Da “Il libro dell’Inquietudine” di Fernando Pessoa
Oggi, in uno di quei vaneggiamenti senza motivo e senza dignità che costituiscono in gran parte la sostanza spirituale della mia vita, mi sono immaginato libero per sempre da Rua dos Douradores, dal signor Vasques, mio principale, dal contabile Moreira, da tutti gli impiegati, dal garzone, dal fattorino e dal gatto. Ho sentito in sogno la mia liberazione come se i Mari del Sud mi avessero offerto delle isole meravigliose da scoprire. Sarebbe allora la quiete, l'arte riuscita, il compimento intellettuale del mio essere.
Ma all'improvviso, nel bel mezzo della fantasticheria che stavo inseguendo nel caffè, durante la mia modesta vacanza meridiana, un sentimento di scontento è sceso sul mio sogno. Ho sentito che ne avrei provato rincrescimento. Sì, lo dico con una certa solennità: ne avrei provato rammarico. Il signor Vasques, il contabile Moreira, il cassiere Borges, tutti questi bravi ragazzi, il giovanotto allegro che va a spedire la posta, il fattorino che si occupa di tutte le commissioni, il gatto affettuoso: tutto questo è diventato parte della mia vita; non potrei lasciare tutto questo senza piangere, senza capire che, nonostante mi sembrasse insopportabile, era una parte di me che restava con tutti loro, che il separarmi da loro era una dimidiazione e che somigliava alla morte.
Inoltre, se domani mi allontanassi da tutti loro e mi spogliassi di questi panni di Rua dos Douradores, a quale altra cosa mi avvicinerei (perché a un'altra cosa dovrei pure avvicinarmi); quali altri panni indosserei (perché altri dovrei pure indossare)?
Per tutti noi c'è un signor Vasques, per alcuni visibile, per altri invisibile. Per me si chiama veramente Vasques ed è un uomo sano, garbato, talvolta brusco ma senza doppiezza, egoista ma in fondo giusto, con una sua giustizia che manca a molti grandi geni e a molte meraviglie della civiltà umana di destra e di sinistra. Per molti c'è la vanità, l'ansia di maggior ricchezza, la gloria, l'immortalità... Io preferisco il signor Vasques in carne e ossa mio padrone, che nei momenti di difficoltà è più disponibile di tutti i padroni astratti del mondo.
L'altro giorno un amico, socio di una ditta florida che fa affari con lo Stato, ha notato che il mio stipendio è basso. "Lei si fa sfruttare, Borges," mi ha detto. La sua osservazione mi ha fatto pensare che mi lascio effettivamente sfruttare; ma siccome nella vita tutti dobbiamo essere sfruttati, mi domando se non sarà meglio essere sfruttato da un Vasques dei tessuti piuttosto che dalla vanità, dalla gloria, dal dispetto, dall'invidia o dall'impossibile.
Ci sono uomini che sono sfruttati perfino da Dio: sono profeti e santi, nella vacuità di questo mondo.
E rientro, come altri rientrano nella loro famiglia, nella casa altrui, nell'ampio ufficio di Rua dos Douradores. Mi avvicino alla mia scrivania come a un baluardo che mi difende dalla vita. Sento tenerezza, tenerezza fino alle lacrime, per i miei libri di altri nei quali faccio i conti, per il calamaio vecchio, per le spalle curve di Sergio che poco più in là prepara bollette d'accompagnamento. Sento affetto per tutto questo forse perché non ho più niente da amare: o forse anche perché niente merita l'amore di un'anima; e se dobbiamo dare amore per sentimentalismo, è indifferente se lo riserviamo alle piccole sembianze del calamaio o alla grande indifferenza delle stelle.
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Siamo, anche se non lo vogliamo, schiavi del momento, dei suoi colori e delle sue forme, sudditi del cielo e della terra. Perfino colui che più si rintana in se stesso, disdegnando ciò che lo circonda, costui non si rintana nello stesso modo quando piove o quando il cielo è sereno. Oscure mutazioni, forse avvertite solo nell'intimo dei sentimenti astratti, si verificano perché piove o perché ha smesso di piovere, si avvertono senza che le avvertiamo, perché senza sentirlo abbiamo sentito il tempo.
Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso.
Perciò colui che odia il suo ambiente non è la persona che per esso si rallegra o soffre. Nella vasta colonia del nostro essere c'è una folla di molte specie che pensa e sente in modo diverso. In questo stesso momento in cui scrivo queste poche frasi impressionistiche, durante una sacrosanta sosta del lavoro che oggi è scarso, io sono colui che le scrive attentamente, sono colui che è contento perché in questo momento non deve lavorare, sono colui che sta guardando fuori il cielo, invisibile da qui, sono colui che sta pensando tutto questo, sono colui che sente il suo corpo contento e le sue mani ancora vagamente fredde. E tutto questo mio mondo di persone a se stesse estranee, proietta, come una folla diversa ma compatta, un'unica ombra: questo corpo calmo che scrive, questo corpo col quale mi curvo, in piedi, verso la scrivania alta del signor Borges, dove mi sono recato per prendere la mia carta assorbente che gli avevo prestato.
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Il saggio è colui che riesce a rendere monotona l'esistenza, poiché allora ogni piccolo incidente possiede il privilegio di stupirlo. Il cacciatore di leoni non prova più l'avventura dopo il terzo leone. Per questo cuoco monotono, una rissa nella strada ha sempre qualcosa di una modesta apocalisse. Chi non ha mai lasciato Lisbona farà un viaggio infinito sul tram che va a Benfica, e se costui un giorno si reca a Sintra ha la sensazione di avere fatto un viaggio fino a Marte. Il viaggiatore che ha percorso il globo, dopo cinquemila miglia non trova novità, trova soltanto delle cose nuove; un'altra volta la novità, la vecchiaia dell'eterno nuovo, ma il concetto astratto di novità è rimasto in mare con la seconda di esse.
Un uomo, se possiede la vera sapienza, può godere l'intero spettacolo del mondo seduto su una sedia, senza saper leggere, senza parlare con nessuno, soltanto con l'uso dei sensi e il fatto che l'anima non sappia essere triste…. Posso immaginare tutto perché non sono niente. Se fossi qualcosa non potrei immaginare. L'aiutante contabile può sognare di essere un imperatore romano; il Re d'Inghilterra non lo può fare perché il Re d'Inghilterra nei suoi sogni non può essere altro se non il re che già è. La sua realtà non gli permette di sentire.
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Come vorrei, lo sento in questo momento, essere una persona che fosse capace di vedere tutto questo come se non avesse con esso altro rapporto se non vederlo: contemplare le cose come se io fossi il viaggiatore adulto arrivato oggi alla superficie della vita! Non aver imparato fino dalla nascita a attribuire significati usati a tutte queste cose; poter separare l'immagine che le cose hanno in sé dall'immagine che è stata loro imposta. Poter scorgere nella pescivendola la sua realtà umana, a prescindere dal fatto che sia chiamata pesci-Vendola, e dal sapere che esiste e che vende. Guardare un vigile urbano come lo guarda Dio. Capire tutto per la prima volta, non in modo apocalittico, come se fosse una rivelazione del Mistero, ma direttamente, come una fioritura della Realtà.
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Nuvole... Oggi sono consapevole del cielo, poiché ci sono giorni in cui non lo guardo ma solo lo sento, vivendo nella città senza vivere nella natura in cui la città è inclusa. Nuvole... Sono loro oggi la principale realtà, e mi preoccupano come se il velarsi del cielo fosse uno dei grandi pericoli del mio destino. Nuvole... Corrono dall'imboccatura del fiume verso il Castello; da Occidente verso Oriente, in un tumultuare sparso e scarno, a volte bianche se vanno stracciate all'avanguardia di chissà che cosa; altre volte mezze nere, se lente, tardano ad essere spazzate via dal vento sibilante; infine nere di un bianco sporco se, quasi volessero restare, oscurano più col movimento che con l'ombra i falsi punti di fuga che le vie aprono fra le linee chiuse dei caseggiati.
Nuvole... Esisto senza che io lo sappia e morirò senza che io lo voglia. Sono l'intervallo fra ciò che sono e ciò che non sono, fra quanto sogno di essere e quanto la vita mi ha fatto essere, la media astratta e carnale fra cose che non sono niente, più il niente di me stesso. Nuvole... Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio! Nuvole... Continuano a passare, alcune così enormi (poiché le case non lasciano misurare la loro esatta dimensione) che paiono occupare il cielo intero; altre di incerte dimensioni, come se fossero due che si sono accoppiate o una sola che si sta rompendo in due, a casaccio, nell'aria alta contro il cielo stanco; altre ancora piccole, simili a giocattoli di forme poderose, palle irregolari di un gioco assurdo, da parte, in un grande isolamento, fredde.
Nuvole... Mi interrogo e mi disconosco. Non ho mai fatto niente di utile né farò niente di giustificabile. Quella parte della mia vita che non ho dissipato a interpretare confusamente nessuna cosa, l'ho spesa a dedicare versi prosastici alle intrasmissibili sensazioni con le quali rendo mio l'universo sconosciuto. Sono stanco di me oggettivamente e soggettivamente. Sono stanco di tutto e del tutto di tutto. Nuvole... Esse sono tutto, crolli dell'altezza, uniche cose oggi reali fra la nulla terra e il cielo inesistente; brandelli indescrivibili
del tedio che loro attribuisco; nebbia condensata in minacce incolori; fiocchi di cotone sporco di un ospedale senza pareti. Nuvole... Sono come me, un passaggio sfigurato fra cielo e terra, in balìa di un impulso invisibile, temporalesche o silenziose, che rallegrano per la bianchezza o rattristano per l'oscurità, finzioni dell'intervallo e del discammino, lontane dal rumore della terra, lontane dal silenzio del cielo.
Nuvole... Continuano a passare, continuano ancora a passare, passeranno sempre continuamente, in una sfilza discontinua di matasse opache, come il prolungamento diffuso di un falso cielo disfatto.
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Oggi la mia anima è triste fino al corpo. Tutto me stesso mi duole: la memoria, gli occhi e le braccia. In tutto ciò che io sono c'è come una specie di reumatismo. Sul mio essere non ha nessun influsso la luce limpida del giorno, il cielo di un grande azzurro puro, l'alta marea immobile di luce diffusa. Non mi lenisce affatto il lieve soffio fresco autunnale, come se l'estate non passasse, che dà tono all'aria. Nulla è nulla per me. Sono triste, ma non con una tristezza definita, e nemmeno con una tristezza indefinita. Sono triste là fuori, nella strada dove si accumulano le casse.
Questa descrizione non traduce esattamente ciò che sento, perché nulla può tradurre esattamente ciò che qualcuno sente. Ma tento in qualche modo di dare l'idea di ciò che sento, un miscuglio di varie specie di io e della strada estranea che, proprio perché la vedo, anch'essa, in un modo sotterraneo che non so analizzare, mi appartiene, fa parte di me.
Vorrei vivere diverso in paesi lontani. Vorrei morire altro fra bandiere sconosciute. Vorrei essere acclamato imperatore in altre epoche, oggi migliori perché non sono di oggi, viste in un barlume colorito, inedite di sfingi. Vorrei tutto quanto può rendere ridicolo ciò che sono, e perché rende ridicolo ciò che sono. Vorrei, vorrei... Ma c'è sempre il sole quando brilla il sole e la notte quando arriva la notte. C'è sempre la pena quando la pena ci duole e il sogno quando il sogno ci culla. C'è sempre quello che c'è e mai quello che dovrebbe esserci, non perché è meglio o perché è peggio, ma perché è altro. C'è sempre...
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Vivo sempre nel presente. Non conosco il futuro. Non ho più il passato. L'uno mi pesa come la possibilità di tutto, l'altro come la realtà di nulla. Non ho speranze né nostalgie. Conoscendo ciò che è stata la mia vita fino ad oggi (tante volte e per tanti versi l'opposto di come avrei voluto), cosa posso presumere della mia vita di domani se non che sarà ciò che non presumo, ciò che non voglio, ciò che mi succede dal di fuori, perfino attraverso la mia volontà? Non c'è niente nel mio passato che mi faccia ricordare una cosa con il desiderio inutile di avere di nuovo quella cosa. Non sono mai stato altro che un residuo e un simulacro di me stesso. Il mio passato è ciò che non sono riuscito ad essere. Non ho nostalgia nemmeno delle sensazioni di momenti passati: quello che sentiamo esige il suo momento; quando il momento è passato si volta pagina, la storia continua ma non continua il testo.
Breve ombra scura di un albero cittadino, lieve rumore di acqua che cade nella fontana triste, verde dell'erba regolare (giardino pubblico sul far del crepuscolo): voi siete per me, in questo momento, l'universo intero, perché siete il contenuto pieno della mia sensazione cosciente. Dalla vita non voglio altro che sentirla perdersi in queste sere impreviste, al suono di questi bambini estranei che giocano in questi giardini sbarrati dalla malinconia delle strade che li circondano, e incorniciati, oltre che dai rami alti degli alberi, dal vecchio cielo dove le stelle ricominciano.
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Del resto, a cosa servono queste speculazioni di grammaticale psicologia? Indipendentemente da me cresce l'erba, piove sull'erba che cresce, e il sole indora il prato d'erba che è cresciuta o crescerà; i monti si ergono da tempi immemorabili, e il vento passa nello stesso modo in cui Omero, anche se non fosse esistito, l'ha sentito. Sarebbe più giusto dire che uno stato d'animo è un paesaggio; la frase avrebbe il vantaggio di non ospitare la menzogna di una teoria ma solo la verità di una metafora.
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Ho grandi stasi. Non mi succede, come succede a tutti, di lasciare passare giorni e giorni prima di rispondere con una cartolina alla lettera urgente che mi è stata scritta. E non mi succede neppure, come non succede a nessuno, che io rimandi all'infinito la cosa facile che mi risulta utile o la cosa utile che mi risulta piacevole. La mancanza di intendimento con me stesso è ancora più sottile. Ho una stasi perfino nell'anima. Si verifica in me una sospensione della volontà, dell'emozione, del pensiero, e questa sospensione dura lunghi giorni: solo la vita vegetativa dell'anima, la parola, il gesto e l'abitudine, parlano di me stesso agli altri e, attraverso gli altri, a me stesso.
In questi periodi dell'ombra sono incapace di pensare, di sentire, di volere. Non so scrivere altro che numeri o linee. Non provo sentimenti, e l'eventuale morte di una persona amata mi darebbe l'impressione di essere avvenuta in una lingua straniera. Non posso; è come se dormissi e come se i miei gesti, le mie parole, le mie azioni sicure non fossero altro che un respiro periferico, l'istinto ritmico di un organismo qualunque.
Così scorrono i giorni e non saprei dire quanto tempo della mia vita, se facessi la somma, sia passato così. A volte mi assale l'idea che quando mi spoglio di questa mia stasi, forse non sono così nudo come suppongo e che esistono ancora vesti impalpabili che coprono l'eterna assenza della mia anima vera; mi assale l'idea che pensare, sentire, volere, possono essere anche loro delle stasi, nei confronti di un modo di pensare più segreto, nei confronti di un sentire più mio, e di una volontà sperduta chissà dove nel labirinto di ciò che veramente sono.
Ad ogni modo, lascio che sia così. E al dio o agli dèi eventualmente esistenti abbandono ciò che sono, come la fortuna comanda e il caso vuole, fedele a un dimenticato impegno.
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Tante volte, tante, come ora, mi è stato grave sentire che sento; sentire come un'angustia, solo perché è sentire, l'inquietudine di stare qui, la nostalgia di un'altra cosa che non si è conosciuta, il ponente di tutte le emozioni; sentire ingiallirmi consunto dalla cinerea tristezza nella mia coscienza esterna di me.
Ah, chi mi salverà dall'esistere? Non è la morte che voglio, né la vita: è quel qualcosa che brilla nel fondo dell'inquietudine come un diamante possibile nel fondo di un pozzo in cui non si può scendere. È tutto il peso e tutta la pena di questo universo reale e impossibile, di questo cielo vessillo di un esercito sconosciuto, di questi toni che vanno impallidendo nell'aria fittizia da cui l'immaginaria falce crescente della luna emerge con una bianchezza elettrica immobile, ritagliata di lontananza e insensibilità.
È tutta l'assenza di un Dio vero che è il cadavere vacuo del cielo alto e dell'anima chiusa. Carcere infinito: perché sei infinito non si può evadere da te!
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E finalmente, sopra l'oscurità dei tetti lustri, la luce fredda del tiepido mattino appare come un supplizio dell'Apocalisse. È di nuovo l'immensa notte della luce che cresce. È di nuovo l'orrore di sempre: il giorno, la vita, l'utilità fittizia, l'attività senza soluzione. È di nuovo la mia persona fisica, visibile, sociale, trasmissibile attraverso parole che non dicono nulla, utilizzabile dai gesti altrui e dalla coscienza altrui. Sono io un'altra volta, così come non sono. Con l'inizio della luce di tenebre che riempie di dubbi grigi le fessure delle imposte delle finestre (quanto lontano dall'essere ermetiche, Dio mio!), sento a poco a poco che non potrò più conservare il mio rifugio dello stare coricato, di non dormire potendo dormire, di sognare senza sapere che c'è verità o realtà fra un caldo fresco di biancheria pulita e una non conoscenza, salvo per il conforto, dell'esistenza del mio corpo. Sento a poco a poco che mi sfugge l'incoscienza beata con la quale sto assaporando la mia coscienza, il sonnecchiare animalesco con cui spio, con palpebre di un gatto al sole, i movimenti della logica della mia immaginazione separata. Sento a poco a poco che mi svaniscono i privilegi della penombra, e i fiumi lenti sotto gli alberi delle ciglia intraviste, e il sussurrare delle cascate perdute fra il rumore del sangue lento negli orecchi e il vago persistere della pioggia. A poco a poco mi perdo fino ad essere vivo.
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Dicono che il tedio è la malattia degli oziosi, o che attacca solo coloro che non hanno nulla da fare. Eppure questo malessere dell'anima è più sottile: più che i veri oziosi attacca coloro che hanno disposizione per essa e coloro che lavorano, o che fingono di lavorare (che nella fattispecie è lo stesso).
Non c'è nulla di peggio del contrasto fra lo splendore naturale della vita interiore, con le sue Indie naturali e i suoi paesi sconosciuti, e la sordidezza, anche se in realtà non è sordida, della quotidianità della vita. Il tedio pesa di più quando non ha la scusa dell'ozio. Il tedio dei grandi indaffarati è il peggiore di tutti.
Il tedio non è la malattia della noia di non aver nulla da fare, ma una malattia maggiore: sentire che non vale la pena di fare alcunché. E poiché è così, quanto più c'è da fare, tanto più tedio bisogna sentire.
Quante volte sollevo la testa vuota del mondo intero dal registro sul quale sto scrivendo! Sarebbe meglio per me oziare, non fare nulla, senza aver nulla da fare, perché così assaporerei quel tedio, anche se reale. Nel mio tedio presente non c'è quiete né nobiltà, né il benessere del malessere: c'è un enorme annullamento di ogni gesto compiuto, e non una stanchezza virtuale dei gesti che non compirò.
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All'improvviso, come se un destino chirurgo mi avesse operato per una cecità antica ottenendo un grande successo immediato, alzo la testa dalla mia vita anonima verso la chiara conoscenza del come esisto. E vedo che tutto quanto ho fatto, tutto quanto ho pensato, tutto quanto sono stato, è una specie di inganno e di follia. Mi stupisco di quello che non sono riuscito a vedere. Mi sorprendo di quanto sono stato accorgendomi che in fin dei conti non sono.
Guardo, come in una distesa al sole che rompe le nuvole, la mia vita passata; e mi accorgo, con uno stupore metafisico, di come tutti i miei gesti più sicuri, le mie idee più chiare e i miei propositi più logici non siano stati altro che un'ebbrezza congenita, una pazzia naturale, una grande ignoranza. Non ho neppure recitato. Sono stato recitato. Non sono stato l'attore, ma i suoi gesti.
Tutto quanto ho fatto, ho pensato e sono stato, è una somma di subordinazioni, sia a un ente falso che ho creduto mio perché ho agito partendo da lui, sia di un peso di circostanze che ho scambiato per l'aria che respiravo. In questo momento del vedere, sono un solitario immediato che si riconosce esiliato nel luogo in cui si è sempre creduto cittadino. Nel più intimo di ciò che ho pensato non sono stato io.
Mi sopravviene allora un terrore sarcastico della vita, uno sconforto che va oltre i limiti della mia individualità cosciente. So che sono stato errore e traviamento, che non ho mai vissuto, che sono esistito soltanto perché ho riempito tempo con coscienza e pensiero. E la mia sensazione di me è quella di chi si sveglia dopo un sonno pieno di sogni reali, o quella di chi è liberato, grazie a un terremoto, dalla poca luce del carcere a cui si era abituato.
Mi pesa, mi pesa veramente, come una condanna a conoscere, questa nozione improvvisa della mia vera individualità, di quella che ha sempre viaggiato in modo sonnolento fra ciò che sente e ciò che vede.
È così difficile descrivere ciò che si sente quando si sente che si esiste veramente, e che l'anima è un'entità reale, che non so quali sono le parole umane con cui si possa definirlo. Non so se ho la febbre, come sento, se ho smesso di avere la febbre di essere dormitore della vita.
Sì, lo ripeto, sono come un viaggiatore che all'improvviso si trovi in una città estranea senza sapere come vi è arrivato; e mi vengono in mente i casi di coloro che perdono la memoria, e sono altri per molto tempo. Sono stato un altro per molto tempo (dalla nascita e dalla coscienza), e mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui che sono stato finora. Ma la città mi è sconosciuta, le strade nuove, e la malattia senza rimedio. Aspetto dunque affacciato al ponte, che passi la verità, e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale.
Sì, lo ripeto, sono come un viaggiatore che all'improvviso si trovi in una città estranea senza sapere come vi è arrivato; e mi vengono in mente i casi di coloro che perdono la memoria, e sono altri per molto tempo. Sono stato un altro per molto tempo (dalla nascita e dalla coscienza), e mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui che sono stato finora. Ma la città mi è sconosciuta, le strade nuove, e la malattia senza rimedio. Aspetto dunque affacciato al ponte, che passi la verità, e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale.
È stato un attimo, ed è già passato. Vedo ormai i mobili che mi circondano, il disegno della vecchia carta alle pareti, il sole attraverso i vetri polverosi. Ho visto la verità per un attimo. Sono stato per un attimo, coscientemente, ciò che i grandi uomini sono verso la vita. Ricordo i loro atti e le loro parole, e non so se non sono stati anche loro tentati vittoriosamente dal Demone della Realtà. Non sapere di sé vuol dire vivere. Sapere poco di sé vuol dire pensare. Sapere di sé, all'improvviso, come in questo momento lustrale, vuol dire avere subitamente la nozione della monade intima, della parola magica dell'anima. Ma una luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi perfino di noi stessi.
È stato solo un attimo e mi sono visto. Poi, non so più dire ciò che sono stato. E, alla fine, ho sonno, perché, non so perché, penso che il senso è dormire.
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Ho sempre rifiutato di essere compreso. Essere compreso significa prostituirsi. Preferisco essere preso seriamente per quello che non sono, ignorato umanamente, con decenza e naturalezza.
Niente mi farebbe indignare di più del fatto che in ufficio mi considerassero diverso. Voglio godere con me stesso l'ironia del fatto che non mi trovino diverso. Voglio questo cilicio: che mi credano uguale a loro. Voglio questa crocifissione: che non mi ritengano differente. Ci sono sacrifici più sottili di quelli che conosciamo sui santi e sugli eremiti. Ci sono supplizi dell'intelligenza come ce ne sono del corpo e della volontà. E in questi supplizi, come per altri, c'è una voluttà.
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Ci sono momenti in cui tutto ci stanca, perfino ciò che potrebbe riposarci; quello che ci stanca perché ci stanca; quello che potrebbe riposarci perché l'idea di ottenerlo ci stanca. Esistono certe prostrazioni dell'animo al di sotto di qualsiasi angoscia e di qualsiasi dolore; ed essi sono ignoti solo a coloro che evitano le angosce e gli umani dolori e vengono a patti con se stessi per sfuggire al proprio tedio. Non stupisce che, riuscendo a costruirsi una corazza contro il mondo, ad un certo punto della loro consapevolezza di se stessi a costoro pesi l'intera mole della corazza, e la vita diventi per loro un'angoscia alla rovescia, un dolore perduto.
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Nonostante che io sia così incline al tedio, è curioso che fino ad oggi non mi sia mai venuto in mente di riflettere in che cosa il tedio consista. Oggi la mia anima fluttua in quel limbo nel quale non si ha voglia della vita né di un'altra cosa. E utilizzo l'improvviso ricordo del fatto di non aver mai riflettuto sul tedio per immaginare, con pensieri e impressioni, di farne un'analisi fittizia.
Non so in verità se il tedio è soltanto il corrispondente desto della sonnolenza del vagabondo; se è qualcosa di più nobile di quel torpore. In me il tedio è frequente, ma, che io sappia, non obbedisce a regole di apparizione. Mi succede di passare senza tedio una stanca domenica; posso esserne coperto all'improvviso, come da una nuvola, mentre lavoro alacremente. Non riesco a metterlo in rapporto con la salute o con la mancanza di salute; non riesco a conoscerlo come un prodotto di cause che appartengono al lato conosciuto di me stesso.
Dire che è un'angustia metafisica travestita, che è una grande delusione incognita, che è una poesia sorda dell'anima che si affaccia annoiata dalla finestra della vita: dire questo, o una cosa analoga, può colorare il tedio, come un bambino colora un disegno sorpassando e cancellandone i contorni, ma mi porta soltanto un suono di parole che risuona nei sotterranei del pensiero.
Il tedio... Pensare senza che si pensi, con la stanchezza di pensare; sentire senza che si senta, con l'angoscia del sentire; non volere senza che non si voglia, con la nausea di non volere: tutto questo sta nel tedio senza che ciò sia il tedio, e del tedio è soltanto una parafrasi o una traslazione. Consiste in una sensazione diretta, come se sopra il fossato del castello dell'anima si alzasse il ponte levatoio e fra il castello e le terre circostanti restasse il poterle guardare senza poterle percorrere. È un isolamento di noi in noi stessi, ma un isolamento dove ciò che separa è stagnante come lo siamo noi: acqua sporca che circonda la nostra impossibilità di capire.
Il tedio... Soffrire senza sofferenza, volere senza volontà, pensare senza raziocinio... È come l'essere posseduti da un demonio al negativo, come una stregoneria indiretta. Dicono che gli stregoni o le fattucchiere, fabbricando una nostra immagine e facendole del male, possono fare sì che quel male, grazie a una trasposizione astrale, si rifletta su di noi. Attraverso questa immagine, il tedio mi appare come il riflesso dei malefici di un demonio delle fate, diretti non sulla mia immagine ma sulla sua ombra. È nella mia ombra intima, nella superficie del profondo della mia anima che vengono incollati foglietti o vengono infilzati degli spilli. Io sono come l'uomo che ha venduto la sua ombra o meglio, come l'ombra dell'uomo che l'ha venduta.
Il tedio... Eppure io sono un uomo che lavora. Assolvo a quello che i moralisti chiamerebbero il dovere sociale. Assolvo a questo dovere, o a questo fato, senza grande applicazione o negligenza. Eppure, sia mentre lavoro che mentre riposo (riposo che, secondo gli stessi moralisti, mi spetta e deve aggradarmi) il mio spirito trabocca di un fiele di inerzia, e sono stanco, non del lavoro o del riposo, ma di me.
Perché di me, visto che non pensavo a me? Di cosa altro mai, visto che non pensavo a niente? È forse il mistero dell'universo che lambisce il mio ozio o il mio libro della contabilità? È il dolore universale di vivere che si concretizza all'improvviso nella mia anima medianica? Ma perché nobilitare tanto una persona che come me non conosce neppure se stessa? È una sensazione di vuoto, una fame senza appetito, nobile quanto i riflessi dei nervi dello stomaco, causati dalle troppe sigarette o dalla cattiva digestione.
Il tedio... Forse è l'insoddisfazione dell'anima perché non le abbiamo dato una fede; è la desolazione di quel bambino triste che dentro di noi siamo perché non gli abbiamo comprato il giocattolo divino.
Forse è l'insicurezza di chi ha bisogno di essere guidato per mano e nella strada buia della sensazione profonda avverte soltanto la notte silenziosa del non poter pensare, la strada deserta del non saper sentire...
Il tedio... Chi ha un dio non prova mai tedio. Il tedio è la mancanza di una mitologia. Per chi è privo di fede perfino il dubbio è impossibile, perfino lo scetticismo non ha forza di dubitare. Sì, il tedio è questo: la perdita, dentro l'anima, della capacità di illusione, la mancanza, nel pensiero, delle scale inesistenti grazie alle quali il pensiero ascende fiducioso fino alla verità.
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