Da "Il lupo della steppa" di Hermann Hesse
Traduzione di Ervino Pocar
Chi ha assaggiato le altre giornate, quelle cattive, quelle con gli attacchi di gotta e col mal di testa appostato dietro i bulbi degli occhi, che trasforma, con diabolica stregoneria, ogni gioiosa attività dell'occhio e degli orecchi in una tortura, o quelle giornate di lenta morte spirituale, le maligne giornate di vuoto interiore e di disperazione nelle quali, in mezzo alla terra distrutta e svuotata dalle società per azioni, gli uomini e la così detta civiltà col suo orpello di latta mentito e volgare ti ghignano incontro ad ogni passo come un emetico concentrato e portato nel proprio io malato all'apice dell'insofferenza: chi ha assaporato quelle giornate infernali si dice ben soddisfatto dei giorni normali e così così, dei giorni come questo, e si siede riconoscente presso la stufa calda, nota riconoscente, alla lettura del giornale, che nemmeno oggi è scoppiata una guerra, che non è sorta un'altra dittatura, non si è scoperta alcuna grossa porcheria nella politica e nell'economia, e con gratitudine accorda la sua lira arrugginita per intonarvi un salmo di grazie moderato, passabilmente lieto, quasi allegro, con cui annoiare il suo Dio della contentezza, un Dio così così, silenzioso, soave, un po' intontito dal bromuro, sicché nell'aria grassa e tepida di questa noia soddisfatta, della benvenuta assenza di dolore quei due, il Dio così così, triste e appisolato, e l'uomo così così, leggermente brizzolato e intento a cantare sommessamente il salmo, si assomigliano come due gemelli.
Sono una bella cosa la contentezza, l'assenza di dolore, le giornate tollerabili e accucciate nelle quali né il dolore né il piacere osano alzar la voce, ma tutto bisbiglia e cammina in punta di piedi. Se non che io sono purtroppo fatto così, non sopporto questa contentezza, che dopo un po' mi diventa odiosa e insopportabile e ributtante, e devo rifugiarmi disperato in altre atmosfere, possibilmente passando per le vie del piacere ma, in caso di bisogno, anche per le vie del dolore. Quando sono stato per un po' senza piaceri e senza dolori e ho respirato l'insipida sopportabilità delle così dette buone giornate, la mia anima infantile è talmente agitata dal vento della miseria che prendo la lira arrugginita della gratitudine e la scaglio in faccia al sonnacchioso e soddisfatto Dio della contentezza e preferisco sentirmi ardere da un dolore diabolico piuttosto che vivere in questa temperatura sana. Allora avvampa dentro di me un desiderio selvaggio di sentimenti forti, spettacolari, una rabbia contro questa vita piatta, sfumata, normale e sterilizzata, e una voglia folle di fracassare qualche cosa, non so, un magazzino o una cattedrale o me stesso, di commettere pazzie temerarie, di strappare la parrucca a un paio di idoli venerati, di fornire a qualche scolaro ribelle il desiderato biglietto ferroviario per Amburgo, di sedurre una ragazzina o di torcere il collo a qualche rappresentante dell'ordine borghese nel mondo. Questo infatti ho più che mai odiato, aborrito e maledetto: questa soddisfazione, la salute pacifica, il grasso ottimismo del borghese; la prospera disciplina dell'uomo mediocre, normale, dozzinale.
In questo stato d'animo conchiusi sul far della notte quella passabile giornata dozzinale. La conchiusi non già in un modo normale e proficuo per un uomo piuttosto sofferente, lasciandomi imprigionare dal letto pronto e dall'esca dello scaldino con l'acqua calda, ma infilandomi invece le scarpe, insoddisfatto e schifato del po' di lavoro eseguito durante la giornata, mettendomi il cappotto sulle spalle e andando in città in mezzo alla nebbia tenebrosa per bere nella locanda dell'Elmo d'acciaio, quello che secondo un'antica convenzione i bevitori chiamano un "dito di vino".
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