lunedì 2 gennaio 2017

Da "Un bel film" racconto di Guillaume Apolinnaire da "l'Eresiarca e C" edizione Garazanti

«Chi non ha un crimine sulla coscienza?» - domandò il barone d'Ormesan. - «Io, da parte mia, non li conto più. Ne ho commessi alcuni che m'hanno fruttato un bel po' di denaro. E se oggi non sono milionario, ciò è imputabile ai miei appetiti piuttosto che ai miei scrupoli.
Nel 1901 avevo fondato con alcuni amici la Cinematographic International Company, che chiameremo più brevemente C.I.C. Si trattava di riuscire ad avere dei films di grande interesse e di dare poi delle rappresentazioni cinematografiche nelle principali città d'Europa e d'America. Il nostro programma era molto ben assortito. Grazie all'indiscrezione d'un domestico avevamo potuto ottenere l'interessante scena raffigurante il risveglio del presidente della Repubblica. Avevamo anche filmato la nascita del principe d'Albania. D'altra parte, a peso d'oro, corrompendo alcuni funzionari del Sultano, avevamo fissato per sempre, proprio mentre si compiva, l'impressionante tragedia in cui il gran visir Melek-Pacha, dopo il lacerante addio alla moglie ed ai figli, bevve il caffè avvelenato, per ordine del proprio signore, sulla terrazza della sua casa del Perà.
Ci mancava la rappresentazione di un delitto. Ma non si conosce in anticipo l'ora del misfatto ed è raro che i criminali agiscano apertamente.
Disperando di poterci procurare, con mezzi leciti, lo spettacolo d'un attentato, decidemmo di organizzarne uno in una villa che affittammo ad Auteuil. Avevamo in un primo momento pensato di ingaggiare degli attori per mimare il delitto che ci mancava, ma, oltre al fatto che avremmo così ingannato i nostri futuri spettatori offrendo loro delle scene truccate, abituati come eravamo a cinematografare soltanto la realtà, non potevamo contentarci d'un semplice giuoco teatrale, per quanto perfetto. Avemmo così l'idea di tirare a sorte quello fra noi che doveva sacrificarsi e commettere il delitto che sarebbe stato fissato dal nostro apparecchio. Ma questa prospettiva non sorrise a nessuno. Eravamo, insomma, un'associazione di persone oneste, e nessuno aveva voglia di perdere l'onore, neanche a scopo commerciale.
Una notte ci mettemmo in agguato all'angolo d'una via deserta, vicino alla villa che avevamo affittato. Eravamo in sei, tutti armati di rivoltella. Passò una coppia. Erano un ragazzo e una ragazza, il cui abbigliamento ricercato ci parve molto adatto a fornire gli interessanti elementi d'un delitto sensazionale. Silenziosi, balzammo sulla coppia, la legammo e la trasportammo nella villa. La lasciammo lì sotto la guardia d'uno di noi. Ci mettemmo di nuovo in agguato, ed essendo apparso un signore dai favoriti bianchi, in abito da sera, gli andammo incontro e lo trascinammo nella villa malgrado la sua resistenza. La vista delle nostre rivoltelle ebbe ragione del suo coraggio e delle sue grida. Il nostro fotografo preparò il suo apparecchio, sistemò le luci e si tenne pronto a riprendere il delitto. Quattro di noi si misero accanto al fotografo e puntarono le rivoltelle sui nostri tre prigionieri. Il ragazzo e la ragazza erano svenuti. Li svestii con commoventi attenzioni. Alla ragazza tolsi la gonna e la camicetta e lasciai il ragazzo in maniche di camicia. Quindi mi rivolsi al signore in frac:
"Signore, - gli dissi - io ed i miei amici non le vogliamo per niente male. Ma esigiamo da lei, pena la morte, che uccida col pugnale che sta ai suoi piedi quest'uomo e questa donna. Cerchi innanzitutto di farli rinvenire. Stia attento che non la strangolino. E siccome sono disarmati, nessun dubbio che ci riuscirà".
"Signore, - mi disse gentilmente il futuro assassino - bisogna pur cedere alla violenza. Lei ha preso le sue misure e non voglio cercare di farla tornare su una decisione il cui motivo non m'appar chiaro, ma le domando una grazia, una sola: mi permetta di mascherarmi".
Ci consultammo e riconoscemmo che era meglio, tanto per lui quanto per noi, che fosse mascherato. Gli misi sulla faccia un fazzoletto a cui feci due buchi al posto degli occhi, e lo scellerato diede inizio alla sua opera.
Si mise a colpire alle mani il giovane. Il nostro apparecchio funzionava e riprendeva questa lugubre scena.
L'assassino punse la vittima al braccio con la punta del pugnale. Il giovane balzò in piedi e si gettò con una forza decuplicata dallo spavento addosso all'aggressore. Ci fu una breve lotta. Anche la giovane si riprese dallo svenimento e si precipitò in soccorso dell'amico. Ma fu la prima a cadere, colpita al cuore da una pugnalata. Quindi fu la volta del giovane. S'accasciò con la gola squarciata. L'assassino fece le cose per bene. Il suo fazzoletto non s'era spostato durante la lotta. Lo tenne finché funzionò il nostro apparecchio:
"Siete soddisfatti, signori? - ci domandò - posso ora far toilette?"
Ci congratulammo con lui, si lavò le mani, si ripettinò, si spazzolò. Quindi l'apparecchio smise di girare.
L'assassino aspettò che avessimo fatto sparire le tracce del nostro passaggio, per la polizia che non avrebbe mancato di venire l'indomani. Uscimmo tutti insieme. L'assassino si accomiatò da noi da uomo di mondo. Tornava in fretta e furia al suo circolo, perché non c'era da dubitare che la sera stessa, dopo una simile avventura, avrebbe vinto delle somme favolose. Salutammo il giuocatore ringraziandolo, e andammo a dormire.
Avevamo il nostro crimine sensazionale.
Fece un enorme rumore. Le vittime erano la moglie del ministro d'un piccolo Stato dei balcani ed il suo amante, figlio del pretendente alla corona d'un principato della Germania del Nord.
Avevamo affittato la villa sotto falso nome e l'amministratore, per non aver delle noie, dichiarò di riconoscere il locatario nella persona del principe. La polizia penò per due mesi. I giornali pubblicarono delle edizioni speciali e, una volta iniziata la nostra tournée, potete immaginare il nostro successo.
La polizia non sospettò neanche per un istante che mostravamo l'autentica realtà dell'omicidio del giorno. Eppure ci prendevamo la briga di proclamarlo a tutte lettere. Ma il pubblico non s'ingannò. Ci fece un'accoglienza entusiastica e, sia in Europa che in America, guadagnammo tanto da distribuire in capo a sei mesi ai membri della nostra società la somma di trecentoquarantaduemila franchi.
Siccome il crimine aveva fatto troppo rumore per poter restare impunito, la polizia finì con l'arrestare un levantino che non fu in grado di fornire un valido alibi per la notte del delitto. Malgrado le sue proteste d'innocenza, venne condannato a morte e giustiziato. Avemmo così un'altra bella possibilità. Il nostro fotografo poté, per un caso fortunato, assistere all'esecuzione e rinforzammo il nostro spettacolo con una nuova scena, fatta apposta per attirare la folla.
Quando in capo a due anni, per ragioni sulle quali non mi soffermerò, la nostra società si sciolse, avevo messo insieme, da parte mia, più d'un milione, che persi alle corse l'anno dopo».

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