giovedì 19 gennaio 2017

Il discorso della hybris (βρις)




L’antitesi  tra forza e giustizia raccontata da Tucidide e commentata da Cacciari




Il contesto

Nel 416 a.C., gli Ateniesi pongono un ultimatum ai Meli, coloni spartani che si erano mantenuti, sino a quel momento, neutrali. Il messaggio non potrebbe esser più chiaro: “O vi sottomettete o vi distruggeremo”: gli Ateniesi parlano concretamente del loro interesse, i Meli di giustizia;


Da Tucidide, La Guerra del Peloponneso, Libro V, nn. 84 e seguenti: la trattativa tra Meli ed Ateniesi

84. Nell'estate successiva Alcibiade con una squadra di venti navi fece un'incursione ad Argo catturando gli individui ancora sospetti di nutrire simpatie politiche di marca spartana: i trecento detenuti furono confinati nelle isole vicine, suddite di Atene. Quindi gli Ateniesi si rivolsero contro gli isolani di Melo con trenta navi della propria flotta, sei di Chio, due di Lesbo, con milleduecento opliti propri, trecento arcieri e duecento arcieri montati: gli alleati e gli abitanti delle isole avevano contribuito con circa millecinquecento opliti. Melo è una colonia degli Spartani: per nulla disposta ad inchinarsi, imitando gli altri isolani, alla grandezza di Atene. Nelle fasi iniziali del conflitto i Meli si mantenevano in sapiente equilibrio tra gli stati in lotta: ma in seguito, sforzati dagli Ateniesi che ne devastavano il territorio, ruppero la propria neutralità e fu guerra aperta. Dunque, piantato il campo sul suolo dei Meli con gli effettivi militari di cui s'è dato cenno gli strateghi Cleomede, figlio di Licomede, e Tisia, figlio di Tisimaco, prima di infliggere danni al paese mandarono un'ambasceria con l'intento di intavolare subito dei preliminari. I Meli non introdussero al cospetto della moltitudine i delegati ma li invitarono ad esprimere le ragioni della visita alla presenza delle autorità più alte e dei notabili. E gli ambasciatori ateniesi esposero questi punti:

 85. Ateniesi  «Poiché questo colloquio tra noi deve restare segreto alle orecchie del popolo, e traluce da questa riserva da voi prescritta l'ansia che esponendo i nostri motivi tutti d'un fiato, con eloquenza ininterrotta, noi s'incanti la folla martellandola di argomenti non esposti volta per volta a una diretta replica (sappiamo che è questo il pensiero che vi turba e che vi ha spinto a presentarci a questo ristretto consiglio), dunque anche voi qui raccolti scegliete per dialogare una strada più sicura. Rinunciate anche voi a un discorso complesso e prolungato: scrutate ogni singola ragione esposta e contrapponendovi di volta in volta le eccezioni che vi parranno opportune, giudicate di essa. E per cominciare dite se la proposta vi conviene.»

86. Il comitato dei Meli emise questo verdetto: «La correttezza leale della vostra offerta, di chiarire serenamente tra noi le varie posizioni, non si discute: ma stride, a nostro giudizio, con l'apparato bellico che già ci minaccia, pronto a mettersi in moto. Voi v'imponete ai nostri occhi in aspetto di arbitri del dibattito non ancora avviato. E ci prefiguriamo il suo esito, com'è facile del resto: se trionferanno le nostre ragioni di giustizia, ispirandoci fermezza, ci toccherà la guerra. Cedendo, la schiavitù

87. Ateniesi: «Attenti a voi. Se organizzate il convegno per scrutare con sospettosi ragionamenti l'avvenire o con altri intenti, non per vagliare alla concreta luce dei casi attuali il vostro stato, e risolvervi a destinare la vostra città ad un sereno futuro, possiamo anche tagliare corto. Ma se la salvezza della vostra gente vi sta a cuore, apriamo pure il dibattito.»

88. Meli: «Usateci comprensione: è umano che chi posa così sulle spine, orienti e sbrigli in mille direzioni le sue fantasie e le sue ansie. Ma statene certi: ci si raccoglie per provvedere alla vita del nostro stato, e si proceda pure a discutere, con le regole che avete indicato.»

89. Ateniesi: «D'accordo. Dal canto nostro rinunciamo all'armamentario fastoso dell'eloquenza, alla retorica interminabile di quei discorsi celebrativi che non danno frutto. Sicché non ribadiremo che per avere demolito la prepotenza persiana, rifulge per noi il diritto all'impero, o che la nostra attuale campagna è la replica a un attentato
inferto al nostro onore. Ma si pretende qui che neppure voi tentiate di piegarci giustificando il vostro rifiuto di fornire leve all'armata con la circostanza che siete coloni di Sparta, o soggiungendo che nei nostri riguardi siete innocenti e puri. Sentite: sforziamoci di restringere le ipotesi di compromesso nei confini del realizzabile, attingendole ciascuno ai principi più autentici cui ispira, di norma, la sua condotta. Siete consapevoli quanto noi che i concetti della giustizia affiorano e assumono corpo nel linguaggio degli uomini quando la bilancia della necessità sta sospesa in equilibrio tra due forze pari. Se no, a seconda; i più potenti agiscono, i deboli si flettono.»

90. Meli: «È nostro avviso, almeno che a proposito d'interesse (già ormai è questa l'espressione da usarsi, poiché voi avete subito accordato il dibattito su questo tono dell'utile ignorando quello di giustizia) non vi convenga annullare le riflessioni che concernono il vantaggio comune, e che sia ragionevole concedere a chiunque, quando si dibatta in un rischioso frangente, i diritti che gli spettano se non altro in quanto creatura umana: tra l'altro, che possa perlomeno aspirare alla salvezza, avvalendosi, pur senza perfetto ossequio alle severe regole del ragionare, degli argomenti che meglio crede. Considerazione che vi tocca più da vicino di chiunque altro, poiché nell'eventualità di una disfatta vi scolpireste esempio eterno nella memoria dei popoli, per l'atrocità sanguinosa della vostra pena.»

91. Ateniesi: «Piano. Non ci sgomenta la decadenza della nostra signoria, se mai tramonterà. Non è chi domina su altre genti, come ad esempio Sparta, la sorgente più viva di terrore per i vinti (e noi, tra l'altro, non siamo in conflitto con Sparta); i soggetti piuttosto devono incutere l'angoscia quando se mai con spontaneo slancio rovesciano il potere dichi li tiene a freno. Ma conviene che è affar nostro vedercela con questo rischio. Per ora siamo qui a documentare due circostanze: primo, che il nostro intervento si ripromette un utile per il nostro dominio; secondo che con le offerte sul tappeto mostreremo la volontà politica di salvaguardare la sicurezza del vostro stato. Intendiamo praticare su di voi un governo libero da ansie e da rischi, e impiegare integre le vostre forze per un comune profitto.»

92. Meli: «E come potrebbero collimare i nostri interessi, noi fatti schiavi, voi a dominarci?»

93. Ateniesi: «A voi toccherebbe la fortuna di vivere sudditi, prima di soffrire il castigo più crudele: e per noi sarebbe un guadagno non avervi annientati.»

94. Meli: «Non sareste paghi della nostra neutralità, se invece di brandire le armi resteremo amici?»

95. Ateniesi: «No. Per noi è minaccia più pericolosa la vostra amicizia che il vostro odio aperto: la prima proporrebbe agli occhi degli altri sudditi un esempio di fiacchezza da parte nostra, il rancore invece rammenterà sempre viva la nostra potenza.»

96. Meli: «Sicché i vostri sudditi possiedono un tale concetto di equità, da assegnare senza discrezione l'identico ruolo nel mondo a chi non ha legami di sudditanza con voi, e ai molti su cui pesa il vostro pugno, tra i quali i più sono coloni e altri son quelli che tentarono la rivolta?»

97. Ateniesi: «Sono anzi convinti che né agli uni né agli altri facciano difetto le ragioni per sostenere la propria causa, e che alcuni appunto si garantiscono questo diritto di libertà con la potenza, mentre noi intimiditi da essa scegliamo di non aggredirli. Dunque lasciamo stare che la vostra conquista ci assicurerà una signoria più estesa: renderete più solida la nostra posizione considerando il fatto che non riuscireste mai voi, forza isolana non certo tra le più potenti, a soverchiare i dominatori del mare.»

98. Meli: «E non vedete che per voi la sicurezza è là, in quell'altra politica? È per noi pure urgente, ancora una volta, prendere a modello il contegno vostro, la costrizione cioè a scartare i temi del diritto per farci curvare a forza la fronte davanti all'idolo della vostra convenienza, e illustrarvi quale sarebbe l'utile per noi, nell'intento, se mai la fortuna sceglie che coincida con il vostro sperato guadagno, d'indurvi ad accettarlo. Tutti gli stati che attualmente non sono iscritti a nessuna lega, credete voi che non prepareranno ostili le armi, quando riflettendo sul nostro destino temeranno di ora in ora che vibriate loro il primo assalto? E non sarà un accrescere, con le vostre mani, le potenze che già vi sfidano? E un colpo di sproni a giurarvi odio, in chi ancora se ne vive in disparte, e vuol star tranquillo?»

99. Ateniesi: «Non ci pare che la minaccia di costoro incomba tanto grave. È gente di terra, sparsa per il continente: vivono liberi, e correrà gran tempo prima che avvertano seriamente l'obbligo di mettersi in guardia contro di noi! Gli isolani, piuttosto, ci fanno tremare, quelli sì! Non solo quelli che, come voi, chi su un'isola, chi su un'altra, non soffrono nessun giogo, ma quelli che, esacerbati, già mordono il freno del nostro impero. Poiché costoro, in uno scatto folle e senza speranza, potrebbero coinvolgerci in una caduta verso ben prevedibili abissi.»

100. Meli: «Ebbene, come voi per non vedervi strappata la vostra sovranità, così gli altri che già servono si affacciano a un così cieco precipizio pur d'abbatterla, non sarebbe prova di spirito vile se noi che godiamo ancora l'indipendenza non ci studiassimo con ogni sforzo di tenercela stretta, di non cambiarla con i ceppi?»

101. Ateniesi: «Nessun indizio di bassezza, se almeno vi ispirate alla ragione. Non è una contesa questa, per voi, in cui confrontarsi a parità di forze e farsi onore. Lo scotto da pagare non è qui la fama di viltà. Urge piuttosto provvedere con prudenza alla vita, senza provocare un nemico troppo più poderoso.»

102. Meli: «Eppure è noto che talvolta le sorti della guerra si orientano verso equilibri che le rispettive potenze in campo non lascerebbero mai supporre. Sicché per noi fletter subito il capo significa precluderci ogni speranza: agendo si può forse nutrirla ancora, questa speranza di risorgere.»

103. Ateniesi: «Speranza: incanto che illude ad osare! Sempre pronta a vibrare un colpo, anche se non a prostrare in ginocchio, chi arrischia con lei il superfluo. Ma chi profonde nell'avventura tutto il proprio (ha natura di prodiga, la speranza!) apprende dopo la disfatta a riconoscerne il volto: quando ormai, a chi sarà entrato in familiarità con lei, spogliato a causa sua di tutto, non sarà più concessa occasione di mettere a frutto quella sua esperienza per farsene scudo, in avvenire. Il vostro paese è debole, e alla bilancia della sorte basterà oscillare di poco per cancellarvi: evitatelo. Come dovreste rinunciare ad imitare la maggior parte dell'umanità, cui, benché sia ancora possibile la salvezza con espedienti terreni, quando ogni tangibile e ragionevole motivo di speranza li abbandona in male acque, sovviene la seduzione dell'oltremondo, i vapori mistici della mantica, gli oracoli, e il fumoso corredo che li accompagna: risorse che suscitano l'illusione, e affrettano il disastro.»

104. Meli: «Credetelo, è arduo soprattutto per noi questo confronto disperato con la vostra potenza e con la sorte se costei non si terrà neutrale. Ci sorregge tuttavia la fede che, in quanto alla fortuna, non sia volontà del dio di sopprimerci: poiché ci erigiamo innocenti a contrasto di chi viola il giusto. Quanto allo squilibrio di forze, c'è fondata ragione di aspettarsi l'intervento amico di Sparta. Crediamo sia costretta a non sottrarsi, se non per altro, alla difesa d'uomini del suo stesso ceppo e per sentimento d'onore. Considerandolo da ogni lato, non è poi tanto folle il nostro ardimento.»

105. Ateniesi: «Quanto al sorriso del dio, siamo certi che anche noi non resteremo in ombra. Poiché le nostre pretese o la nostra politica non varcano gli orizzonti entro cui la coscienza dell'umanità colloca il suo rapporto con la realtà divina o regola civilmente le relazioni tra uomo e uomo. Riteniamo infatti che nel cosmo divino, come in quello umano (vale l'opinione per il primo, ma per l'altro è una sicurezza nitida) urga eterno, trionfante, radicato nel seno stesso della natura, un impulso: a dominare, ovunque s'imponga la propria forza. È una legge, che non fummo noi a istituire, o ad applicare primi, quando già esistesse. L'ereditammo che già era in onore e la trasmetteremo perenne nel tempo, noi che la rispettiamo, consapevoli che la vostra condotta, o quella di chiunque altro, se salisse a tali vertici di potenza, ricalcherebbe perfettamente il contegno da noi tenuto in questa occasione. Ecco i ragionevoli motivi in virtù dei quali non ci allarma la volontà divina: non periremo per causa sua. Per il credito che accordate a Sparta, per il senso d'onore che le attribuite e che dovrebbe spingerla a proteggervi, ci felicitiamo per il vostro inesperto candore, ma non invidiamo in voi l'incoscienza! Negli Spartani, quand'è scopertamente in gioco il proprio destino o le tradizioni del loro stato, fervono gli spiriti più nobili. Ma la discussione sul loro modo di trattare con le altre genti riuscirebbe prolissa: ebbene, stringendola in giudizio conciso si verificherebbe al più alto grado di chiarezza, tra i popoli di cui abbiamo esperienza, che nei loro ideali onesto equivale a gradito e giusto a utile. Non sarà davvero una disposizione spirituale come quella descritta a favorire la vostra irrazionale fiducia di salvezza.»

106. Meli: «Ma è proprio un'obiezione così concepita a metter ali a questa nostra fiducia. Melo è una colonia di Sparta. Sarà la sua opportunità politica a distoglierla dall'idea di tradirci: per non apparire infida a quanti tra i Greci favoreggiano la sua causa, e far così un dono prezioso ai nemici.»

107. Ateniesi: «Ne siete certi? Allora ignorate che, in politica, l'utile va d'accordo con la sicurezza dello stato, mentre a praticare il giusto e l'onesto ci si espone a pesanti rischi. Non sono da Spartani queste prodezze: non è la loro natura.»

108. Meli: «Però noi pensiamo che, in nostro favore, Sparta sarà più portata a imboccare questa strada rischiosa e valuterà, in fondo, meno pericolosi i suoi passi in questo scacchiere che in altri: siamo prossimi, come teatro d'operazioni, al Peloponneso e, per concezioni politiche, la comunanza di stirpe ci rende più degni di fiducia degli estranei.»

109. Ateniesi: «Non ci si può illudere che per chi entra spalla a spalla in un conflitto, la sicurezza assuma il volto dell'affinità politica con chi ne ha invocato l'intervento: deve piuttosto spiccare, in questo o quel settore, un vantaggio bellico ben definito, dal lato di chi ricorre all'alleanza. E Sparta è più scrupolosa delle altre potenze su questo punto (diffida perfino dei propri mezzi e si accinge a una azione d'offesa solo se intorno a lei si assiepa un quadrato ben agguerrito di reparti amici). Sicché non è nemmeno logico aspettarsi che tentino una traversata: verso un'isola poi, quando noi dominiamo i mari!»

110. Meli: «Potrebbe affidare ad altri l'incarico della nostra difesa. Il mare di Creta è ampio. I dominatori del mare saranno tenuti in scacco se vorranno agguantare una squadra: e mille sentieri di salvezza si apriranno a chi vorrà eludere il blocco. Se anche questa prova cadesse, potrebbero offendere il vostro paese e il resto della vostra lega: quegli alleati cui la spada di Brasida non giunse. Così dovrete battervi più per la vostra terra e per quella degli alleati, che per un possesso straniero.»

111. Ateniesi: «Quand'anche quest'ipotesi s'avverasse, non ci coglierebbe sprovvisti d'esperienza, e anche a voi dovrebbe già esser noto che gli Ateniesi non indietreggiarono mai da un assedio per paura d'altri. Ma ormai ci siamo convinti: benché si sia qui asserito che il dibattito doveva avere il suo centro nel problema della vostra salvezza non avete voluto, in questi preliminari non brevi, pronunziare una parola sola cui ci si possa umanamente affidare per concepire un piano sicuro di salvezza. I vostri temi ricorrenti e più solidi sono speranze, fantasie campate nel futuro: e le concrete difese con cui vi proponete di sbarrare il passo al congegno bellico che già preme alle vostre porte paiono troppo fragili per garantirvi scampo. E vi renderete colpevoli di una più sinistra follia, se dopo averci congedati non stillerete dalle vostre menti qualche risoluzione più avveduta. Non vi appellerete, speriamo, al sentimento dell'onore: causa prima di tanta rovina tra gli stati, tra i funesti e minacciosi bagliori di un abisso che può inghiottire un popolo e seppellirlo in un silenzio avvilente. Già più d'uno, con gli occhi ben aperti sul destino cui volava incontro, fu trascinato fatalmente dall'istinto noto tra gli uomini con nome di onore: potere malefico di un nome! Domati da una parola, costoro s'abbattono di schianto su pene irrimediabili, spontaneamente scelte e desiderate, attingendo un'umiliazione più
vile, perché prodotta dalla propria follia, non da una percossa della fortuna. State in guardia, se vi sorregge la ragione, da questa rovina: non sentitevi schiaffeggiati se la città più potente di Grecia vi costringe a cedere, con offerte equanimi. Non è per voi una infamia entrare nella sua lega, serbando la vostra terra a prezzo di un tributo. Vi si consente di scegliere tra la sicurezza e la lotta: non appigliatevi al partito peggiore. Poiché è destinato sempre a felici successi chi non si flette di Eronte agli uguali, mentre intrattiene con i più forti rapporti di prudente fermezza e di severità moderata con gli inferiori. Dibattete fra voi, anche quando noi delegati saremo lontani, questi punti e tornate spesso su questa riflessione: la scelta coinvolge la patria. È una la patria: e a una parola sola, decisiva, sta sospeso il suo destino, di vita o di morte.»

112. A tal punto gli Ateniesi troncarono il negoziato e si ritirarono. I Meli rimasero con se stessi: e ostinati in quei medesimi principi che avevano espresso in sede di dibattito, emisero il seguente comunicato: «La nostra decisione non è mutata, cittadini d'Atene, non strapperemo a una città viva ormai da ottocent'anni, con una parola che dura un attimo, la sua libertà. Pieni di fede nella fortuna che sotto il governo degli dei l'ha per tanti secoli salvaguardata, tenteremo con le nostre forze e aspettando l'aiuto spartano, di salvare la città. Ci offriamo neutrali alla vostra amicizia, e vi proponiamo di allontanarvi dal nostro suolo dopo aver sancito quei patti che ad ambedue promettano e garantiscano un profitto.»

113. Fu tutto qui il responso dei Meli. Gli Ateniesi sospendendo definitivamente a questo punto i negoziati, replicarono: «A giudicare da questa risposta, frutto di una risoluzione meditata, si potrebbe dire che tra gli uomini voi siete gli unici a valutare il patrimonio del futuro più solido di quello del presente. Per il desiderio che vibra in voi scorgete una realtà concreta laddove è l'invisibile. E per esservi dati, anima e corpo, agli Spartani, alla sorte, alle speranze con la più incondizionata fiducia, crollerete nel più sanguinoso disastro.»

114. I delegati ateniesi tornarono al proprio campo. Gli strateghi, poiché i Meli opponevano un così netto rifiuto, si dedicarono a preparare l'azione e distribuiti tra i reparti, città per città, i vari compiti, si pose mano al blocco dei Meli con un baluardo. Più tardi, lasciata una guarnigione di milizie cittadine ed alleate, gli Ateniesi ritirarono per terra e per mare il nerbo dell'esercito. Il presidio distaccato in quella località guardava il bastione.

……..

116. Nel seguente inverno gli Spartani, che avevano in proposito di invadere l'Argolide, rimpatriarono poiché alla frontiera i loro sacrifici non erano riusciti propizi. Il disegno spartano fece balenare in Argo il sospetto che certi personaggi in città non ne fossero proprio all'oscuro: sicché parte furono arrestati, mentre altri sparirono. Proprio a quell'epoca i Meli attaccarono, in un altro punto, per la seconda volta, lo sbarramento ateniese, dove le scolte erano al minimo. Aggiuntosi più tardi un nuovo esercito da Atene, per porre riparo al moltiplicarsi di simili tentativi, al comando di Filocrate figlio di Demeo, l'assedio fu stretto con più ferreo vigore. Inoltre in seno ai Meli ci fu un tradimento: ed essi si videro obbligati alla resa senza condizioni. Gli Ateniesi passarono per le armi tutti i Meli adulti che caddero in loro potere, e misero in vendita come schiavi i piccoli e le donne. Si stabilirono essi stessi in quella località, provvedendo più tardi all'invio di cinquecento coloni.





Da Geofilosofia dell’Europa di Massimo Cacciari:





L’aspetto più inquietante  del discorso ai Meli degli ambasciatori ateniesi non riguarda le parole che essi pronunciano, ma il loro ritmo: implacabili parole di morte scandite in quiete (συχα). Nessuna emozione, nessun furore. E nessuna impazienza: così “procede” soltanto chi è perfettamente sicuro di possedere il vero, certo che il proprio fare sta su un fondamento inconcussum. In ciò questo discorso si distingue nettamente da quello sofistico; solo apparentemente esso è tutto traducibile nella massima  che la giustizia è l’utile del più forte; ancor meno esso afferma la superiorità dell’ingiustizia o esalta la tirannide. Il discorso degli ateniesi  pretende di valere come il solo giusto – e non solo per gli uomini, ma anche per gli dei: il Nomos (Νόμος, spirito della legge, legge) che spinge ad usare la propria archè  su chi puoi con la forza dominare, non appartiene ai molti, convenzionali nomoi della città e neppure è stato stabilito dagli dei, ma viene da necessità di natura (105 n. 2). Non è misurato dall’uomo, ma lo misura. Non è invenzione di uomini acuti e sapienti in quanto lo seguono. Gli  Ateniesi possono affermare con tranquilla coscienza di ritenere, perciò, che l’appoggio divino non verrà loro meno (105,3). I Meli cercano impazientemente, di persuadere gli ateniesi che essi si muovono ingiustamente, fuori da Dike (Δίκη, giustizia), e che tutto il loro argomentare non è, diremmo, che ‘ideologia’ – ma gli ateniesi, pazientemente, ribattono che dalla loro parte non sta semplicemente la ragione del più forte, ma lo stesso Nomos  divino, che, in realtà sono essi ad obbedirvi, mentre i Meli pretenderebbero follemente di ribellarvisi. Sono gli spartani, semmai, quelli che stimano bello ciò che piace e giusto ciò che giova (V, 105,4)! Gli Ateniesi seguono, invece, il logos (λόγος, discorso/ragione/giudizio) comune a tutti i desti, fondato sulla necessaria natura delle cose umane e divine. Questo logos afferma, per sempre, che non bisogna opporsi a chi è di gran lunga più forte (V, 101), che è folle anteporre il suono e la seduzione delle parole alla salvezza dell’unica patria (e cioè che la parola non può essere scambiata con la cosa), che ciò che è presente e visibile è più saldo e sicuro di ogni speranza o desiderio, che il saggio non fa conto su tyche (Τύχη, sorte, fortuna, destino)  ma sulla propria areté (ρετή, virtù). E’ in questo contesto che occorre comprendere l’affermazione iniziale degli ambasciatori in base alla quale “per quanto concerne le cose della giustizia, si giudica, nel ragionamento umano sulla base di un’uguale necessità, mentre (se tale uguaglianza non sussiste) chi è più forte fa ciò che può e che è più debole deve cedere  (89). Ananke ( νάγκη, necessità) (come in V 105  2) è il termine chiave. Gli Ateniesi non possono diversamente. I Meli lo dovrebbero, invece, poiché  la loro prassi è contro natura. I primi sanno (epistamenous πιστάμενους V. 89) i secondi delirano, come delirano i più allorché il pericolo incalza e col pericolo la necessità della chiara decisione, affidando la propria sorte a cieche speranze. (103)…. Per questi motivi il dialogo è tremendo  e Tucidide stesso, il suo inventore sembra assistervi ammutolito. Perché qui non soltanto polemos (πλεμος, lotta, guerra) si manifesta secondo la facies di Hybris (βρις, superbia), ma la Hybris  stessa ragiona, è logos, pretende di valere come necessaria: è giusto che il male sia. Giustizia, nel discorso degli Ateniesi, non è sinonimo di utile (come a torto, credono i Meli) ma di necessario…. Dall’alto di questa potenza, che fida soltanto in se stessa , che nulla d’improvviso o inaspettato deve poter piegare (II 61, 2,3) bisogna  muovere contro i nemici  non soltanto con animo sicuro (μ φρονηματι  μόνον), con orgogliosa sicurezza  ma anche con disprezzo (λλ κα καταφρονηματι) quel disprezzo che nasce dall’assoluta fiducia nella propria  superiorità. La valutazione esatta dei mezzi di cui si dispone permette di prevedere il futuro, senza doversi affidare alla speranza, che riguarda soltanto il dominio dell’incerto  - ed è su questo fondamento sulla base dell’esatta valutazione dei rapporti di forza che si disprezza il nemico. Tremendo apparire di una nuova forma di hybris: tutta fondata sul logos. E che perciò  essere immanente al polemos, alla techne (τχνη) della guerra. Hybris propria dell’illuminismo del logos: fidare nella propria forza, saperla calcolare, sperare soltanto  in ciò che è visibile,   nelle φανραι  λπδες (manifeste speranze/timori) e lasciar  mantica e oracoli. Le tradizionali forme del religioso non debbono “religare” i più forti –ma i più forti sono tali non per cieco furore, non per semplice audacia, ma perché sanno che cosa realmente sia giustizia  e corrispondono al Necessario.  Nemmeno la philia (φιλα) può valere per essi come principio supremo (la philotesφιλότης - platonica garanzia contro la hybris  della stasis - στσις/discordia): rispettarla in determinate circostanze  è soltanto segno di astheneia (σθνεια),  di debolezza. Meglio l’odio, allora, poiché odio l’odio  contro i più forti  è prova appunto della loro forza (95). …. Una necessità incombe sulla città che deve ormai esprimere tale sua potenza: essa non può esimersi dal comandare, e il comandare inesorabilmente suscita ogni forma di inimicizia. Perché il comandare esiste sempre anche come la tirannide. Ma non basta chi esercita il comando subisce egli stesso il potere quasi come una tirannide: chi è costretto a comandare sarà tiranneggiato dalla necessità dell’archè in tutte le sue conseguenze. Chi volesse  liberarsene , rovinerebbe la città. 

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