Un lungo viaggio dentro alla notte, in piedi davanti
alla ritirata della carrozza con il sacco di tela blu
pieno di cose e oggettuncoli e souvenirs, qualche mia
foto con gli amici, qualche libro di Le Carré, un po' di
angoscia che trattiene il respiro ogniqualvolta
mando il pensiero a ciò che m'attende, ma anche
tanta curiosità e voglia di non sottomissione e dirmi
sempre che dopo i trip e gli amori buchi e le paranoie
della vita in provincia non può accadermi nulla di
peggio, ormai sono temprato, un po' di paura che fa
sempre bene sentirsi vibrare addosso nell'entrare in
storie sconosciute, ma anche calma e se è possibile
serenità, insomma sono pronto.
Il treno dondola dentro alla notte, la carrozza è
zeppa, mi stendo in terra a fumare, tiro una canna
con del nero ottimissimo che hanno regalato gli
amici del borgo qualche sera prima, non ho fatto
nessuna festa d'addio, non mi piacciono gli addii, ho
imparato a scantonarli; non esiste nulla di definitivo
figuriamoci gli addii e i fazzoletti e le strizzate di
mano.
Ho preso il treno a mezzanotte e venti su consiglio
del fratello che ha decretato solenne: «Prima arrivi
nella bolgia e meglio è. Se sei già lì di mattino presto
puoi essere selezionato coi primi, sceglierti la branda
e l'armadietto, avere già i vestiti e soprattutto
iniziare dall'inizio».
Sublime tautologia che ha reso
però l'entrata nell'esercito d'Italia nient'affatto
violenta, ma una sorta di penetrazione soffusa
assonnata, sono arrivato a Orvieto alle sei e mezzo
del mattino, ho atteso con altri pochi sventurati
l'arrivo del camion militare, ho declinato le mie
generalità e sono stato portato su alla rupe quando
ancora la caserma doveva svegliarsi e quindi è stato
una specie di risveglio lento, sono entrato in
purgatorio e non all'inferno come invece è successo
a tanti altri arrivati di sera o di notte, attesi dalle
grida dei najoni e dei vecchi, strapazzati, urtati,
scaricati da un ufficio all'altro, senza lenzuola e
senza branda, tutti per terra sui loro sacchi, come
bestie, gente che aveva il fiato corto e la gola secca e
insomma avevi in pieno il senso di una nuova storia
che ci avrebbe invischiati per tanti mesi e poi ancora
altri e altri ancora, a distanza di anni dal congedo,
sarebbero riemerse certe immagini e scattati quei
benedetti flash che ogni militare ha, devi tornare a
soldato.
Ma io sono arrivato presto nella nebbiolina
di Orvieto-Scalo senza salutare nessuno al borgo,
partendo come un fuggiasco al culmine della notte,
come un ladro già deciso a lasciarmi tutto dietro alle
spalle.
E già sul convoglio ho fiutato immediatamente altri visi e altre storie, ragazzi che
partivano come me per la prima volta e soldati che
tornavano in caserma per l'ultima licenza, si
sarebbero congedati da lì a qualche giorno.
Ma ero
molto sicuro di me e mi facevo forte dicendomi non
permetterò certo ai militari di distruggermi, oh non
mi ridurrò come Vinny mai più uscito dal trip in
divisa, ormai cariatide di se stesso che si ficca dentro
di tutto e tratta le sue braccia come bidoni della
spazzatura buttando ero, anfetamine, valium, roipnol
con le siringhe, stravolgendosi con supposte micidiali
a base di morfina e oppio che danno ai malati di
cancro al retto, pasticcandosi di acidi ed eccitanti,
iniettandosi sotto la lingua con aghi sottilissimi,
facendosi nelle gengive, nei piedi, sulle mani, dietro
ai ginocchi, sul cazzo, sul collo, ovunque senta un po'del suo marcio sangue pulsare Vinny sa che quello è
il posto giusto, povero Vinny che ha iniziato a farsi
proprio in quei mesi in divisa a Pordenone, scoppiato
fatto per via delle guardie stressanti una dietro
all'altra, settimane senza riposare né dormire e
allora giù con gli eccitanti almeno per star sveglio in
quelle garitte solitarie come la cella di un
condannato a morte e poi le anfetamine in vena che
smaltiva correndo nel piazzale con gli altri
bersaglieri, la fatica, la spossatezza, correre, correre
e non dormire e allora dentro gli acidi e la polvere e il
brandy dello spaccio e il cordiale del perfetto
militare, Vinny ha cominciato così spacciando poi
nelle camerate, gli hanno trovato un giorno un bel po' di roba, l'ispezione è passata, Vinny davanti al
suo armadietto che tremava e tremava e sudava e si
diceva bè almeno mi cacceranno via di qua, meglio la
galera che l'altana, e invece il capitano apre Fantina,
il tenente fruga tra gli abiti, le bustine sono lì,
evidenti, che brillano alla luce davvero come neve,
Vinny che sta crollando, loro che abbassano gli occhi,
fingono di non vedere niente, richiudono e passano
avanti e Vinny la sera alle cinque torna a montare di
guardia, così per sempre... Vinny che vedo pochi
giorni avanti la mia partenza e ancora mi racconta
chiuso nei cessi del bar sottocasa di come trafficava
e di come passava le licenze rincorrendo i pusher per
mezzitalia e io che dentro a quel cesso ignobile gli
reggo il braccio e glielo tiro e lui che non becca la
vena, io che sudo e gli dico fai presto fai presto e lui
che spreca mezza siringa tentando di eliminare le
bolle e io fisso nella testa il pensiero non mi ridurrò
come Vinny, no, non lo permetterò, non sarà certo il
militare che mi farà scoppiare così... E allora benché
conoscessi di queste allucinanti storie sulla vita in
divisa, storie date di prima mano e nelle situazioni
più impensate, sapevo che il rischio maggiore che
avrei corso non sarebbero stati i militari ma gli stessi
compagni.
Con loro avrei avuto a che fare giorno e
notte, ufficiali e marescialli allora non mi
impensierivano, credevo di sapere come cavarmela
con loro, per questo ero molto calmo in
quell'ingresso di naja, e forse ingenuamente anche
un po' contento per il fatto che avrei conosciuto gente nuova e forse bella
e che quindi sarebbe stato
come sempre un anno con i suoi dolori, ma anche
con i suoi amori. Cosa che puntualmente è giunta.
.....
Così che arrivato alla
caserma guardando i muri mi dico: mi affezionerò a
queste pietre, soffrirò su questa piazza gelida,
fumerò e mi innamorerò sotto al porticato e tutto
insomma scorrerà via senza tanti intoppi fra pene,
amori e delusioni e tutto finirà come è iniziato, un
altro treno e via pronti per la solita storia... Faccio i
conti con me stesso, potrei essere a lavorare, in
carcere, in colonia o a scuola, è la stessa storia,
esattamente identica, che c'è di diverso fra un
capitano e un capufficio, un professore e un
maresciallo? Nulla. Sempre nell'istituzione, sempre
gente a controllarti, sempre dover rendere conto,
non sono mai stato libero e non lo sarò mai, il mondo
mi può cadere addosso fra un momento e allora che
vado fantasticando? Di che cianciando? Ero già del
tutto preso dai miei bisogni di diffusione d'amore per
le stanze e gli oggetti e le atmosfere, già curiosavo
tra gli alberi e i cespugli, già sognavo e fantasticavo
e mentre scendevo dal camion, volgevo lo sguardo
attorno come un matto, volevo vedere e sapere e
digià conoscere, non seguivo la fila degli altri che
parevano mezzi condannati a morte con la testa
bassa e lo sguardo spento, io mi sentivo un fuoco di
curiosità e soprattutto la voglia di cominciare e di andare dentro, prima si fa meglio è, prima ci si dice
questa è la mia storia e non c'è niente al mondo che
possa scostarla di tanto così, prima ci si mette la
coscienza in pace e allora si possono aprire gli occhi
e guardare e curiosare e allacciare immediatamente
sguardi di complicità, scrutare i muri, sbirciare i
cessi, odorare le camerate e i corridoi, leggere gli
annunci e i doveri del soldato, piazzarsi all'interno
dell'ambiente, circondarlo del tuo self, allungare e
protendere la propria storia per inscenarla lì, d'ora in
poi è tutto lì, sarà tutto lì.
Ho addocchiato immediatamente i luoghi in cui avrei
potuto fare canne. Dopo ho imparato che non
esistono luoghi appositi in caserma, è tutta la
caserma che è una fumeria peggio di Istanbul dalle
cucine alle latrine, dai dormitori ai consultori, dai
magazzeni agli uffici alle garitte alle panchine al
monumento al prode granatiere, tutto va bene, tutto
fa brodo, tutto è fumo con l'arrosto.
Ma questo non
potevo saperlo allora quando avevo in tasca quelle
caccole di nero che stavo già immaginando dove
piazzare. Insomma guardavo e curiosavo, non
parlavo, questo assolutamente no, non ero loquace
quella mattina, c'ero solo io e volevo essere solo io.
Dovevo fare tutte le mie cose e distribuire attorno i
pezzetti del mio dissennato senso come in un
giochetto di costruzioni, là andrò a bere, là a
pisciare, qui a dormire e li ahimè a soffrire.
Camminavo con gli altri nuovi nel piazzale, ci hanno
rinchiusi nella grande palestra e lì c'è stato più niente da fare.
Sono crollato di botto negli occhi di
Lele. E non ho più potuto fingere d'essere solo.
Lo stanzone palestra in cui resterò per quasi due ore
insieme a gruppi sempre nuovi di reclute ha delle
strette e alte finestre che guardano verso la strada.
Ci sono alcuni materassini ginnici polverosissimi sui
quali molti si sdraiano; c'è un cavallo con maniglie, ci
sono funi e pertiche, ma soprattutto c'è questo
grande disagio che serpeggia nelle chiacchiere
stupide dei ragazzi, tutti hanno un generale che li
protegge, uno zio maresciallo che li sorregge, i
napoletani hanno i compà, i sardi i fratelli della lega
sarda, i milanesi hanno amici altolocati, i romani
hanno gente, i bolognesi fingo di non sentirli, i
calabresi hanno sorrete e mammete, i pugliesi non si
capisce che cazzo abbiano se una confraternita o una
congrega di zitelle, i toscanacci hanno una parlata da
ghigliottina, antipaticissima e sbracata, i livornesi
poi questa «s» che par tutta uno scivolo lascivo, i
piemontesi hanno grandi occhi spalancati, insomma
nel giro di due minuti dal timido silenzio iniziale
scaturisce tutta la babele dell'Italia rustica e
regionale, ognuno raccolto fra quelli della sua terra
cosicché salta fuori un casino poliglotta, una
sarabanda del dialetto e del falsetto, tutta una
kermesse del vocio nazional-popolare da dare i
brividi. Io guardo al di là della finestra sbarrata.
Scorgo un signore che esce di casa col cagnolino al
guinzaglio. Ho il primo spiazzamento da che son
partito, dico vedi, tutto questo per un anno non sarà
tuo, non ci saranno spese o compere da fare, non ci
sarà libertà di andare e vagare, non ci sarà mai un
gesto così automatico e per questo così
immensamente libero e slegato e autonomo come
quello di quel signore che si sta aggiustando il
cappello, che sorveglia il barboncino, che esce a
passeggio. Potrai fingere, oh questo sì, ma ora sei un
soldato e tutto per te è archiviato.
Ma non sono l'unico a tacere. C'è Lele. Il primo
sguardo che ho incontrato e che mi lascerà soltanto
un anno esatto dopo a Roma, il sei di aprile in una
trattoria di Trastevere. Emanuele. Come Renzu, Elio,
Tony, Gianni, Michele, Maurizio, Giulio, Renato,
Antonio, Raffaele, Stanislao, Paolo. Come Beaujean,
Miguel, Pablito, Enzino, Baffina, Bella Perotto, tutti i
volti della nostra combriccola in divisa che ora, in
quest'altro e terzo aprile da che son partito io sogno
e inseguo e ricalco e descrivo, gente che ho amato e
a cui ho voluto granbene, gente che non m'ha
lasciato, ragazzi bellissimi e altissimi, poiché questa
che state leggendo è tutta una storia di gente alta e
gente bella, di eroi da romanzo, impervi, granitici,
sublimi. Questo è il racconto trafelato di come ci
siamo incontrati e di tutte le intensità che ci hanno
travolto per quei dodici mesi.
Voglio molto bene ai
miei amici. E' per loro, gli altissimi, che ricordo
questa storia che una volta c'era e ora non più. In
onore al glorioso e gayoso 4/80 che riprendo a raccontare.
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