontartela».
«Ma persino
questo mio racconto ha bisogno di una premessa, cioè una premessa letteraria,
uff!», scoppiò a ridere Ivan. «Sapessi che grande autore che sono! Vedi,
l'azione si svolge nel sedicesimo secolo e a quel tempo - tu del resto dovresti
ricordarlo per averlo studiato a scuola - c'era l'abitudine, nelle opere di
poesia, di portare sulla terra le potenze celesti. Per non parlare di Dante! In
Francia, gli scrivani dei tribunali, come anche i monaci dei conventi,
inscenavano vere e proprie rappresentazioni nelle quali si portavano sul
palcoscenico la Madonna, gli angeli e i santi, Gesù Cristo e persino Dio. A
quel tempo lo facevano con grande ingenuità. In Notre-Dame de Paris di
Victor Hugo, a Parigi, al tempo di Luigi XI fu organizzato uno spettacolo
edificante e gratuito per il popolo nella sala del Municipio in onore della
nascita del delfino francese, e lo spettacolo era intitolato: "Le bon
jugement de la très sainte et gracieuse Vierge Marie", dove la Vergine
Maria appariva di persona a pronunciare il suo bon jugement. Da noi, a
Mosca, nell'età anteriore a Pietro, di tanto in tanto si mettevano in scena
rappresentazioni dello stesso genere, soprattutto tratte dal Vecchio
Testamento; ma, a quel tempo, oltre alle rappresentazioni teatrali, in tutto il
mondo circolavano racconti e "versi" nei quali comparivano,
all'occorrenza, santi, angeli e tutte le potenze celesti. Nei nostri monasteri
si traducevano, si copiavano e, addirittura, si componevano opere di questo
genere sin dai tempi della dominazione tatara. Esiste, per esempio, un poemetto
scritto in un monastero (ovviamente tradotto dal greco): "Il
pellegrinaggio della Madre di Dio attraverso le pene", che presenta
una potenza di immagini e un'arditezza non inferiori a quelle dantesche. La Madonna
visita l'inferno, ed è l'arcangelo Michele a guidarla "fra le pene".
Ella vede i peccatori e i loro tormenti. Fra gli altri, vede una schiera di
peccatori oltremodo interessante in un lago di fuoco: quelli fra loro che
affondano nel lago e non riescono a riemergere, sono "già dimenticati da
Dio" - espressione di eccezionale profondità e potenza. Ed ecco che la
Vergine, sconvolta e piangente, cade in ginocchio dinanzi al trono di Dio e
chiede la grazia per tutti i peccatori dell'inferno che ha visto, per tutti,
senza distinzioni. La sua conversazione con Dio è di estremo interesse. Ella
supplica, non desiste, e quando Dio le mostra le mani e i piedi del Figlio suo
con le ferite dei chiodi della croce e domanda: "Come posso io perdonare
ai suoi torturatori?", allora ella ordina a tutti i santi, a tutti i
martiri, a tutti gli angeli e gli arcangeli di cadere in ginocchio insieme a
lei e pregare perché sia concessa la grazia a tutti senza distinzioni. Alla
fine impetra da Dio la sospensione delle pene dal Venerdì Santo al giorno della
Santissima Trinità di ogni anno, e i peccatori dall'inferno ringraziano Dio e
innalzano a lui inni di lode: "Giusto sei tu, o Signore, che così
giudicasti". Ecco, anche il mio poemetto sarebbe stato di questo genere se
fosse apparso a quel tempo. Nel mio poema egli appare sulla scena, anche se poi
non dice nulla, fa la sua comparsa e va via.
Sono passati
quindici secoli da quando egli ha promesso che sarebbe tornato nel suo regno,
quindici secoli da quando il suo profeta aveva scritto: "Un altro poco e
mi vedrete"; "In quanto poi a quel giorno e a quell'ora nessuno li
sa, né gli angeli del cielo, né il Figlio, ma solo il Padre", come Egli
stesso aveva predetto quando era sulla terra. Ma l'umanità lo aspetta con la
stessa fede e la stessa commozione. Anzi, forse, con più fede di prima, giacché
sono passati quindici secoli da quando sono cessati i pegni celesti per l'uomo:
Abbi
fede nei suggerimenti del cuore
Perché
i cieli non danno più pegni.
Non era rimasto
altro che la fede nei suggerimenti del cuore! Vero è che a quel tempo si
compivano molti miracoli. C'erano santi che compivano guarigioni miracolose;
alcuni giusti, a quanto si dice nelle loro biografie, venivano visitati dalla
Regina dei Cieli. Ma il diavolo non sonnecchiava e nell'umanità si affacciavano
già dubbi sull'autenticità di quei miracoli. Proprio allora, al nord, in
Germania si affermò una nuova terribile eresia. Un'enorme stella "ardente
come fiaccola" (cioè come la Chiesa) "cadde sulle fonti delle acque
ed esse divennero amare". Questi eretici cominciarono a negare i miracoli
in modo blasfemo. Ma quelli che rimasero fedeli, credettero con maggior
fervore. Le lacrime dell'umanità si innalzarono a lui come prima, lo
aspettavano, lo amavano, speravano in lui, anelavano a soffrire e morire per
lui, come prima... Erano ormai tanti secoli che l'umanità pregava con fede e
fervore: "O Signore, manifestati a noi", tanti secoli che lo
invocava, così egli infine, nella sua infinita misericordia, accondiscese a
scendere dai suoi fedeli. Anche prima di quel giorno egli era sceso, aveva
visitato alcuni giusti, martiri, santi ed eremiti, com'è scritto nelle loro
"vite". Da noi, Tjutèev, con fede profonda nella verità delle proprie
parole, dichiarò che
Con
il fardello della croce
il
Re Celeste nelle vesti di schiavo
ti
attraversò tutta, Terra natia
distribuendo
benedizioni.
Che sia stato
sicuramente così, te lo assicuro. Ed ecco che egli sentì il desiderio di
mostrarsi anche solo per un attimo al popolo, al popolo angariato, sofferente,
macchiato dal peccato, ma un popolo che lo amava come un bambino. L'azione si
svolge in Spagna, a Siviglia, nel periodo più
cupo
dell'Inquisizione, quando ogni giorno bruciavano in quel paese roghi
in nome di Dio
e...
Negli
splendenti auto da fé
i
perversi eretici venivano bruciati.
Oh, certo non si
trattava della venuta nella quale egli ha promesso di manifestarsi alla fine
dei secoli in tutta la sua gloria celeste, e che sarà "rapida come il
lampo che brilla da oriente a occidente". No, egli ebbe il desiderio di
visitare i suoi figli, sebbene per un solo istante, proprio laddove crepitavano
i roghi degli eretici. Nella sua infinita misericordia, egli passa ancora una
volta fra gli uomini assumendo quelle stesse spoglie umane sotto le quali era
passato fra gli uomini per tre anni, quindici secoli prima. Egli scese proprio
"sulle piazze roventi" della città meridionale, nella quale proprio
il giorno prima, in uno "splendido auto da fé", alla presenza del re,
della corte, dei cavalieri, dei cardinali e delle magnifiche dame di corte,
dinanzi all'innumerevole popolazione di tutta Siviglia, il cardinale grande
inquisitore aveva fatto bruciare quasi un centinaio di eretici ad majorem
gloriam Dei. Egli compare senza trambusto, inosservato eppure tutti - e
questo è molto strano - lo riconoscono. Potrebbe essere uno dei passi migliori
del poema, voglio dire, cercare di capire come mai lo riconoscano tutti. Il
popolo è irresistibilmente attratto da lui, lo circonda, s'ingrossa intorno a
lui e lo segue. Egli passa attraverso la gente con un sorriso tranquillo di
infinita compassione. Il sole dell'amore arde nel suo cuore, raggi di Luce,
Sapienza e Potenza si irradiano dai suoi occhi e, riversandosi sugli uomini,
suscitano nei loro cuori un moto di reciproco amore. Egli stende le mani sul
popolo, lo benedice e il contatto con il suo corpo, persino solo con i suoi
vestiti, emana un potere guaritore. Ecco che un vecchio, cieco dall'infanzia,
grida dalla folla: "Signore, guariscimi e anche io ti vedrò", ed è
come se una squama si staccasse dai suoi occhi e il vecchio Lo vede. Il popolo
piange e bacia la terra da lui calpestata. I bambini gettano fiori al suo
passaggio, cantano inni di lode: "Osanna!", "È lui, è proprio
lui", ripetono tutti; "deve essere lui, non c'è nessuno uguale a
lui". Egli si ferma sul sagrato della cattedrale di Siviglia nello stesso
momento in cui stanno introducendo in chiesa, fra i pianti, una piccola bara
infantile, bianca; è scoperta: vi giace una bambina di sette anni, figlia unica
di un notabile cittadino. Il corpicino morto è tutto ricoperto di fiori.
"Egli resusciterà la tua bimba", grida la folla alla madre in
lacrime. Il prete, uscito incontro alla bara, guarda con aria perplessa e
aggrotta la fronte. Ma ecco che si leva l'urlo della madre della bambina
defunta. Ella si getta ai suoi piedi e dice: "Se sei davvero tu, resuscita
la mia bimba!" grida protendendo le braccia verso di lui. La processione
si ferma, poggiano la piccola bara sul sagrato, ai suoi piedi. Egli la guarda
con compassione e le sue labbra sussurrano ancora una volta: "Talitha
kumi" - "alzati fanciulla". La bambina si solleva nella
bara, si siede e si guarda attorno sorridendo e con gli occhietti spalancati
per la meraviglia. Fra le mani ha il mazzolino di rose bianche con cui giaceva nella
bara. Fra il popolo prorompono grida, singhiozzi, confusione ed ecco che in
quel preciso istante passa accanto alla cattedrale, per la piazza, il cardinale
grande inquisitore in persona. È un vecchio di quasi novant'anni, alto e
diritto, con il volto avvizzito e gli occhi incavati, dai quali però ancora
risplende uno sprazzo di luce, come una scintilla. Egli non indossa i
sontuosi
paramenti cardinalizi che aveva sfoggiato il giorno prima davanti al popolo,
quando aveva appiccato il fuoco ai nemici della fede di Roma, no, in quel
momento indossa soltanto la sua vecchia e rozza tonaca monacale. Lo seguono, a
una certa distanza, i suoi tetri collaboratori, i suoi
servi, e la
"santa" guardia. Egli si ferma dinanzi alla folla e osserva da lontano.
Egli ha visto tutto, ha visto come poggiavano la bara dinanzi ai suoi piedi,
come ha resuscitato la bambina; il suo viso si è incupito. Egli tiene
aggrottate le folte ciglia bianche e nel suo sguardo brilla un bagliore sinistro.
Fa cenno col dito e ordina alle guardie di prenderlo. Ed ecco che, tanto è il
suo potere, a tal punto il popolo è ammaestrato, sottomesso e ubbidiente ai
suoi ordini, che la folla si apre in un baleno dinanzi alle guardie e quelle,
fra il silenzio di tomba calato all'improvviso, pongono le mani su di lui e lo
portano via. La folla intera, al pari di un uomo solo, in un baleno inchina la
testa fino al suolo davanti al vecchio inquisitore; questi, senza dire una
parola, benedice la folla e le passa accanto. Le guardie conducono il
prigioniero nell'angusta e cupa prigione a volta del vecchio palazzo del Santo
Tribunale e lo chiudono a chiave. Passa il giorno, scende la buia, calda e
"irrespirabile" notte sivigliana. L'aria "odora
di limoni e
alloro". Nelle tenebre profonde si apre all'improvviso la porta di ferro
della prigione, e il vecchio grande inquisitore in persona, con una lampada in
mano, entra lentamente nella prigione. Egli è solo, la porta dietro di lui si
richiude immediatamente. Egli si ferma accanto all'ingresso e scruta a lungo,
un minuto o forse due, il viso di lui. Finalmente, si avvicina piano piano,
poggia la lampada sul tavolo e gli dice:
"Sei tu?
Sei proprio tu?" Ma, senza aspettare la risposta, aggiunge subito: "Non rispondere, taci. E poi che
cosa potresti dirmi? Lo so già quello che mi diresti. E poi non hai nemmeno il
diritto di aggiungere nulla a ciò che da te è stato detto in precedenza. Perché
sei venuto a disturbarci? Giacché tu sei venuto per disturbarci e lo sai bene.
Non sai che cosa accadrà domani? Io non so chi tu sia e non voglio sapere se
sei tu o soltanto una parvenza di lui, ma domani stesso ti condannerò e ti farò
bruciare al rogo come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi
ha baciato i tuoi piedi, domani a un mio piccolo cenno si precipiterà ad
ammucchiare braci al tuo rogo, lo sai questo? Sì, forse lo sai", soggiunse
assorto nei suoi pensieri ma senza staccare per un attimo lo sguardo dal suo
prigioniero».
«Ivan, non
capisco proprio, ma che cosa vuol dire?», disse Alëša dopo aver ascoltato tutto
questo in silenzio. «È pura fantasia oppure una specie di errore da parte del
vecchio, una sorta di inconcepibile qui pro quo?»
«Prendi per
buona la seconda ipotesi», disse Ivan ridendo, «se sei già così viziato dal
realismo contemporaneo da non poter ammettere nulla di fantastico - vuoi che
sia un qui pro quo? E allora vada per il qui pro quo. È
vero», soggiunse
ridendo ancora, «il vecchio aveva novant'anni e gli poteva essere andato di
volta il cervello con quella sua idea. Poteva anche essere rimasto colpito
dalle sembianze del prigioniero. Oppure, infine, poteva trattarsi di delirio,
dell'allucinazione di un vecchio novantenne in punto di morte, esaltato per
giunta dall'auto da fé di un centinaio di eretici arsi il giorno prima.
Ma non fa lo stesso per noi che sia un qui pro quo o pura fantasia?
Quello che conta qui è che il vecchio sente il bisogno di esprimersi ad alta
voce, che finalmente dopo novant'anni egli si esprime e dica ad alta voce
quello su cui ha taciuto per tutti quei novant'anni».
«E anche il
prigioniero tace? Lo guarda e non gli dice una parola?»
«Ma questo è
addirittura inevitabile», scoppiò a ridere nuovamente Ivan. «Il vecchio stesso
ha detto che egli non ha nemmeno il diritto di aggiungere altro a quello che è
stato già detto. Se vuoi, è proprio questa la caratteristica fondamentale del
cattolicesimo romano, o per lo meno, a me sembra che esso dica: "Tu hai
trasmesso tutto nelle mani del papa, dunque tutto si trova ancora nelle mani
del papa, quindi adesso non stare a ritornare, non disturbarci, per il momento,
almeno". Con questi intenti non
solo parlano, ma
scrivono anche, i gesuiti per lo meno. L'ho letto io stesso nelle opere dei
loro teologi. "Hai tu il diritto di rivelarci anche uno solo dei
misteri di quel
mondo dal quale provieni?" gli domanda il mio vecchio e risponde al posto
suo: "No, non ne hai il diritto perché nulla deve essere aggiunto a quello
che in precedenza è stato detto, perché in nessun modo venga sottratta agli
uomini quella libertà alla quale tanto tenevi quando eri
su questa terra.
Tutto quello che di nuovo dichiarerai, minerà la libertà di fede degli uomini,
giacché apparirà come un miracolo, mentre la loro libertà di fede ti era più
cara di tutto già millecinquecento anni fa. Non dicevi spesso: 'Voglio rendervi
liberi?' Adesso hai visto come sono i tuoi uomini 'liberi'", soggiunse il
vecchio con un sogghigno pensoso. "Sì, questa faccenda ci è costata
cara", prosegue guardandolo con severità, "ma noi abbiamo portato a
termine questa faccenda nel tuo nome. Per quindici secoli siamo stati
tormentati da questa libertà, ma adesso è finita per sempre. Non ci credi che è
finita per sempre? Mi guardi con dolcezza e non mi degni neanche della tua
indignazione? Ma sappi che adesso, anche oggi, quella gente è convinta più che
mai di essere completamente libera, e
intanto essi
stessi ci hanno portato la loro libertà e l'hanno deposta umilmente ai nostri
piedi. Ma questo l'abbiamo fatto noi: era questo che volevi, era questa la tua
libertà?"»
«Ancora una volta
non mi è chiaro», lo interruppe Alëša, «ma sta ironizzando, lo prende forse in
giro?»
«Nient'affatto.
Rivendica come merito suo e dei suoi il fatto di aver finalmente sconfitto la
libertà e di averlo fatto per rendere gli uomini liberi. "Giacché solo adesso
(e qui chiaramente sta parlando dell'Inquisizione) è diventato possibile
pensare per la prima volta alla felicità degli uomini. L'uomo è stato creato
ribelle; ma i ribelli possono mai essere felici? Tu eri stato avvisato",
gli dice, "non ti sono mancati ammonimenti e avvertimenti, ma tu non hai
dato ascolto a quegli avvertimenti, tu hai respinto l'unico modo nel quale
l'uomo poteva essere reso felice, ma per fortuna, quando sei andato via, hai
passato ogni cosa nelle nostre mani. Tu hai fatto una promessa, tu l'hai
confermata con la tua parola, tu hai conferito a noi il diritto di fare e
disfare e ora, naturalmente, non puoi neanche pensare di toglierci questo
diritto. Perché sei venuto a disturbarci?"»
«E cosa vuol
dire: "non ti sono mancati ammonimenti e avvertimenti"?», domandò
Alëša.
«Questo
costituisce il punto fondamentale di ciò che il vecchio vuole esprimere.
"Lo spirito terribile e acuto, lo spirito dell'autodistruzione e della
non-esistenza", prosegue il vecchio, "il sublime spirito ha parlato con
te nel deserto e nelle Scritture ci viene tramandato che egli ti avrebbe 'tentato'.
È vero questo? E ci può essere niente di più vero di quello che ti annunciò in
quelle tre domande, quello che tu rifiutasti e che nelle Scritture porta il
nome di 'tentazioni'? Eppure, se sulla terra c'è mai stato un autentico
possente miracolo, quello ebbe luogo proprio quel giorno, il giorno delle tre
tentazioni. Il fatto stesso che quelle tre domande siano state formulate
costituisce il vero miracolo. Se fosse possibile immaginare, solo per il gusto
di fare un'ipotesi e a mo' di esempio, che quelle tre domande del terribile
spirito fossero svanite senza lasciare traccia nelle Scritture e che quindi
bisognasse rimpiazzarle, inventarle e crearle ex novo, per reinserirle nelle
Scritture, e se a questo scopo si riunissero tutti i saggi della terra -
governanti, sommi sacerdoti, scienziati, poeti - e ad essi si affidasse il
seguente compito: pensate, inventate tre domande che, non solo siano consone
alla portata dell'evento, ma soprattutto esprimano, in tre
parole, in sole
tre frasi umane, tutta la futura storia del mondo e dell'umanità - pensi che
tutta la saggezza del mondo messa insieme potrebbe escogitare qualcosa di
simile, in potenza e profondità, a quelle tre domande che ti vennero realmente
poste quel giorno nel deserto dallo spirito potente e acuto? Bastano quelle tre
domande, basta il miracolo che quelle domande siano state formulate per capire
che abbiamo a che fare non certo con la labile mente umana, ma con l'eterno,
l'assoluto. Poiché in quelle tre domande tutta la storia successiva
dell'umanità viene come predetta e fusa in un unico insieme; in esse sono
rivelate le tre forme nelle quali convergeranno tutte le insolubili
contraddizioni storiche della natura umana su tutta la terra. A quel tempo ciò
non poteva essere molto evidente, giacché il futuro era ignoto, ma ora che sono
passati quindici secoli, noi vediamo che in quelle tre domande era stato tutto
a tal punto indovinato e predetto, e a tal punto realizzato che ad esse non si
può aggiungere né sottrarre nulla.
Giudica da te
chi ha ragione: tu oppure colui che ti poneva le domande? Ricorda la prima
domanda: anche se non proprio alla lettera il suo senso era questo: 'Tu vuoi
andare nel mondo e ci vai a mani vuote, con una certa promessa di libertà che
essi, nella loro semplicità e innata sregolatezza, non possono nemmeno
concepire, una libertà che temono e paventano, giacché non c'è mai stato nulla
di più insopportabile, per l'uomo e per la società umana, della libertà! Ma le
vedi quelle pietre in questo spoglio deserto arroventato? Trasformale in pani e
l'umanità correrà dietro di te come un gregge, riconoscente e sottomesso,
sebbene eternamente in ansia che tu possa ritirare la mano e negarle il pane.'
Ma tu non volesti privare l'uomo della sua libertà e rifiutasti la proposta pensando:
che libertà può essere quella comprata con il pane? Replicasti che l'uomo non
vive di solo pane. Ma lo sai che per amore di quel pane terreno lo spirito
della terra si solleverà contro di te, combatterà contro di te e ti sconfiggerà
e tutti lo seguiranno gridando: 'Chi può stare alla pari con questa bestia,
essa ci ha dato il fuoco tolto dal cielo!' Non lo sai che le ere passeranno e
l'umanità proclamerà, per bocca dei suoi saggi e scienziati, che il delitto non
esiste e che dunque non esiste il peccato, ma esistono soltanto gli affamati?
'Da' da mangiare agli uomini e poi chiedi loro la virtù!': ecco che cosa
scriveranno sul vessillo che innalzeranno contro di te e con il quale la tua
Chiesa sarà distrutta. Al posto della tua Chiesa sarà innalzato un nuovo
edificio, sarà nuovamente innalzata la terribile torre di Babele e, sebbene
anche questa costruzione non sarà portata a termine, come la precedente, tu
comunque avresti potuto evitare questa nuova torre e accorciare le sofferenze
degli uomini di mille anni, giacché sarà da noi che essi verranno dopo essersi
tormentati mille anni intorno alla loro torre! Ci cercheranno di nuovo quando
saremo nascosti, sotto terra, nelle catacombe (giacché verremo nuovamente
perseguitati e torturati), ci troveranno e ci invocheranno: 'Sfamateci, giacché
coloro che ci hanno promesso il fuoco del cielo, non ce l'hanno dato.' E allora
noi finiremo di costruire la loro torre, giacché solo colui che li sfamerà
porterà a termine la costruzione, e saremo solo noi a sfamarli, nel tuo nome, e
mentiremo quando diremo che è nel tuo nome. Oh, senza di noi, non riusciranno
mai, mai a sfamarsi! Non c'è scienza che possa dare loro il pane finché essi
rimarranno liberi; ma andrà a finire che essi porteranno la loro libertà ai
nostri piedi e ci diranno: 'Fateci pure vostri schiavi, ma sfamateci.'
Finalmente capiranno da soli che la libertà e il pane terreno a sufficienza per
tutti sono inconcepibili insieme, giacché mai, dico mai, essi saranno in grado
di fare parti uguali! Si convinceranno pure che non potranno mai essere liberi
giacché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli. Tu hai promesso loro il pane
celeste ma, te lo ripeto ancora una volta, potrà esso mai stare alla pari con
il pane terreno agli occhi della debole, razza umana, eternamente viziosa e
eternamente ignobile? E se pure, in nome del pane celeste, ti seguiranno a
migliaia e decine di migliaia, che ne sarà dei milioni e delle decine di
migliaia di milioni di esseri che non avranno la forza di trascurare il pane
terreno per quello celeste? Oppure ti sono care soltanto le decine di migliaia
di grandi e forti, mentre i rimanenti milioni di deboli, innumerevoli come i
granelli della sabbia del mare, ma che pure ti amano, devono servire solo da
materiale per quelli grandi e forti? No, a noi sono cari anche i deboli. Essi
sono viziosi e ribelli, ma alla fine anche loro diverranno ubbidienti. Essi si
meraviglieranno di noi e ci guarderanno come dèi per il fatto che noi,
assumendo la loro guida, abbiamo accettato di portare il fardello della loro
libertà e di governarli - ecco fino che punto sarà diventato orribile per loro
essere liberi! Ma noi diremo di essere i tuoi servi e di governare nel Tuo
nome. Noi li inganneremo ancora una volta, giacché non permetteremo più che tu
venga da noi. E questo inganno sarà anche la nostra sofferenza, giacché noi
saremo costretti a mentire. Ecco il significato di quella prima domanda nel
deserto ed ecco ciò a cui tu rinunciasti in nome di quella libertà che ponesti
al di sopra di ogni cosa. E invece in quella domanda si racchiudeva il grande
segreto di questo mondo. Scegliendo 'i pani', tu avresti dato una risposta
all'ansia comune e eterna dell'umanità, sia di ciascun singolo individuo sia
dell'intera compagine umana, l'ansia che si riassume nella domanda: 'chi
venerare?'. La preoccupazione più assillante e tormentosa per l'uomo, fintanto
che rimane libero, è quella di trovare al più presto qualcuno da venerare. Ma l'uomo
vuole venerare qualcosa di inconfutabile, tanto inconfutabile che tutti gli
uomini acconsentano immediatamente a venerarlo insieme. Giacché la
preoccupazione di questi poveri esseri consiste non solo nel trovare qualcosa
che uno o l'altro possano venerare, ma trovare quel qualcosa in cui tutti
credano e che tutti venerino; la condizione essenziale è che si sia
assolutamente tutti insieme. Ecco, questa esigenza di comunione nella
venerazione è il principale tormento di ogni uomo, preso singolarmente, come
dell'intera umanità, dall'inizio dei secoli. Per questa comune venerazione essi
si sono trucidati fra loro a colpi di spada. Essi hanno creato dèi e si sono
sfidati l'un l'altro: 'Gettate via i vostri dèi e venite a venerare i nostri,
altrimenti sarà la morte per voi e per i vostri dèi!' E così sarà fino alla
fine del mondo, persino quando anche gli dèi saranno scomparsi dalla faccia
della terra: allora cadranno in ginocchio davanti agli idoli. Tu lo sapevi, non
potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, eppure
rifiutasti l'unico infallibile vessillo che ti veniva offerto per costringere
l'umanità a venerarti incondizionatamente - il vessillo del pane terreno - e lo
rifiutasti in nome della libertà e del pane celeste. Guarda che cos'altro hai fatto
tu. E tutto sempre in nome della libertà! Ti dico che per l'uomo non c'è
assillo più tormentoso di quello di trovare qualcuno al quale trasmettere al
più presto quel dono della libertà con il quale il disgraziato essere viene al
mondo. Ma solo colui che acquieta la coscienza degli uomini può dominare la
loro libertà. Con il pane ti veniva dato un vessillo inconfutabile: dagli il
pane e l'uomo si inchina, giacché non v'è nulla di più inconfutabile del pane,
ma se qualcun altro al di fuori di te s'impadronisce della sua coscienza - oh,
allora egli sarà persino capace di gettare via il tuo pane e di seguire colui
che seduce la sua coscienza. In questo avevi ragione. Giacché il segreto
dell'esistenza umana non è vivere per vivere, ma avere qualcosa per cui vivere.
Se l'uomo non ha ben fermo dinanzi a sé il fine per cui vive, egli non
accetterà di continuare a vivere e distruggerà se stesso piuttosto che rimanere
sulla terra, anche se avesse pani in abbondanza intorno a sé. Questo è vero. Ma
che cosa è accaduto? Invece di assumere il dominio della libertà degli uomini,
tu hai reso quella libertà ancora più grande! Oppure hai dimenticato che
all'uomo la pace, e persino la morte, sono più care della libertà di scelta
nella conoscenza del bene e del male? Nulla è più seducente per l'uomo della
libertà di coscienza, ma, nel contempo, non c'è nulla che per lui sia più
tormentoso. Ed ecco che, invece di solidi principi per acquietare la coscienza
degli uomini una volta per tutte, tu hai scelto tutto ciò che di più insolito,
vago ed enigmatico possa esistere, hai preso tutto ciò che è superiore alle
forze dell'uomo e hai finito con l'agire come se non amassi affatto gli uomini,
proprio tu che eri venuto a donare la tua vita per loro! Invece di assumere il
dominio della libertà umana, tu l'hai accresciuta e hai sovraccaricato con i
suoi tormenti il regno spirituale dell'uomo, per sempre. Tu hai desiderato il
libero amore da parte dell'uomo, hai desiderato che egli venisse spontaneamente
a te, attirato e catturato da te. Invece di attenersi alla rigida antica legge,
l'uomo, da allora in poi ha dovuto decidere da solo, con il cuore libero, quale
fosse il bene e il male, avendo unicamente la tua immagine come guida davanti a
sé; ma ignoravi forse che alla fine egli avrebbe rigettato e messo in
discussione persino la tua immagine e la tua verità, se fosse stato schiacciato
da un fardello così spaventoso come il libero arbitrio? Ignoravi che gli uomini
alla fine avrebbero gridato che non in te è la verità, giacché non avrebbero potuto
essere abbandonati in uno stato di confusione e tormento peggiore di quello che
tu hai causato, lasciando sulle loro spalle tanti affanni e tanti problemi
senza risposta? Così facendo tu stesso hai posto le basi per la distruzione del
regno tuo e non puoi biasimare nessuno più di te stesso. E invece che cosa ti
veniva offerto? Ci sono tre poteri, solo tre poteri sulla terra che possono
sconfiggere e soggiogare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli e
renderli felici; essi sono: il miracolo, il mistero e l'autorità. Tu rifiutasti
il primo, il secondo e il terzo e ne desti l'esempio per primo. Quando il
terribile e saggissimo spirito ti pose sul pinnacolo del tempio e ti disse: 'Se
vuoi sapere se sei Figlio di Dio, gettati di sotto, poiché di lui sta scritto
che gli angeli lo afferreranno e lo sosterranno affinché egli non cada e non
urti, allora saprai se sei Figlio di Dio, e darai prova di quanto è grande la
tua fede nel padre tuo', tu, ascoltata la proposta, la rifiutasti, non cedesti
e non ti gettasti di sotto. Oh certo, agisti con magnifico orgoglio, come un
vero Dio, ma gli uomini, la debole schiatta ribelle, sono forse essi dèi? Oh,
tu in quel momento comprendesti che se avessi fatto un passo, se solo avessi
accennato il gesto di buttarti di sotto, in quello stesso momento avresti
tentato Dio e avresti perso tutta la tua fede in lui, e ti saresti schiantato
in pezzi su quella stessa terra che eri venuto a salvare e l'acuto spirito che
ti aveva tentato se ne sarebbe rallegrato. Ma torno a ripetere: sono molti
quelli come te? E potresti davvero immaginare, anche solo per un attimo, che
pure gli uomini sarebbero in grado di affrontare una simile tentazione? La
natura umana è forse fatta in modo da rifiutare il miracolo e, nei terribili
momenti della vita, nei momenti delle più decisive e tormentose crisi
spirituali, rimanere solo con il libero verdetto del proprio cuore? Oh, tu
sapevi che il tuo gesto sarebbe stato conservato nelle Scritture, sapevi che
sarebbe stato tramandato a tempi remoti e ai confini estremi della terra e tu
hai sperato che, seguendo il tuo esempio, l'uomo sarebbe rimasto con Dio, e non
avrebbe avuto bisogno del miracolo. Quello che non sapevi è che nel momento in
cui l'uomo avesse rifiutato il miracolo, immediatamente avrebbe rifiutato anche
Dio, giacché l'uomo cerca non tanto Dio, quanto i miracoli. E dal momento che
l'uomo non è in grado di rimanere privo di miracoli, egli si sarebbe creato da
sé miracoli nuovi, con le proprie forze questa volta, e si sarebbe inginocchiato
dinanzi al miracolo del ciarlatano, alla magia della fattucchiera, pur
rimanendo cento volte ribelle, eretico e miscredente. Tu non scendesti dalla
croce quando ti gridavano per ingiuria e per beffa: 'Scendi dalla croce e
allora crederemo che sei tu.' Tu non scendesti allora, perché ancora una volta
non volesti rendere schiavo l'uomo con il miracolo e anelavi alla fede libera,
svincolata dal miracolo. Bramavi l'amore spontaneo e non gli entusiasmi servili
dello schiavo dinanzi al potente che lo ha atterrito una volta per tutte. Ma
anche in quel caso hai sopravvalutato gli uomini, giacché, infatti, essi sono
schiavi per quanto creati ribelli. Guardati intorno e giudica da te come sono
passati questi quindici secoli, da' un'occhiata ai tuoi uomini: chi si è
innalzato sino al tuo livello? L'uomo ha una natura più debole e più vile di
quello che tu credevi, te lo giuro! È forse egli in grado di fare quello che
hai fatto tu, eh?
Dando prova di
cotanta stima per lui, tu hai agito come se non ne avessi più compassione,
perché hai preteso troppo, e questo proprio tu, che hai amato gli uomini più di
te stesso! Se avessi avuto meno stima dell'uomo, avresti anche preteso di meno,
e in questo saresti stato più vicino all'amore, giacché il fardello sarebbe
stato più leggero. L'uomo è debole e vile. Che importa che ora, dappertutto,
gli uomini si ribellino contro il nostro potere e siano fieri di ribellarsi? È
una fierezza da ragazzino, da scolaretto. Sono come i ragazzini che fanno
chiasso in classe e cacciano via il maestro. Ma anche questo entusiasmo da
ragazzini avrà fine e costerà loro caro. Essi abbatteranno templi e
inzupperanno la terra di sangue. Ma alla fine capiranno, gli stupidi ragazzini,
che anche se sono ribelli, sono dei ribelli deboli, che non reggono il peso
della loro stessa ribellione. Grondanti delle
loro stupide
lacrime, riconosceranno infine che chi li ha creati ribelli aveva senza dubbio
voluto prendersi gioco di loro. Ammetteranno questo nella disperazione e le
loro parole saranno blasfeme e questo li renderà ancora più infelici, giacché
la natura umana non tollera la bestemmia e finisce col vendicarla a proprie
spese. Così, oggi, l'inquietudine, la confusione e l'infelicità sono il
fardello degli uomini dopo che tu hai tanto patito per la loro libertà! Il tuo
grande profeta dice, in visione e per immagini, di aver visto tutti i
partecipanti alla prima resurrezione, dodicimila eletti per ciascuna tribù. Ma
sebbene fossero tanti, essi devono essere stati senza dubbio una specie di dèi,
e non uomini. Essi hanno portato la tua croce, hanno sopportato decine di anni
di deserto sterile e brullo, cibandosi di locuste e radici, e tu puoi davvero
additare con orgoglio questi tuoi figli della libertà, del libero amore, del
sacrificio spontaneo e sublime in nome tuo. Ma ricorda che erano solo qualche
migliaio e per di più dèi, e tutti gli altri? Che colpa hanno tutti gli altri,
uomini deboli, se non hanno potuto sopportare quello che hanno sopportato i
forti? Che colpa ha l'anima debole se non ha avuto la forza di accogliere doni
così tremendi? Può essere vero che tu sia venuto solo dagli eletti e per gli
eletti? Ma se è così, questo è un mistero e noi non possiamo capirlo. E se di
mistero si tratta, allora anche noi abbiamo diritto a professare il mistero e a
insegnare loro che non è il libero arbitrio dei loro cuori a contare, non è
l'amore, ma il mistero al quale devono sottomettersi ciecamente, quasi a
dispetto della loro stessa coscienza. E così abbiamo fatto. Noi abbiamo
rettificato la tua opera e l'abbiamo fondata sul miracolo, il mistero e
l'autorità. E gli uomini
si sono
rallegrati di essere guidati nuovamente come un gregge, si sono rallegrati che
qualcuno avesse finalmente tolto dal loro cuore un dono così terribile che
aveva causato loro tanto tormento. Abbiamo fatto bene ad insegnare questo e a
comportarci in questo modo? Rispondi. Non abbiamo forse amato l'umanità,
riconoscendo con tanta umiltà la sua debolezza, alleggerendo con tanto amore il
suo fardello e permettendo alla sua debole natura persino di peccare, ma sempre
con il nostro consenso? Perché sei venuto a disturbarci adesso? E che hai da
guardarmi con quei tuoi occhi miti e penetranti, senza dire una parola?
Adirati, io non voglio il tuo amore
perché sono io
il primo a non amare te. A che servirebbe nascondere a te la
verità? O forse
non so con chi sto parlando? Quello che ho da dirti lo conosci già alla
perfezione, lo leggo dai tuoi occhi. Sta forse a me nasconderti il nostro
segreto? O forse vuoi proprio sentirlo dalle mie labbra: noi non siamo con te,
noi siamo con lui, ecco il nostro segreto. È da
molto tempo che
non siamo più con te, ma con lui, da otto secoli. Esattamente otto
secoli fa, abbiamo accettato da lui quello che tu rifiutasti con indignazione,
quell'ultimo dono che egli ti offriva mostrandoti tutti i regni della terra: da
lui abbiamo accettato Roma e la spada di Cesare e ci siamo proclamati sovrani
della terra, gli unici sovrani della terra, anche se da allora non siamo ancora
riusciti a portare a termine la nostra opera. Ma di chi è la colpa? Oh, per ora
la nostra opera è soltanto agli inizi, ma ha pur
sempre avuto
inizio. Dovremo aspettare a lungo perché sia completata, e la terra ha ancora
molte sofferenze da patire, ma noi raggiungeremo la nostra meta e diverremo
Cesari e allora provvederemo alla felicità universale degli uomini. Ma avresti
potuto prendere tu allora la spada di Cesare.
Perché
rifiutasti anche quell'ultimo dono? Accettando quel terzo consiglio dello
spirito potente, avresti esaudito ogni desiderio dell'uomo sulla terra: avere
qualcuno da venerare, qualcuno a cui affidare la propria coscienza, e
un modo per
unire tutti in un inconfutabile, comune e armonioso formicaio, giacché
l'esigenza di un'unione universale è il terzo e ultimo tormento dell'uomo.
L'umanità nel suo complesso ha sempre mirato a organizzarsi in uno stato che
fosse necessariamente universale. Ci sono stati molti grandi popoli con una
grande storia alle spalle, ma più questi popoli erano evoluti, tanto più erano
infelici, giacché avvertivano con maggiore consapevolezza degli altri
l'esigenza di unione universale degli uomini. I grandi conquistatori, i
Tamerlani e i Gengis Khan, hanno imperversato come uragani sulla terra nel
tentativo di conquistare l'universo, ma anche loro hanno espresso, seppure inconsapevolmente,
quella stessa imperiosa esigenza dell'umanità di un'unione comune e universale.
Se tu avessi accettato il mondo e la porpora di Cesare, avresti fondato il
regno universale e avresti dato la pace universale. Giacché a chi tocca
dominare gli uomini, se non a coloro che ne dominano la coscienza e nelle cui
mani si trovano i loro pani? Noi abbiamo appunto accettato la spada di Cesare e
accettandola, naturalmente, abbiamo rinnegato te per seguire lui. Oh, ci
aspettano ancora secoli di eccessi del libero pensiero, di scienza e
antropofagia, poiché avendo essi cominciato ad innalzare la loro torre di
Babele senza di noi, essi finiranno con l'antropofagia. Ma verrà il tempo in
cui la bestia striscerà da noi e ci leccherà i piedi e li spruzzerà con le
lacrime di sangue dei suoi occhi. E noi saliremo in groppa alla bestia e
innalzeremo il calice con la scritta: 'Mistero!' Allora, solo allora, avrà
inizio per gli uomini il regno della pace e della felicità. Tu vai fiero dei
tuoi eletti, ma tu hai solo quelli, mentre noi daremo la pace a tutti. E inoltre:
quanti di quegli eletti, di quei forti che avrebbero potuto divenire eletti, si
saranno finalmente stancati di aspettare te? E quanti di loro hanno portato, o
stanno portando, le forze del loro spirito e il fervore del loro cuore in un
altro campo, finendo per innalzare il loro vessillo di libertà contro di
te? Ma tu stesso hai innalzato quel vessillo. Da noi, invece, tutti saranno
felici e non si ribelleranno né si trucideranno più, come fanno con la tua
libertà, per tutta la terra. Oh, noi li convinceremo che diventeranno liberi
solo quando avranno rinunciato alla loro libertà per noi e si saranno assoggettati
a noi. Mentiremo o diremo il vero? Si convinceranno da sé che diciamo il vero,
giacché ricorderanno gli orrori di schiavitù e confusione ai quali ha condotto
la tua libertà. La libertà, il libero pensiero e la scienza li condurrà in
labirinti così intricati e li porrà faccia a faccia con tali miracoli e misteri
insolubili che alcuni di loro, indomiti e violenti, si suicideranno; altri,
indomiti ma fiacchi, si uccideranno l'uno con l'altro, e i rimanenti, deboli e
infelici, strisceranno ai nostri piedi e inneggieranno a noi: 'Sì, avevate
ragione, solo voi siete depositari del suo mistero, e noi torniamo a voi,
salvateci da noi stessi'. Quando riceveranno da noi i pani, essi vedranno
chiaramente che noi prendiamo i loro stessi pani, i pani fatti dalle loro mani
per distribuirli a loro, senza operare alcun miracolo, essi vedranno che non
abbiamo trasformato le pietre in pani, ma in verità saranno più contenti di
ricevere il pane dalle nostre mani che del pane in se
stesso! Giacché
ricorderanno sin troppo bene che in passato, senza di noi, i
pani che
producevano si trasformavano in pietre nelle loro mani, mentre, dopo essersi
rivolti a noi, quelle stesse pietre si sono trasformate in pani nelle loro
mani. Apprezzeranno molto, moltissimo cosa significa assoggettarsi per sempre!
Fino a che gli uomini non avranno capito questo, saranno infelici. Chi più di
tutti ha contribuito a questa incomprensione? Rispondi. Chi ha disperso il
gregge e lo ha sparpagliato per sentieri sconosciuti? Ma il gregge si riunirà
nuovamente e si sottometterà ancora una volta e questa volta per sempre. Allora
noi daremo agli uomini la tranquilla, umile felicità degli esseri deboli, quali
essi sono per natura. Oh, noi li indurremo finalmente a non essere orgogliosi,
giacché tu li innalzasti
e quindi
insegnasti loro ad essere orgogliosi; invece noi dimostreremo che sono deboli,
che sono soltanto dei poveri bambini, ma che la loro felicità infantile è la
più dolce di tutte. Essi diverranno timidi, ci seguiranno con gli occhi e si
stringeranno intorno a noi, come pulcini alla chioccia. Essi si stupiranno di
noi, avranno timore di noi e saranno fieri perché noi siamo così forti e
intelligenti da ammansire un gregge così turbolento, di migliaia di milioni.
Essi tremeranno impotenti dinanzi alla nostra ira, le loro menti diverranno
pavide, i loro occhi facili al pianto, come quelli delle donne e dei bambini,
ma ad un nostro segno saranno ugualmente pronti a passare all'allegria e al
riso, alla gioia spensierata e alle allegre canzoncine infantili. Sì, noi li
costringeremo a lavorare, ma nelle ore di riposo noi organizzeremo la loro vita
come un gioco di bimbi, con canzoncine, cori, danze innocenti. Oh, noi
permetteremo persino che essi commettano peccato - sono creature così deboli e
fragili - ed essi ci ameranno come bambini per il fatto che noi permetteremo
loro di peccare. Noi diremo loro che qualsiasi peccato sarà espiato a patto che
venga compiuto con il nostro permesso; e noi permetteremo loro di peccare
perché li amiamo e ci accolleremo la punizione per questi loro peccati. Ci
accolleremo la punizione e loro ci adoreranno come i benefattori che hanno
assunto su di sé il peso dei loro peccati davanti a Dio. E non avranno nessun
segreto per
noi. Noi
permetteremo - o vieteremo - loro di vivere con mogli e amanti, di avere o non
avere figli - tutto secondo la loro docilità - e loro ubbidiranno con gioia e
allegria. Anche i segreti più tormentosi della loro coscienza, tutto, tutto
essi ci riferiranno e noi troveremo una soluzione per tutto e loro confideranno
nella nostra soluzione con gioia, poiché essa libererà loro dal grande assillo
e dalle tremende pene che adesso patiscono per giungere a una decisione libera,
personale. E tutti saranno felici, milioni di esseri, tranne le centinaia di
migliaia che li governano. Giacché noi, soltanto noi, che conserveremo il
segreto, soltanto noi saremo infelici. Ci saranno mille milioni di bambini
felici e centomila martiri che hanno preso su di sé la maledetta conoscenza del
bene e del male. Essi moriranno tranquilli, si spegneranno tranquilli nel tuo
nome, e oltre la tomba non troveranno null'altro che la morte. E noi
custodiremo il segreto e, per il loro stesso bene, li trarremo in inganno con
la promessa della ricompensa eterna e celeste. Giacché se anche ci fosse
qualcosa nell'aldilà, non sarebbe certo riservato a persone come loro. Dicono e
profetizzano che tornerai ancora vittorioso, tornerai con i tuoi eletti, con i
tuoi forti e orgogliosi, ma noi diremo che essi hanno salvato solo se stessi,
mentre noi abbiamo salvato tutti. Dicono che sarà svergognata la meretrice che
sta in groppa alla bestia
e che tiene in
mano il mistero, che i deboli insorgeranno di nuovo, lacereranno la sua
porpora e denuderanno il suo ripugnante corpo. Allora io mi alzerò e ti
indicherò le migliaia di milioni di bambini felici che non conoscono il
peccato. E noi, che ci saremo accollati il loro peccato per la loro felicità,
ci leveremo dinanzi a te dicendo: 'Condannaci, se puoi e se osi'. Sappi che non
ti temo. Sappi che anche io sono stato nel deserto, anche io mi sono cibato di
locuste e radici, anche io ho benedetto la libertà con la quale tu avevi
benedetto gli uomini, anche io ho tentato di entrare nel novero dei tuoi
eletti, nel novero dei potenti e dei forti che anelano a 'colmare il numero'.
Ma ho aperto gli occhi e non ho voluto servire la follia. Sono tornato sui miei
passi e mi sono unito alle fila di coloro che hanno rettificato l'opera tua.
Mi sono allontanato dagli orgogliosi e sono tornato fra gli umili per la
felicità di questi umili. Quello che ti dico, si avvererà e il nostro regno
sarà edificato. Te lo ripeto: domani vedrai il docile gregge che a un mio
piccolo cenno si lancerà ad ammucchiare carboni ardenti al rogo sul quale ti
farò bruciare per essere venuto a disturbarci. Perché se mai c'è stato qualcuno
che meritasse più di tutti il nostro rogo, quello sei tu. Domani ti farò
bruciare. Dixi"».
Ivan tacque.
Durante il racconto si era infervorato e aveva parlato con trasporto. Ma quando
ebbe terminato, inaspettatamente, sorrise. Alëša aveva ascoltato in silenzio,
ma verso la fine, in preda a forte agitazione, aveva più volte accennato a
interrompere il fratello; poi, evidentemente, si
era trattenuto,
ma adesso sbottò come di scatto.
«Ma questa...
questa è un'assurdità!», gridò arrossendo. «Il tuo poema è un inno di lode a
Gesù, non una denigrazione... come volevi che fosse. E chi ti crede, quando
parli della libertà? È forse questo, questo il modo di intenderla? Non è questa
la concezione che ne ha la Chiesa ortodossa... Quella è Roma e neppure l'intera
Roma, è la parte peggiore del cattolicesimo, gli inquisitori, i gesuiti!... E
poi non può esistere un personaggio così fantastico come il tuo inquisitore.
Quali sarebbero i peccati degli uomini che ha preso su di sé? Chi sono questi
depositari del mistero che si sarebbero accollati una specie di maledizione per
la felicità degli uomini? Dove si sono mai visti? Conosciamo i gesuiti, di loro
si dicono tante cose cattive, ma sono davvero come li descrivi tu?
Nient'affatto,
non sono affatto così... Sono soltanto l'esercito romano che combatte per
fondare su questa terra il futuro regno universale, con il papa
romano in testa
in qualità di imperatore... ecco il loro ideale, ma senza tanti misteri o
nobili afflizioni da parte loro... È pura e semplice ambizione di potere, di
vili vantaggi terreni, di asservimento... qualcosa di simile a una futura
servitù della gleba, con loro che fanno da proprietari terrieri... ecco quello
che vogliono, niente di più. Essi non credono neanche in Dio,
forse. Il tuo
inquisitore sofferente è pura fantasia...»
«Aspetta,
aspetta», disse Ivan ridendo. «Come te la prendi! Fantasia, dici? Ammettiamo
che sia così! Sì, è fantasia. Ma permettimi di domandarti: pensi davvero che
tutto questo movimento cattolico degli ultimi secoli si riduca esclusivamente
ad ambizione di potere per il conseguimento dei vantaggi più vili? È stato
forse padre Paisij a insegnarti questo?»
«No, no, al
contrario, padre Paisij una volta ha detto qualcosa di simile a quello che hai
detto tu... ma certo non proprio esattamente quello, anzi tutt'altra cosa», si
corresse in fretta Alëša.
«Un'informazione
preziosa, malgrado il tuo "tutt'altra cosa". Ti domando: perché mai i
tuoi gesuiti e inquisitori si sarebbero uniti esclusivamente per il
conseguimento di sordidi vantaggi materiali? Perché mai tra di loro non potrebbe esistere un
martire oppresso da una nobile afflizione e amante dell'umanità? Vedi, supponi
soltanto che esista una persona così fra tutti coloro che non desiderano altro
che il conseguimento di vili vantaggi materiali, che esista una sola persona
come il mio vecchio inquisitore, uno che abbia mangiato le radici nel deserto e
si sia accanito nella mortificazione della carne per rendere se stesso libero e
perfetto, una persona che abbia, però, nel contempo, amato l'umanità per tutta
la vita e che di colpo abbia aperto gli occhi e abbia visto che non è poi una
grande beatitudine morale raggiungere la perfezione della volontà, se allo
stesso tempo ci si convince che milioni di altre creature di Dio sono state
create solo per beffa, che essi non avranno mai la forza di stare all'altezza
della propria libertà, che da poveri ribelli, quali essi sono, non potranno mai
nascere giganti in grado di portare a termine la torre, e che non è stato per simili
oche che il supremo idealista ha sognato la sua armonia. Accortosi di tutto
questo, egli è tornato sui suoi passi e si è unito... alla gente di cervello.
Non poteva forse accadere una cosa del genere?»
«A chi si
sarebbe unito? Di quale gente di cervello parli?», gridò Alëša quasi adirato.
«Nessuno di loro ha un simile cervello, né simili misteri o segreti di alcun
genere... Forse sono soltanto atei, ecco il loro gran segreto. Il tuo inquisitore
non crede in Dio, ecco in che consiste tutto il suo segreto!»
«E se fosse
proprio così? Finalmente ci sei arrivato. Ed è proprio così, proprio in questo
consiste tutto il suo segreto, ma non è forse anche questa una sofferenza, se
non altro per un uomo come lui, che ha sacrificato la vita intera nella grande
impresa del deserto e non è mai riuscito a guarire dall'amore per l'umanità? Al
tramonto della sua vita, egli perviene al convincimento che soltanto i consigli
del grande e tremendo spirito potrebbero garantire, in qualche modo, un ordine
tollerabile per i deboli ribelli, per quelle "creature incompiute,
sperimentali, create per beffa". E quindi, convintosi di questo, egli
capisce che deve seguire l'indicazione dello spirito acuto, del tremendo
spirito della morte e della distruzione, e quindi accettare la menzogna e
l'inganno e condurre gli uomini, consapevolmente questa volta, verso la morte e
la distruzione, ingannandoli però per tutto il percorso, affinché non si
accorgano dove vengono condotti e, almeno durante il percorso, questi poveri
ciechi si illudano di essere felici. E nota bene che l'inganno viene perpetrato
nel nome di colui, nel cui ideale il vecchio ha creduto con tanta passione per tutta
la vita! Non è forse questa infelicità? E se soltanto uno di questi uomini si
trovasse a capo dell'esercito "che ambisce al potere per il mero conseguimento
di vili vantaggi", non sarebbe sufficiente anche uno solo come lui per
provocare una tragedia? Non solo: basterebbe che un solo uomo del genere si
trovasse in una posizione di comando, perché diventasse evidente infine
l'autentica idea guida dell'intera organizzazione romana con tutti i suoi
eserciti e i suoi gesuiti, l'idea superiore di questa organizzazione. Non te lo
nascondo: io credo fermamente che non sia mancato mai un uomo del genere tra
coloro che guidavano il movimento. Chi lo sa, forse anche tra i papi di Roma ci
sono state persone così. Chi lo sa, forse quel maledetto vecchio, che amava l'umanità
in un modo così tenace e peculiare, esiste anche adesso sotto le spoglie di
un'intera schiera di simili vegliardi solitari, e non è certo un caso, ma
esiste un accordo, una società segreta, istituita ormai da tempo per custodire
il segreto, per tenerlo nascosto agli uomini, deboli e disgraziati, allo scopo
di renderli felici. Non
c'è dubbio che
sia così e così deve essere. Mi verrebbe da pensare che anche la massoneria
abbia alla base qualcosa di simile a quel mistero e che questo possa essere il motivo
per cui i cattolici odiano tanto i massoni, perché in loro vedono degli
avversari che minacciano l'unità della loro idea, quando invece dovrebbe
esserci un unico gregge e un unico pastore...
Ma difendendo
così la mia idea, faccio la figura dell'autore che non tollera la tua critica.
Basta così».
«Forse anche tu
sei un massone!», sfuggì ad Alëša. «Tu non credi in Dio», soggiunse, ma adesso
era profondamente triste, gli era sembrato addirittura che il fratello lo
guardasse con ironia. «Come va a finire il tuo poema?», gli domandò poi
all'improvviso con lo sguardo basso, «o è finito così?»
«Vorrei dargli
questa conclusione: quando l'inquisitore termina di parlare, aspetta per un po'
di tempo che il prigioniero gli risponda. Gli pesa il silenzio di lui. Egli si
è accorto di come il carcerato lo abbia ascoltato con attenzione,
tranquillamente, guardandolo dritto negli occhi e, evidentemente, senza alcuna intenzione di
replicare. Il vecchio avrebbe voluto che quello gli dicesse qualcosa, per
quanto amara e tremenda potesse essere. Egli invece si avvicina lentamente al
vecchio e lo bacia piano sulle esangui labbra di novantenne. Ecco, è questa
tutta la sua risposta. Il vecchio sussulta. Un leggero fremito gli contrae gli
angoli della bocca, egli va alla porta, la apre e gli dice: "Va' via e non
tornare più... non tornare più... mai, mai più!" E lo lascia andare
"nelle scure piazze della città". Il prigioniero scompare».
«E il vecchio?»
«Il bacio gli
brucia nel cuore, ma il vecchio rimane fedele alla sua idea».
«E tu insieme a
lui, vero?», esclamò Alëša con accento addolorato.
Ivan scoppiò a
ridere.
«Ma questa è
proprio un'assurdità, Alëša, è solo un poema balordo di un balordo studente che
non ha mai messo insieme due versi. Perché prendi tutto così sul serio? Non
penserai mica che adesso io vada direttamente dai gesuiti per unirmi alla
schiera di coloro che rettificano l'opera sua? Dio mio, non è cosa per me! Te
l'ho già detto: voglio tirare a campare sino ai trent'anni e poi... giù il
calice per terra!»
«E le foglioline
vischiose, le care tombe, il cielo azzurro e la donna amata! Come farai a
vivere? Con quale forza potrai amarli?», esclamò Alëša addolorato. «È forse
possibile amare e vivere con un simile inferno nel cuore e nella mente? No, tu
stai andando proprio in quella direzione per unirti a loro... e se non lo
farai, ti ucciderai, ma non riuscirai a sopportare!»
«Esiste una
forza che sopporterà tutto!», disse Ivan, ormai con un freddo sogghigno.
«Quale?»
«La forza... dei
Karamazov, la forza dell'abiezione dei Karamazov!»
«Affondare nella
depravazione, soffocare l'anima nella corruzione, è questo che vuoi dire,
vero?»
«Forse è anche
questo... ma forse fino ai trent'anni riuscirò ad evitarlo, e poi...»
«Come farai a
evitarlo? Con che cosa l'eviterai? Non è possibile, con le tue idee».
«Alla maniera
dei Karamazov, ancora una volta».
«Vuoi dire che
"tutto è permesso"? Tutto è permesso, non è vero, non è vero?»
Ivan si accigliò
e impallidì in modo strano.
«Ah, hai
afferrato quelle paroline di ieri che tanto hanno offeso Miusov... e che il
fratello Dmitrij ha colto al volo e perifrasato così ingenuamente?», disse
sorridendo con una smorfia. «Sì, se vuoi: "tutto è permesso", dal
momento che quelle parole sono state già pronunciate. Non le rinnego. E anche
la versione di Miten'ka non è male».
Alëša lo
guardava in silenzio.
«Io, fratello,
partendo pensavo di non avere altri che te al mondo», prese a dire Ivan con
improvviso sentimento, «mentre adesso vedo che neppure nel tuo cuore c'è posto
per me, mio caro eremita. Non rinnego la formula "tutto è permesso",
e tu, rinnegherai me per questo?»
Alëša si alzò,
si avvicinò al fratello e lo baciò piano sulle labbra in silenzio.
«Plagio
letterario!», gridò Ivan passando all'improvviso ad una sorta di esaltazione.
«L'hai rubato dal mio poema! Grazie, comunque. Alzati, Alëša, andiamo, è ora di
andare per tutti e due».
Uscirono, ma si
fermarono sul terrazzino d'ingresso della trattoria.
«Ecco che ti
dico, Alëša», disse Ivan con voce ferma, «se avrò abbastanza energia per le
foglioline vischiose, allora le amerò ricordando te. Mi basta che tu sia da
qualche parte e la voglia di vivere non mi passerà. Sei contento adesso? Se
vuoi, prendila per una dichiarazione d'amore. Ma adesso, tu per la tua strada e
io per la mia, e basta così – hai capito? - basta così. Cioè, se domani non
partissi (ma credo che partirò sicuramente) e ci capitasse di incontrarci di
nuovo, non fare più parola con me di questi argomenti. Te ne prego caldamente,
e anche in merito al fratello Dmitrij, te ne prego in particolar modo, non dire
più una parola», aggiunse in tono irritato. «L'argomento è esaurito, tutto è
stato già detto, non è forse così? E da parte mia anche io ti farò una
promessa: all'età di trent'anni, quando mi verrà voglia di "gettare il
calice giù per terra", verrò ancora una volta a parlare con te, dovunque
io sia... fosse anche dall'America, ricordatelo. Verrò apposta per questo. Sarà
anche molto interessante darti un'occhiatina per vedere come sarai diventato.
Come vedi, è una promessa solenne. E davvero ci stiamo dicendo addio per sette,
dieci anni, chi lo sa. Va' pure adesso dal tuo Pater Seraphicus, visto
che sta per morire; se dovesse morire senza di te, per favore, non serbarmi rancore
per averti trattenuto. Arrivederci, dammi ancora un bacio, ecco, così e adesso
va'...»
Da "L'uomo in rivolta" di Albert Camus
"Il rifiuto della salvezza"
"Con Dostojevskij, invece, descrizione della rivolta farà un passo avanti. Ivan Karamazov prende le parti degli uomini e pone l'accento sulla loro innocenza. Afferma che la condanna a morte che grava su loro è ingiusta. Nel suo primo movimento almeno, invece di difendere la causa del male, difende quella della giustizia mettendola al di sopra della divinità. Non nega dunque assolutamente l'esistenza di Dio. La confuta in nome di un valore morale. Era ambizione dei ribelli romantici parlare con Dio da pari a pari. Il male risponde allora al male, la superbia alla crudeltà. L'ideale di Vigny pr esempio consiste nel rispondere al silenzio con il silenzio. Senza dubbio si tratta con questo di innalzarsi al livello di Dio , il che è già una bestemmia. Ma non si pensa a contestare alla divinità il suo potere nè il suo posto: Questa bestemmia è riverente poichè ogni bestemmia, in fondo, è partecipazione al divino.
Con Ivan invece il tono muta. Dio è a sua volta giudicato e dall'alto. Se il male è necessario alla creazione divina allora questa creazione è inaccettabile. Ivan non si rimetterà più alla volontà di questo Dio misterioso, ma ad un principio più alto che è la giustizia. Con questo, dà inizio
all’attacco contro il cristianesimo. I ribelli romantici la rompevano con
Dio stesso, in quanto principio d’odio. Ivan rifiuta esplicitamente il
mistero e di conseguenza Dio in quanto principio d’amore. Solo
l’amore può farci ratificare l’ingiustizia fatta a Marta, agli operai della decima ora, e più in là ancora, farci ammettere la morte ingiustificabile
dei bambini. “Se il patimento dei bimbi,” dice Ivan, “serve a compiere
la somma dei dolori necessari al conseguimento della verità, affermo
fin d’ora che questa verità non vale un tale prezzo.” Ivan rifiuta
l’interdipendenza profonda che il cristianesimo ha introdotto tra
sofferenza e verità. Il grido più profondo d’Ivan, quello che apre i più
sconcertanti abissi sotto i passi dell’uomo in rivolta, è il suo anche se.
“La mia indignazione perdurerebbe anche se avessi torto.” Il che
significa che anche se Dio esistesse, anche se il mistero celasse una
verità, anche se lo starets Zosima avesse ragione, Ivan non accetterebbe
che questa verità fosse pagata con il male, la sofferenza e la morte
inflitti all’innocente. Ivan incarna il rifiuto di salvezza. La fede conduce
alla vita immortale. Ma la fede implica l’esistenza del mistero e del
male, la rassegnazione all’ingiustizia. Colui al quale la sofferenza dei
bimbi impedisce d’accedere alla fede non riceverà dunque la vita
immortale. A queste condizioni, anche se la vita immortale esistesse,
Ivan la rifiuterebbe. Egli respinge questo mercato. Non accetterebbe la
grazia se non incondizionata, e per questo pone egli stesso le proprie
condizioni. La rivolta vuole tutto, o non vuole nulla. “Tutta la scienza
del mondo non vale le lacrime dei bambini.” Ivan non dice che non vi
sia alcuna verità. Dice che se verità c’è, non può essere altro che
inaccettabile. Perché? Perché è ingiusta. È aperta qui per la prima volta
la lotta della giustizia contro la verità; essa non avrà più tregua. A Ivan,
solitario, dunque moralista, basterà una specie di donchisciottismo
metafisico. Ma pochi lustri ancora, e una immensa cospirazione politica
mirerà a fare, della giustizia, verità.
Per di più, Ivan incarna il rifiuto di salvarsi da solo. Si fa solidale
con i dannati e, per essi, rifiuta il cielo. Se credesse, infatti, potrebbe
essere salvo, ma altri sarebbero dannati. Il patimento continuerebbe.
Non c’è salvezza possibile per chi patisce di compassione vera. Ivan
continuerà a mettere Dio nel torto rifiutando doppiamente la fede come
si rifiutano ingiustizia e privilegio. Un passo più in là, e dal Tutto o
Niente, passiamo al Tutti o nessuno.
Questa determinazione estrema, e e l’atteggiamento che essa
presuppone, sarebbero bastati ai romantici. Ma Ivan sebbene ceda
anche al dandysmo, vive realmente i suoi problemi, dilaniato fra il sì e
il no.
Da quel momento in poi, procede di conseguenza in conseguenza.
Se rifiuta l’immortalità, che gli rimane? La vita in quanto ha di
elementare. Soppresso il senso della vita, rimane ancora la vita. “Vivo,”
dice Ivan, “a dispetto della logica.” E ancora: “Se non avessi più fede
nella vita, e dubitassi di una donna amata, dell’ordine universale,
persuaso al contrario che tutto non sia che un caos infernale e maledetto
- anche allora, vorrei ugualmente vivere.” Ivan vivrà dunque, e amerà
pure, “senza sapere perché”. Ma vivere è anche agire. In nome di che?
Se non c’è immortalità, non c’è premio né castigo, né bene né male.
“Credo non vi sia virtù senza immortalità.” E anche: “So soltanto che la
sofferenza esiste, che non vi sono colpevoli, che tutto è concatenato,
che tutto passa e si equilibra.” Ma se non c’è virtù, non c’è più legge:
“Tutto è lecito”.
Con questo “tutto è lecito” ha veramente inizio la storia del
nichilismo contemporaneo. La rivolta romantica non andava così in là.
Si limitava a dire, insomma, che non tutto era lecito, ma che essa si
permetteva, per insolenza, quanto era vietato. Con i Karamazov, invece,
la logica dell’indignazione farà che la rivolta si ponga in contrasto con
se stessa, e la getterà in una contraddizione disperata. La differenza
essenziale sta in questo, che i romantici si permettono qualche
indulgenza, mentre Ivan si forzerà a fare il male per coerenza. Non si
permetterà di essere buono. Il nichilismo non è soltanto disperazione e
negazione, ma soprattutto volontà di disperare e di negare. Lo stesso
uomo che prendeva così aspramente le parti dell’innocenza, che
tremava davanti alla sofferenza di un bimbo, che voleva vedere “con i
propri occhi” la cerbiatta dormire accanto al leone, la vittima
abbracciare l’uccisore, dal momento in cui rifiuta la coerenza divina e
tenta di trovare una propria regola, riconosce la legittimità
dell’omicidio. Ivan si rivolta contro un Dio omicida; ma dall’istante in
cui applica alla propria rivolta il raziocinio, ne trae la legge
dell’omicidio. Se tutto è permesso, può uccidere suo padre, o almeno
tollerare che sia ucciso. Una lunga riflessione sulla nostra situazione di
condannati a morte conduce soltanto alla giustificazione del delitto.
Ivan, al tempo stesso, odia la pena di morte (raccontando
un’esecuzione, dice ferocemente: “La sua testa cadde, in nome della
grazia divina”) e ammette, di massima, il delitto. Tutte le indulgenze
per l’omicida, nessuna per il giustiziere. Questa contraddizione, nella quale Sade viveva a proprio agio, esaspera invece Ivan Karamazov.
Egli finge infatti di ragionare come se l’immortalità non esistesse,
mentre s’è limitato a dire che la rifiuterebbe anche se esistesse. Per
protestare contro il male e la morte, sceglie dunque, deliberatamente, di
dire che la virtù non esiste più in quanto non esiste l’immortalità, e
lascia uccidere suo padre. Accetta scientemente il proprio dilemma:
essere virtuoso e illogico, oppure logico e criminale. La sua ombra, il
diavolo, ha ragione quando gli sussurra: “Vuoi compiere un’azione
virtuosa eppure non credi alla virtù, ecco quello che ti irrita e ti
tormenta.” La domanda che si pone infine Ivan, quella che costituisce il
vero progresso che Dostojevskij fa compiere allo spirito di rivolta, è la
sola che qui c’interessi: si può vivere e permanere nella rivolta?
Ivan lascia indovinare la sua risposta: non si può vivere nella
rivolta se non portandola al limite. Che cos’è l’estremo della rivolta
metafisica? La rivoluzione metafisica. Il signore del mondo, contestata
la sua legittimità, dev’essere rovesciato. L’uomo deve occupare il suo
posto. “Poiché Dio e l’immortalità non esistono, è lecito all’uomo
nuovo divenire Dio.” Ma che cosa significa essere Dio? Riconoscere
appunto che tutto è lecito; rifiutare ogni altra legge che non sia la
propria. Senza che occorra sviluppare i ragionamenti intermedi, si
discerne così che divenire Dio è accettare il delitto (idea favorita degli
intellettuali di Dostojevskij). Il problema personale di Ivan consiste
dunque nel sapere se sarà fedele alla propria logica e se, partito da una
protesta indignata davanti alla sofferenza innocente, accetterà
l’uccisione del padre con l’indifferenza di un uomo-dio. La sua
soluzione è nota: Ivan lascerà uccidere il padre. Troppo profondo
perché gli basti il sembrare, troppo sensibile per agire, si accontenterà
di lasciar fare. Ma impazzirà. L’uomo che non capiva come si potesse
amare il proprio prossimo non comprende neppure come si possa
ucciderlo. Costretto tra una virtù ingiustificabile e un delitto
inaccettabile, divorato dalla pietà e incapace d’amore, solitario privo di
un soccorrevole cinismo, la contraddizione ucciderà quell’intelligenza
sovrana. “Ho uno spirito terrestre,” diceva. “A che scopo voler capire
quello che non è di questo mondo?” Ma non viveva se non per quello
che non è di questo mondo, e quest’orgoglio d’assoluto lo sottraeva
appunto alla terra di cui nulla amava.
Il suo naufragio non toglie, del resto, che, posto il problema,dovesse venirne la conseguenza: la rivolta è ormai in cammino verso
l’azione. Questo movimento è già indicato da Dostojevskij, con
intensità profetica, nella leggenda del Grande Inquisitore. Ivan,
insomma, non scinde la creazione dal suo creatore. “Non respingo
Dio,” dice, “respingo la creazione.” In altre parole, respinge Dio padre,
inseparabile da ciò che ha creato Il suo progetto d’usurpazione rimane
dunque puramente morale. Non vuole riformare nulla nella creazione.
Ma la creazione essendo qual è, ne desume il diritto di affrancarsi
moralmente, e gli altri uomini con lui. Al contrario, dal momento in cui
lo spirito di rivolta, accettando il “tutto è lecito” e il “tutti o nessuno”,
tenderà a rifare la creazione per assicurare la regalità e la divinità degli
uomini, dal momento in cui la rivoluzione metafisica si estenderà
dall’etica alla politica, avrà inizio una nuova impresa di portata
incalcolabile, nata anch’essa, dobbiamo notare, dal medesimo
nichilismo. Dostojevskij, profeta della nuova religione, l’aveva prevista
e annunciata: “Se Alioscia avesse concluso che né Dio né l’immortalità
esistevano, sarebbe subito divenuto ateo e socialista. Poiché il
socialismo non è soltanto la questione operaia, è soprattutto la
questione dell’ateismo, della sua incarnazione contemporanea, la
questione della torre di Babele, che si erige senza Dio, non per
raggiungere i cieli dalla terra, ma per abbassare i cieli fino alla terra.
Dopo questo, Alioscia può effettivamente trattare Ivan, con
intenerimento, da “vero sbarbatello”. Si sforzava soltanto al dominio di
sé e non vi riusciva. Altri verranno, più seri, che, muovendo dalla stessa
negazione disperata, esigeranno il dominio del mondo. Sono i Grandi
Inquisitori che imprigionano Cristo e vengono a dirgli che il suo non è
il metodo adatto, che la felicità universale non si può ottenere mediante
la libertà immediata di scegliere tra il bene e il male, ma con il dominio
e l’unificazione del mondo. Bisogna regnare innanzi tutto, e
conquistare. Il regno dei cieli verrà effettivamente sulla terra, ma ci
regneranno gli uomini, dapprima alcuni che saranno i Cesari, quelli che
hanno capito per primi, e tutti gli altri in seguito, col tempo. L’unità
della creazione si farà, con qualunque mezzo, poiché tutto è lecito. Il
Grande Inquisitore è vecchio e stanco, perché la sua scienza è amara. Sa
che gli uomini sono più pigri che vili, e preferiscono la pace e la morte
alla libertà di discernere il bene e il male. Ha pietà, una pietà fredda, di
quel prigioniero silenzioso che la storia smentisce senza posa. Lo incalza a parlare, a riconoscere i suoi torti e a legittimare, in certo
senso, l’impresa degli Inquisitori e dei Cesari. Ma il prigioniero tace. La
loro impresa continuerà dunque senza di lui: lo si ucciderà. La
legittimità verrà alla fine dei tempi quando il regno degli uomini sarà
assicurato. “La faccenda è soltanto all’inizio, e ben lungi dall’essere
finita, e la terra avrà molto ancora da soffrire, ma raggiungeremo il
nostro scopo, saremo Cesare, e penseremo allora alla felicità
universale.”
Il prigioniero, dopo di allora, è stato giustiziato; soli regnano i
Grandi Inquisitori che ascoltano “lo spirito profondo, lo spirito di
distruzione e di morte”. I Grandi Inquisitori rifiutano fieramente il pane
del cielo e la libertà ed offrono il pane della terra senza libertà. “Scendi
dalla croce e crederemo in te,” già gridavano i loro poliziotti sul
Golgota. Ma egli non è sceso e anzi, nell’istante più martoriato
dell’agonia, s’è lagnato con Dio di essere stato abbandonato. Non ci
sono più prove dunque, ma la fede e il mistero, che gli insorti
respingono, e i Grandi Inquisitori beffeggiano. Tutto è lecito e in
quell’attimo sconvolto si sono preparati i secoli del delitto. Da Paolo a
Stalin, i papi che hanno scelto Cesare hanno spianato la via ai Cesari
che non scelgono che se stessi. L’unità del mondo che non s’è fatta con
Dio tenterà ormai di farsi contro Dio.
Ma non siamo ancora a questo. Per il momento, Ivan ci offre
soltanto il volto disfatto dell’uomo in rivolta ridotto all’abisso, incapace
d’azione, dilaniato tra l’idea della propria innocenza e la volontà
d’assassino. Odia la pena di morte perché essa è l’immagine della
condizione umana, e ad un tempo incede verso il delitto. Per aver
parteggiato per gli uomini, sua parte è la solitudine. La rivolta della
ragione, con lui, termina in pazzia".
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